mercoledì 27 febbraio 2013

Quelli che votano Grillo


…E in realtà  votano Casaleggio

 È ufficiale lo tsunami ci ha travolto.
Resta da stabilire se l’onda anomala sia stata causata dal solo Grillo o vi abbia contribuito anche qualcun altro. Ad esempio un certo Gianroberto Casaleggio. Basta digitarne il nome su Google e viene fuori di tutto e di più. Come tutti i santoni – anche quelli della comunicazione – suscita sentimenti e commenti diametralmente opposti: c’è chi vede in lui il disinteressato profeta dell’era del digitale universale, chi invece un losco affarista il cui intento è quello di fare lobbying e grano.
Come al solito mi astengo dal dare giudizi, schierandomi da una parte o dall’altra, e mi rifugio nel mio comodo cantuccio di “artigiana della comunicazione”.
Checché se ne pensi una cosa è sicura: Casaleggio è un genio della comunicazione. Come forse saprete è opera sua il miglior Di Pietro, e anche nel fenomeno Travaglio ci ha messo lo zampino: qualche cosa vorrà pur dire, visto il successo dei due campioni citati.
Che i guru della comunicazione da tempo si occupino di politica non è certo un mistero. Un esempio per tutti: Jacques Séguéla, il pubblicitario francese - la cui leggenda narra essere stato l’artefice di 20 campagne elettorali in giro per il mondo vincendone 19 - è così addentro ai meccanismi della politica da aver addirittura fatto incontrare Sarkozy e Carla.
Come affermava il buon vecchio McLuhan in tempi  meno sospetti di quelli attuali, “il medium è il messaggio”: il linguaggio e il mezzo che si usa contribuiscono a indirizzare il pensiero. E in politica più che altrove. Non sto dicendo che il successo di Grillo sia tutto merito di Casaleggio, come non dico che le idee di Grillo siano tutta farina del sacco di Gianroberto: la mia sensazione è che quello tra i due sia stato un “matrimonio d’amore” sia sul piano degli ideali sia sul piano della comunicazione. È chiaro che “Binloden” se l’è inventata il comico, ma la trovata dell’attraversamento dello stretto a nuoto porta la firma del comunicatore a lettere di fuoco: senza Casaleggio Grillo avrebbe probabilmente avuto successo, ma non un successo travolgente come quello al quale abbiamo assistito.
Commentando un mio articolo di qualche tempo fa intitolato “Se la politica sapesse comunicare”, nel quale sottolineavo come Grillo fosse l’unico in grado di coinvolgere le persone,  più di un lettore mi aveva fatto notare come certo, farsi capire è importante, ma se mancano struttura e contenuti, la comunicazione serve a poco. Sono d’accordo. Ma metto le mani avanti e prevengo ulteriori critiche in questo senso invitando chi mi sta leggendo a guardare la luna, non il dito. E dal mio punto di vista – non mi stancherò di ripeterlo – la luna è il contenitore, non il contenuto…
Quindi il ticket Casaleggio-Grillo per quanto mi riguarda si è rivelato vincente. Che poi sappiano anche portare avanti dei contenuti è una storia che certo mi interessa, ma che non sta a me raccontare.

lunedì 25 febbraio 2013

Il momento del fratello pazzo

Avevo pubblicato su Facebook un pezzo in cui Sofri auspicava una continuazione del cambiamento per il Pd. Non era andato molto bene. Alla luce di quanto è accaduto, il cambiamento non si è ancora prodotto in una misura significativa. Davvero si rivela profetica la visione delineata nel film Viva la libertà. Ci vuole tutto l'estro e il coraggio del fratello pazzo. Che Bersani non ha. Però questa è l'ora delle risorse impreviste e tanto più necessarie per sparigliare. Non basta parlare sempre agli stessi. Bisogna sfoderare uno stile e dei contenuti capaci di trovare ascolto fuori del recinto.

