venerdì 21 dicembre 2012

La strage del 18 dicembre 1922 a Torino: la violenza impunita degli squadristi



     Allo spettacolo della violenza siamo abituati. Basta accendere un televisore, o trovarsi a navigare su Internet, e incrociamo facilmente tutta una gamma svariata di situazioni, dallo scontro con la polizia all’incidente nel contrasto alla guerriglia. Ci può essere in tutto questo una forma perfino piacevole di coinvolgimento a distanza. Una forma tutto sommato simile a quella che può accompagnare la visione di un western, o la partecipazione a un videogioco. Gli aggressori muoiono uno dopo l’altro freddati dai colpi che vanno a segno. Cos’è la morte in casi del genere? E’ la scomparsa dell’elemento nocivo. Un elemento la cui funzione è solo quella, rappresentare l’ostacolo: non è portatore di una storia, o di sue ragioni, va eliminato e basta. Eppure questa violenza che si affaccia alle soglie del nostro mondo, del mondo a noi familiare, e che qualche volta abbiamo forse potuto vedere più da vicino è qualcosa che pure ci appartiene. Tutti siamo portatori di impulsi aggressivi, questo è certo. Preferiamo in genere non pensarci troppo. Ci piacerebbe a volte poter risolvere uno scontro nella vita come avviene nel western o nel video gioco. Una rapida sequenza, e coloro che non ci piacciono saltano per aria come birilli scomposti dall’arrivo della boccia. Il guaio è che nella vita reale non abbiamo a che fare con ragni agitati sullo schermo o con indiani ululanti intorno al carro dei pionieri. Possiamo pure pensare che i nostri nemici siano cattivi e meritino la morte, ma non siamo autorizzati a farci giustizia da soli. Anche perché non è detto che il male e il bene siano messi esattamente come noi pensiamo, il bene dalla nostra parte e il male cucito addosso ai nostri nemici. E chi siamo noi per giudicare a nome di tutti? E poi. E poi c’è la legge. Viviamo all’interno di uno Stato ed è lo Stato che detiene il monopolio legale della violenza. Lo Stato, e per esso i suoi rappresentanti possono giudicare e infliggere punizioni. I cittadini non sono autorizzati a farsi giustizia da soli.
     Che cosa succede invece se la violenza ridiventa un fatto privato? Se una parte dei cittadini si mette a girare armata e colpisce chi vuole, senza dover rendere conto alla giustizia? E, intanto, può succedere una cosa simile? Può succedere, è successo in Italia tra il 1920 e il 1922 nel periodo corrispondente all’ascesa al potere del fascismo. La strage del 18 dicembre si verifica in quel periodo, a Torino. Come si sia arrivati a quel punto non è facile spiegare. Prima della guerra una situazione come quella sarebbe stata impensabile, tra l’altro. Ma c’era stata la guerra, appunto. Quella che ci siamo abituati a chiamare prima Guerra Mondiale e che per due decenni fu designata come Grande Guerra. Non se ne era mai vista una simile in precedenza. Milioni di uomini alle armi in tutta Europa e anche un po’ altrove nel mondo, sul finire anche negli Stati Uniti, per esempio. Una guerra industriale con i treni, i cannoni e perfino le automobili o gli aerei.
Fu combattuta per oltre quattro anni in Europa. Per l’Italia che intervenne in un secondo tempo durò un po’ meno, tre anni e cinque mesi, dal maggio 1915 al novembre 1918. Sempre tanti. Ci furono dei vincitori e dei vinti, scomparvero degli imperi, il posto dell’Austria Ungheria fu preso da cinque Stati diversi. L’Italia era tra i vincitori, ma poi non riuscì a ottenere tutto ciò che le era stato promesso, per questo si parlò di vittoria mutilata. Eppure non tutto parve compromesso dall’inizio nel novembre 1918, con il ritorno della pace. Per le classi lavoratrici si aprì allora un periodo di lotte spesso coronate da risultati positivi; aumentarono i salari e per i contadini senza terra si aprì una qualche prospettiva di accesso alla proprietà. Nel settembre 1920 ci fu l’occupazione delle fabbriche; i lavoratori tentarono di organizzare la produzione facendo a meno dei proprietari. Dopo di allora nulla fu più come prima. Fecero la loro apparizione le squadre fasciste e si misero a imporre con la forza il rispetto dell’ordine e delle gerarchie sociali. Decisivo fu per questo  l’atteggiamento delle autorità che in genere lasciavano fare. Non si può dire allora che in Italia il monopolio legale della forza fosse venuto meno. Si era di fatto esteso ai fascisti.
     La vita politica aveva quindi cambiato natura. La libera discussione non era sufficiente a stabilire con il voto chi avesse il potere di governare. Ormai contava anche l’esibizione della forza. Quando i fascisti nell’ottobre 1922 inscenarono la cosiddetta marcia su Roma, ci fu un decisivo cambiamento di fase. Il re Vittorio Emanuele III non volle firmare lo stato d’assedio, rifiutò quindi il ricorso alla forza militare per sventare la manovra fascista. Decise invece di affidare al capo dei fascisti, Benito Mussolini, la formazione del nuovo governo. Non fu quello l’inizio della dittatura. Mussolini formò un governo di coalizione con altri partiti. Un equilibrio si era ugualmente spezzato. Il fascismo non era più soltanto tollerato (e segretamente appoggiato) dalle autorità, era ormai esso stesso l’autorità, cominciava identificarsi con lo Stato. Mussolini come presidente del consiglio aveva ottenuto la fiducia della Camera dopo aver minacciato i deputati: «Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.»  Le buone maniere dello Stato liberale nei rapporti tra le forze politiche all’interno del Parlamento appartenevano ormai al passato.  