Giovanni Carpinelli

domenica 24 febbraio 2013

Ciò che resta dell'intellettuale

David Bidussa recensisce Rino Genovese, Il destino dell'intellettuale, Manifestolibri, Roma 2013

...Consumata la stagione dell'intellettuale che si fa militante, finita la fase dell'intellettuale fiancheggiatore, si ripropone la questione della funzione dell'intellettuale. Intellettuale è colui che è in grado di porre domande non solo scomode "a chiunque", ma prima di tutto alla sua parte, alla parte a cui sente di appartenere e con cui consuma un disagio. E' questo un intellettuale che nel corso del Novecento non ha avuto molto spazio, ma che ha avuto una funzione che oggi ci manca. E' quella figura che in parte è rappresentata dal radicalismo culturale degli anni Dieci e Venti [e] da figure di "irriducibili" come Bertrand Russell, Victor Serge, Hannah Arendt, Leonardo Sciascia. Una dimensione in cui è fondamentale la capacità di essere in solitudine, che si origina non dalla "ortodossia" ma dalla delusione senza, peraltro, cedere al pessimismo. Una condizione che Camus ha perfettamente descritto nel suo Il mito di Sisifo, e dove la propria funzione pubblica è pensata in termini di proposta del dubbio, più che di ricerca del consenso o della claque.

Il Sole 24 ore, 24 febbraio 2013, p. 26.

Che brutta riscoperta: gli Apoti

 Qui tra chi lavora a ilfattoquotidiano.it si vota, in diverse percentuali, un po’ di tutto: Movimento 5 Stelle, Monti, Pd, Rivoluzione Civile, Sel, Radicali e, nonostante il notevole exploit del principe dei ballisti Oscar Giannino (principe, perché il re resta sempre lui, san Silvio Primo da Arcore), persino i liberisti acciaccati di Fermare il declino. Qualcuno poi si astiene o teorizza un vecchio classico: scheda bianca con fettina di salame inclusa. Ma, comunque voti la redazione fa idealmente parte della Società degli Apoti, la congregazione di prezzoliniana memoria di coloro i quali non se la bevono. Sappiamo tutti che, dopo lunedì, quasi nessuna tra le mirabolanti promesse elettorali in materia di riduzione di tasse o aumento dell’occupazione verrà mantenuta.

Peter Gomez, Elezioni 2013. Come votano gli apoti, Il Fatto quotidiano, 23 febbraio 2013
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 Quando Giuseppe Prezzolini propone, di fronte al fascismo come di fronte al bolscevismo, la “Società degli Apoti”, di “coloro che non le bevono”, che si tengono fuori della mischia, Gobetti reagisce con energia, puntualmente. Prima ribadisce il senso della cultura come azione, come “elemento della vita politica”, poi affronta la più delicata questione di merito: la natura del fascismo e la necessità di una “opposizione intransigente”.
19 Giugno 2001
da Democrazia Repubblicana (http://www.democraziarepubblicana.org)

Caro Prezzolini,
    Un quadro dell'attività presente che mirasse a definire la nostra "Società degli Apoti" e ne chiarisse i limiti e l'azione sarebbe certo molto utile e io spero che tu stesso ci voglia tornare su e tracciarne un poco, mentre si fa, la storia.
    Nessuno può riescire meglio di te che sei stato da quasi vent'anni l'infaticabile direttore e amministratone dell'idealismo militante in Italia. Nella valutazione poi del significato politico che ebbe la nostra cultura negli ultimi anni siamo sostanzialmente d'accordo: nessun dubbio che il partito popolare, p. es. abbia ripreso gran parte del problemismo unitario e tutto ciò che di sano si nascondeva nel movimento modernista, che Einaudi e la Riforma sociale abbiano alimentato le tradizioni liberali meglio di una organizzazione di partito, che La Voce abbia fatto almeno tanto bene quanto il movimento socialista.
    Noi siamo più elaboratori di idee che condottieri di uomini, più alimentatori della lotta politica che realizzatori: e tuttavia già la nostra cultura, come tale, è azione, è un elemento della vita politica.
    Senonché anche in questo compito di chiarificazione ideale, io non so se il nostro criticismo operoso ci consentirà un'unità obbiettiva e un'indifferenza, per così dire scientifica di lavoro. La Rivoluzione Liberale p. es. non sarebbe oltre che un organo tecnico di cultura e di libera discussione storica, un punto fermo di ricerca o di giudizio? Ecco il punto in cui lo so che non tutti siamo concordi. Pure se ripenso agli esempi più recenti, da Marx a Sorel, mi pare che tutti gli sforzi più originali di pensiero si siano accompagnati con un'intransigente elaborazione di miti d'azione e con una tragica profezia rivoluzionaria. [...]
La discussione, organicamente condotta, è venuta prevalendo sullo sviluppo del programma. Ne avremo frutti più vigorosi ma non sarà dannoso ricordare il punto di partenza.

p. g.