     Torino nell’ottobre 1922 non si era ancora arresa al predominio fascista nel mantenimento dell’ordine. Diversamente da ciò che era accaduto in altre città l’organizzazione operaia era ancora forte e rispettata. C’era stato l’incendio della sede sindacale, la Camera del lavoro, il 25 aprile 1921. I fascisti avevano agito di notte, alle tre del mattino più esattamente. Ci furono solo due morti in quella occasione, il portinaio, ucciso a pugnalate e uno squadrista. Poi però si erano verificati altri momenti di tensione tra i fascisti e gli operai socialisti o comunisti, e non era apparso evidente che i fascisti fossero i più forti. Il 16 luglio 1921 per esempio ci furono i funerali di due comunisti uccisi. Fecero la loro comparsa gli Arditi del popolo, le milizie operaie. Due o trecento uomini militarmente inquadrati resero omaggio ai caduti e sfilarono verso il centro cittadino. Qualcosa di simile accadde ancora nel novembre 1922: «il 7 novembre, anniversario della Rivoluzione russa, si erano avute manifestazioni in alcune fabbriche e un corteo di donne in Borgo San Paolo; un notevole successo elettorale comunisti e socialisti avevano poi conseguito negli stessi giorni in occasione delle elezioni dei due rappresentanti operai nel Consiglio d’amministrazione della Cassa di soccorso e di previdenza dei metallurgici (su 33.403 votanti i comunisti avevano avuto 14.356 voti, i socialisti 12.895 e i popolari [cattolici] 2.035). La sera del 18 novembre, infine, in una località della periferia cittadina aveva avuto luogo addirittura la consegna dei gagliardetti a sette ‘compagnie’ maschili e ad una ‘compagnia’ femminile di ‘squadristi comunisti’» (R. De Felice).
     Come è noto, in qualche occasione, l’intervento deciso della forza pubblica o la resistenza armata della popolazione sono riusciti a fermare i fascisti. E’ accaduto a Sarzana nel luglio 1921: circa 500 fascisti intenzionati a liberare con la forza i loro camerati detenuti nel carcere locale trovarono ad accoglierli una quindicina di carabinieri decisi a usare le armi; dalla contabilità dei morti si arguisce che,  dopo i primi colpi, i fascisti “spararono in aria, obbedendo all’ordine di rispettare la forza pubblica” (Franzinelli). Fu una disfatta memorabile per gli assalitori che nella fuga furono attaccati dalla popolazione in armi. Un caporale perse la vita, mentre tra i fascisti si ebbero in tutto undici morti. Si era stabilita a Sarzana un’alleanza di fatto tra Arditi del popolo e carabinieri (M. Millan). E’ accaduto a Parma nei giorni dal  4 al 6 agosto 1922, quando gli arditi del popolo agli ordini di Guido Picelli hanno respinto il massiccio attacco fascista diretto da Italo Balbo; ci sono stati 5 caduti tra i difensori e una quindicina tra i fascisti secondo Balbo che aveva di sicuro interesse a non rendere più pesante il bilancio per i suoi.       
      Si arriva così al 17 dicembre 1922. I fascisti tentano di aggredire un tranviere comunista, Francesco Prato, e questi che è armato reagisce uccidendo due dei suoi aggressori. Era forse il pretesto del quale i fascisti avevano bisogno per scatenare un’ offensiva terroristica contro i lavoratori che non si erano sottomessi alle loro spavalde esibizioni di forza. Il capo degli squadristi in città, Piero Brandimarte, romano di nascita,  era stato capitano dei bersaglieri nella Grande Guerra. Congedato alla fine del 1918 lavorava come commesso di merceria a Torino. Dopo l’uccisione dei due fascisti il 17 dicembre emise un proclama nel quale dichiarava: « I nostri morti non si piangono, si vendicano. Ordino l’adunata degli squadristi stasera al Fascio».  Si vantò poi di aver seguito un piano preordinato, ma il resoconto degli avvenimenti successivi sembra dargli torto. Le spiegazioni successive offerte da Brandimarte furono improntate all’arroganza e al disprezzo per il nemico: i cadaveri che non sono stati ritrovati - disse – «saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nei fossi, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti Torino». Durante il regime il suo comportamento nel dicembre 1922 non determinò nessuna condanna a suo carico, anzi egli fece carriera nei ranghi della Milizia diventando nel 1934 console generale. Anche dopo la Liberazione riuscì a sottrarsi alla giustizia grazie all’atteggiamento benevolo della magistratura nei suoi confronti. Il 19 novembre 1971 un reparto di bersaglieri del 22° reggimento fanteria della divisione Cremona rese gli onori militari alla sua bara.