E si veda anche David Bidussa, Il disprezzo per la democrazia  http://www.centrogobetti.it/PDF/Rassegna%20stampa%20Gobetti/2008/disprezzo.pdf

sabato 23 febbraio 2013

Pillole gramsciane1. Elezioni e populismo

Come preannunciato nel precedente post del 13 febbraio (http://www.machiave.blogspot.it/2013/02/pillole-gramsciane.html) inizia questa settimana l’avventura delle “Pillole gramsciane”. 
Nella (quasi) scoraggiata ricerca di un conforto, di un meditato consiglio o, almeno, di una illuminante opinione capace di aprire qualche squarcio di luce sulla nebulosa realtà politica che caratterizza questi giorni di tesa eccitazione elettorale mi è sembrato particolarmente rilevante (e consolante?) l’articolo “Un fungo porcino”, pubblicato sull’edizione piemontese dell’“Avanti” il 3 ottobre 1919 nella rubrica “Sotto la Mole”. 
Si era nel pieno del “Biennio rosso” e l’Italia, come tutti gli stati europei distrutti dalla guerra, viveva (allora) una grave crisi economica. Da mesi ormai Torino, come gran parte delle città italiane, era percorsa da imponenti e spontanei moti di protesta delle masse popolari e della piccola borghesia, provocati dall’insostenibile aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. 
Si era (allora) alla vigilia delle elezioni che si sarebbero svolte il mese successivo e qualcuno (allora) cercava in tutti i modi di approfittare della situazione. 
A costoro era dedicato l’articolo di Gramsci da cui traggo il seguente breve frammento. 

«… è avvenuto che i cittadini Mazza, Prato, Rosso, Petrignani, Mello, Gastaldi, Battaglia, Baratto, Cuvertino, Torreggiani e Garello – essendosi trovati ad essere precisamente dieci inscritti nel Fascio liberale monarchico, angustiati dal pensiero che tra i tanti comitati, sottocomitati, commissioni, sottocommissioni, leghe, fasci associazioni, società, sodalizi, confraternite, congreghe, conventicole, congregazioni, consigli, non si era trovato modo di trovar loro un posticino, una carichina, un titolino da inserire nel biglietto da visita; trovando che ad essere in dieci c’era precisamente da costituire un consiglio direttivo con un presidente, un vicepresidente e otto consiglieri – costituissero appunto un consiglio direttivo con un presidente, un vicepresidente e otto consiglieri. Detto fatto, i dieci, costituitisi in consiglio dei dieci, pensarono un programma. Detto pensato, il programma fu scritto. Il programma naturalmente fu apolitico, poiché quanto più si approssimano le elezioni, e specialmente le elezioni a scrutinio di lista con voti di preferenza, tanto più tutti i cittadini che non hanno ambizioni e non si umiliano, no, per un biglietto da dieci lire o una croce da cavaliere, a diventare strumenti dell’altrui ambizione, scoprono nell’intimità dei precordi un odio, un odio contro la politica e l’infeudamento ai partiti e la vile sottomissione alla disciplina delle idee, un odio che è altrettanto feroce quanto una gatta in puerperio rinchiusa in una latta di petrolio. E il programma apolitico si propone di migliorare la sorte dei lavoratori con criteri tecnici e, poiché vuole abolire la lotta di classe, non si propone “altra mira fuorché la lotta pel vantaggio economico dei lavoratori” ». 

Succedeva anche questo, allora. Però i nostri dieci cittadini (allora) non pensarono di fondare un “nuovo partito”; si “limitarono” a istituire la “Borsa del lavoro”, un’“associazione apolitica e di esclusiva difesa economica dei lavoratori”; poiché, tuttavia, prima che l’associazione possa avviare il "lavoro di esclusiva difesa" ci saranno le elezioni, «la borsa – aggiungeva Gramsci – aprirà i cordoni di se medesima per affliggere molti proclami alla “vera” classe operaia, “veramente” cosciente ed evoluta; si presenterà con programma apolitico e il candidato preferenziale avrà anch’egli un programma apolitico». 

Grazie Nino (ancora una volta).

Francesco Scalambrino


L'omaggio di Proust a Jaurès

Jaurès figura tra i personaggi di Proust sotto le spoglie del deputato Couzon, nel romanzo incompiuto Jean Santeuil. Nell'episodio sotto riportato, la simpatia dell'autore per il generoso paladino degli oppressi è grande e dà luogo a un atteggiamento di appassionata comprensione: "Più tardi, ripensando a quel momento in cui egli [Jean Santeuil, il narratore] avrebbe voluto lapidare i duecento deputati che sogghignavano, interrompevano Couzon prima che avesse parlato, battevano le loro tavolette per coprire lo strepito della sua voce, si spiegò meglio come Couzon, vedendo ogni giorno i suoi progetti di legge, i suoi discorsi soffocati dalla loro maggioranza trionfante, fosse uscito ogni giorno con una rabbia nel cuore che ricalcava per lui con colori di fuoco i loro tratti ripugnanti di meschinità e di orgoglio". Le ultime parole del brano sono straordinarie per il gioco che instaurano di sentimenti rispecchiati, arroventati e respinti. In un altro episodio le cose tra Jean Santeuil e Couzon non vanno più tanto bene. Ma, a leggere i brani qui considerati, che Proust abbia saputo cogliere la grandezza di Jaurès e si sia mostrato sensibile al suo fascino è indubbio. 

giovanni carpinelli

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On vient de clore la discussion sur le massacre d'Arménie. Il est convenu que la France ne fera rien. Tout à coup, à l'extrême gauche, un homme d'une trentaine d'années, un peu gros, aux cheveux noirs crépus, et qui vous aurait semblé, si vous l'aviez observé, en proie à un trouble indéfinissable et comme s'il hésitait a obéir a une voix intérieure, se balance un instant sur son banc puis levant le bras d'un geste sans expression, comme arraché par la coutume qui rend nécessaire cette formalité à qui demande la parole, se dirige d'un pas vaillant et comme effrayé de la grande responsabilité qu'il prend, vers la tribune. C'est Couzon [Jaurès] que vous vous rappelez avoir vu comme interne à l'hôpital Necker, aujourd'hui chef du parti socialiste à la Chambre, élu à la fois dans les quatre grands départements houillers de France, et qui a opté pour le plus malheureux, celui où la vie noire et triste d'au-dessus de la mine ressemble le plus à la vie noire et triste d'au-dessous, le département du Nord [...]
Jean a compris que Couzon avait été poussé à parler par ce sentiment de la Justice qui le prenait parfois tout entier comme une sorte d'inspiration. Alors ce "quelque chose" qu'il sentait vaguement qu'il y avait à dire, mais qu'il croyait indigne d'être écouté de gens sérieux, reprend immédiatement pour lui une valeur immense. Et ce sont les gens sérieux qui deviennent tout petits. Il est profondément ému. Et quand Couzon se décide à faire de son gros bras court ce petit geste de convention au-dessus de sa tête, c'est comme un signal qui retentit longuement dans le cœur de Jean. Et en voyant les petites jambes de Couzon se hâter disgracieusement vers la tribune, il lui semble que jamais corps humain n'a exprimé tant de dignité et de grandeur. Il y a dans Beethoven des mesures à contretemps et sans aucun motif noble qu'on ne peut écouter sans frémir.
Plus tard, en repensant à ce moment où il aurait voulu lapider les deux cents députés ricanant, interrompant Couzon avant qu'il n'ait parlé, battant leurs pupitres pour couvrir le bruit de sa voix, il s'expliqua mieux que Couzon, voyant chaque jour ses idées, ses projets de loi, ses discours étouffés par une majorité triomphante, soit sorti chaque jour avec une rage au coeur qui repassait, pour lui,à une couleur enflammée leurs traits déplaisants d'étroitesse et d'orgueil.
Il est à la tribune et il attend, balancé sur ses jambes comme la barque prête à partir qui n'est pas encore détachée, mais que le flot roule selon son mouvement sans qu'elle s'y livre encore. Une ou deux fois il dit: "Messieurs!" La voix est forte, presque énorme, une émotion inouïe y tremble et la fait remuer.
...
Marcel Proust, Jean Santeuil [1895-1900], Pléiade 1971, pp. 600-603