     Torino per certi aspetti e, in modo più pieno, Sarzana e Parma furono le eccezioni. Normalmente quello fascista fu un predominio quasi incontrastato. Un tale andamento dello scontro non fu dovuto anche agli errori commessi dagli oppositori? Se non si ragiona in termini di martirio, ma si guarda ai comportamenti che sarebbero stati più efficaci, gli antifascisti si rivelarono incapaci di adottare una strategia difensiva conseguente. Quando ricorsero alla violenza offensiva, lo fecero sotto l’impulso della passione e non con lo scopo deliberato di colpire il nemico nei punti vitali. Ha scritto Gaetano Salvemini:

Nel corso dei due anni [1919 e 1920] della loro ‘tirannia’,  i ‘bolscevichi’ [i socialcomunisti] non devastarono neppure una volta l’ufficio di una associazione degli industriali, degli agrari o dei commercianti; non obbligarono mai con la forza alle dimissioni nessuna amministrazione controllata dai partiti conservatori; non bruciarono neppure una tipografia di un giornale; non saccheggiarono mai una sola casa di un avversario politico. Tali atti di ‘eroismo’ furono introdotti nella vita italiana dagli ‘antibolscevichi’. Inoltre va notato che mentre i delitti commessi dai ‘bolscevichi’ negli anni 1919-20 furono quasi sempre compiuti da folle eccitate, le ‘eroiche’ imprese degli ‘antibolscevichi’ troppo spesso furono preparate e condotte a sangue freddo da appartenenti a quei ceti benestanti che hanno la pretesa di essere i custodi della civiltà. (Lezioni di Harvard)

Insomma non si può dire che gli sconfitti avessero rinunciato alla violenza. Ma nella battaglia che c’è stata ha vinto chi ha praticato il terrorismo più metodico e spietato. Il potere è andato ai più cattivi, ai più duri, ai più determinati nell’aggressione. Non si tratta ora di rovesciare quel risultato. Ci possiamo accontentare di compiere qualche passo avanti nella comprensione di quello che è accaduto. Non cose dell’altro mondo. Cose di questo mondo. Cose che in forme non tanto diverse sono accadute altre volte in Italia e altrove dopo di allora.  La storia non si ripete ma lascia delle tracce che è utile saper riconoscere. 

Giovanni Carpinelli

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