Voir aussi Gilles Candar, Couzon, le Jaurès de Marcel Proust, "Bulletin de la société d'études jaurésiennes, n. 118, juillet-septembre 1990, pp. 13-15; Vincent Duclert, Jean Jaurès et la Turquie. La fêlure des massacres arméniens, http://www.imprescriptible.fr/pedagogie/jean-jaures.htm; P. Kolb, Proust's Portrait of Jaurès in Jean Santeuil, "French Studies", vol. XV, 1961, Issue 4, pp. 338-349; discours de Jean Jaurès à la Chambre des députés, Paris, le 3 novembre 1896: http://www.globalarmenianheritage-adic.fr/fr/6histoire/a_d/19_jaures1896an.html

venerdì 22 febbraio 2013

Bruegel, Matrimonio contadino

Pieter Bruegel, Matrimonio contadino, 1568
Un artista profondo, serio, un pittore di composizioni vaste, appassionato della realtà, innamorato della natura, dell'umanità, che però sente fortemente la tragica sproporzione tra la fragilità dell'una e le leggi ineluttabili o le tremende scosse dell'altra. Ma senza amarezza, perché egli adora la vita in tutte le sue manifestazioni, perché constata che la gioia resta possibile anche sotto la forca, e dipinge questa sbrigliata allegria che è anche una grande forza; egli sa che la vita giovane ed esuberante rinasce sempre dalla morte, e tale preziosa certezza lo rende, nonostante tutto, ottimista.
E. Michel, Bruegel, 1931  

Qualche osservazione più precisa. La festa si svolge in un fienile sistemato per l'occasione con un tavolo e delle panche. Il solo ornamento è il panno verde alle spalle della sposa resa riconoscibile anche dalla corona nuziale che porta sulla testa. I festeggiati si perdono nella folla dei personaggi. Non si sa bene chi sia lo sposo, potrebbe essere l'uomo vestito di nero con il cappello verde e il bicchiere in mano, alla sinistra del servitore in primo piano al centro. La sposa, poi, sembra assorta in una meditazione, ha le mani giunte e gli occhi chiusi. Secondo la tradizione non aveva il diritto di mangiare e di parlare. Nessuno si occupa di lei, a quanto pare. E allora? Non sono gli sposi l'oggetto centrale della rappresentazione, ma la gioia di vivere, una certa frenesia che accomuna gli invitati e contagia anche gli spettatori sullo sfondo.




La nemesi

...A preoccupare i vertici del Pd sono anche i sondaggi che riguardano Monti. Che aprono una prospettiva inquietante. Non è affatto detto, dati alla mano, che il listone del premier riesca a guadagnare al Senato un numero adeguato di seggi. Già, perché se Bersani non riuscirà a ottenere una vittoria piena pure a Palazzo Madama, avrà bisogno come il pane di un gruppo di sostegno montiano. Tradotto in cifre: Scelta civica dovrà ottenere almeno 15, 20 senatori. Tanti ne serviranno, in caso di pareggio, per consentire al Partito democratico di mettere in piedi un governo di centrosinistra.
Peccato che questi numeri non siano, almeno al momento, una sicurezza. I sondaggi infatti raccontano che nelle regioni chiave i montiani arrancano e non riescono a sottrarre voti consistenti al centrodestra. I dirigenti del Pd si sono guardati in faccia con un certo sconcerto, l'altro giorno, quando hanno esaminato i dati segretissimi forniti loro dai sondaggisti. Per forza. Quelle cifre hanno confermato tutti i loro timori: lì dove il Partito democratico va bene, il listone del premier è in affanno. Ergo: non è al centrodestra che il premier toglie i voti. Perciò, detto in parole povere, un Monti che non riesce a fare argine nei confronti delle truppe berlusconiane rischia di servire poco o niente al centrosinistra.
Di più, e di peggio: nelle regioni chiave, quelle in cui centrosinistra e centrodestra combattono la battaglia campale per il Senato, i montiani rischiano di essere ininfluenti. In Lombardia è testa a testa. In Sicilia pure. In Veneto Bersani e i suoi alleati perdono senza possibilità di sorprese dell'ultima ora, mentre in Campania la vittoria è saldamente nelle loro mani e di lì non si sposterà. Ebbene, in queste regioni Monti rischia di non fare comunque la differenza. Il che significa che tutti i calcoli che sono stati fatti finora al Partito democratico vanno rivisti.

Maria Teresa Meli
Corriere della Sera, 22 febbraio 2013
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La nemesi

Non si sa come andranno le elezioni. E' tuttavia improbabile che il Pd con Sel riesca a ottenere la maggioranza assoluta. I contorni esatti di ciò che sta per accadere non possono essere previsti. Il dato certo sembra allora essere questo: comunque vada, il fattore decisivo sarà dato dalla combinazione di due risultati: il livello raggiunto nell'ascesa dall'ondata grillina e quello toccato nella discesa dalla coalizione di Monti. E questo spiega tante cose. Intanto e soprattutto una che si può riassumere con la formula di Lorenzo il Magnifico: Del doman non v'è certezza. Né Monti né Grillo hanno lasciato intravedere un atteggiamento tranquillo e responsabile. Può darsi che a urne chiuse vi sia un soprassalto di resipiscenza. Una qualche maggiore ragionevolezza. Mettetevi però al posto di Monti e di Grillo. Non siete usciti davvero vincitori dalle elezioni. La sorte del mancato vincitore è nelle vostre mani. Gliela farete pagare, non avrete pietà, vorrete ottenere contropartite di alto valore pratico e simbolico per una vostra eventuale convergenza su una linea di intesa. Allegria! Magari qualche decisione buona sarà presa lungo questa via. Perché no. Credere invece che alla viste ci sia una piacevole passeggiata, o anche solo una camminata normale, è francamente impossibile.
Naturalmente in quello che accade ci sono delle responsabilità. Vale sempre il severo richiamo di Croce: sarà stata colpa dei pazzi, ma dov'erano i savi allora? Insomma Monti e Grillo sono i frutti di una crisi che altri hanno prodotto e aggravato. Altri chi? La casta con la sua avidità senza freno. La destra con la sua insipienza tecnica. Sì, tecnica. I tecnici sono per la destra quello che l'ombra di Banco era per Macbeth. E allora è scattata la nemesi: "Nemesi [la dea] provvedeva soprattutto a metter giustizia ai delitti irrisolti o impuniti, distribuendo e irrorando gioia o dolore a seconda di quanto era giusto, perseguitando soprattutto i malvagi e gli ingrati alla sorte" (Wikipedia). Già, nella mitologia greca, il ritorno del rimosso portava un nome. Noi in base alla nostra conoscenza dei fatti, possiamo fare dei nomi: la politica ha calpestato i cittadini (Grillo) e la competenza responsabile (Monti). Poi possiamo immaginare dei rappresentanti migliori per i cittadini e per la competenza responsabile. Ma è la politica che è rimasta indietro, non la realtà dell'economia e del paese.

giovanni carpinelli

giovedì 21 febbraio 2013

Una lettera di Trentin su Di Vittorio

Quelli che seguono sono alcuni brani di una lettera che Bruno Trentin (1926-2007), segretario generale della Fiom (1962-1977) e poi della Cgil (1988-1994), scrive in francese alla sorella Franca il 27 novembre del 1957, alcuni giorni dopo la morte improvvisa di Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), storico leader della Cgil, una delle figure più affascinanti e carismatiche nella storia della sinistra italiana. 

Il documento fa parte del Fondo Bruno Trentin, custodito presso la Fondazione Di Vittorio di Roma, ed è inserito all’interno del volume Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese, curato da Sante Cruciani (Collection de l’École française de Rome, 2012, pp. 465-469).

Trentin sottolinea prima di tutto il suo personale debito di riconoscenza nei confronti di un uomo al quale dichiara di dovere molto, non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello umano, pur non negando le reciproche, talvolta profonde, differenze, per altro plasticamente evidenziate dalla fotografia che correda questo post.

L’aspetto della personalità di Di Vittorio che Trentin tiene a sottolineare maggiormente è l’ansia di essere fino in fondo un uomo del suo tempo, che non vuole essere tagliato fuori dal processo di sviluppo della società; da qui una sua apertura alla modernità, anche a quella del sistema capitalistico, se questa si dimostra in grado di apportare miglioramenti tangibili delle condizioni di vita delle classi lavoratrici che egli rappresenta, per l’ottenimento dei quali si mostra disponibile a battersi. In lui, aggiunge Trentin, è sempre stata presente, non senza contraddizioni, la ricerca dell’elemento positivo che può essere presente in qualsiasi realtà, piuttosto che la semplice sottolineatura, pur doverosa, dei limiti e delle storture che questa realtà ha in sé.
A questo schema mentale sembra proprio ispirarsi il Piano del lavoro, presentato nel 1949 dalla Cgil da lui guidata, tipico esempio di proposta attenta non solo a soddisfare le rivendicazioni dei propri iscritti, ma che mostra di avere a cuore anche le esigenze dello sviluppo economico di tutto il paese. Non è forse un caso se esso verrà accolto dal gruppo dirigente del Pci con una freddezza ai limiti dell’ostilità.

Il fatto che queste considerazioni vengano svolte in una lettera privata, piuttosto che in una commemorazione ufficiale, contribuisce a renderle particolarmente autentiche.

Roma, 27 novembre 1957 



Mia Franchina, 

dopo un lungo silenzio posso scriverti e tramite te anche a Mario. Quest’ultimo periodo è stato convulso e sconvolgente, per me. Prima, il Congresso di Lipsia, con tutte le discussioni e le battaglie che ha comportato. Poi una serie di riunioni e di conferenze in Italia compresa la commissione elettorale del partito di cui faccio parte e dove si sono riaperte vecchie ferite dell’VIII Congresso. (...)

La morte di Di Vittorio ha rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi immaginare quanto mi abbia colpito.

Tuttora non ho ancora completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e retorica a parte semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre «provocatorio», come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta e in questi ultimi tempi, spesso questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun «sistema», in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente «la sua ragione d’essere».

Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana «la ricchezza che poteva essere prodotta» e che non lo era piuttosto che la «povertà» esistente. Ed era l’idea della «ricchezza» ad entusiasmarlo.

Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre «al corrente» delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir «escluso», di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea.

Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ «populistica» e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno.

Capisco, ora che è morto, quanto io l’amassi. Purtroppo non c’è nessuno del suo calibro a sostituirlo, i migliori hanno un respiro molto più modesto. Gli ultimi giorni sono stati occupati come puoi immaginare dalle discussioni sulla «successione». Sembra che sia stata adottata la soluzione migliore: quella di sostituire Di Vittorio non con un uomo ma con una nuova segreteria, con un collettivo di uomini nuovi, dopo aver eliminato tutte le «zavorre», tutte le mummie. Se si otterrà questo risultato, avremo fatto un grande passo in avanti.



Giannino e lo Zecchino d’Oro

Credo che molti siano rimasti stupiti più che dalla fabbricazione di qualifiche accademiche che Giannino abbia millantato anche una partecipazione allo Zecchino d’Oro (almeno questa è la voce che gira in rete da qualche ora). Se fosse vero – cioè se fosse vero che si fosse inventato anche questo “titolo” – a me che ho una vera passione per la semiotica, cioè per lo studio più che del senso della produzione del senso, sembra una cosa del tutto in linea col personaggio. 
 
Pensateci bene: fisicamente Oscar non è certo un Adone, e non credo lo sia mai stato. Da qui è probabile che derivi la sua passione per l’abbigliamento estroso, nonché la necessità di “costruirsi” un’identità professionale, supportata da lauree e diplomi vari, e ci sta pure che affermi di aver avuto accesso al regno dei “bimbi belli” per eccellenza che è appunto lo Zecchino d’Oro: in un mondo dove l’immagine è tutto, anche i brutti anatroccoli – che sanno benissimo di non poter mai ambire a diventare splendidi cigni – tentano di rifarsi il look. 

L’errore di Giannino (a mio parere) è tipico appunto di chi soffre di questa “sindrome del brutto anatroccolo”. L’INSICUREZZA. È per insicurezza infatti che ha ritenuto di dover supportare le sue capacità professionali millantando un percorso di studi non vero. Per quanto mi riguarda è proprio questa la delusione più grande: al di là delle sue idee, ho sempre apprezzato in lui l’onesta e la forza di carattere che – pensavo – avevano reso possibile anche ad una persona che parte svantaggiata di farsi una carriera e diventare un personaggio pubblico. E qui casca l’asino: meglio avrebbe fatto a giocare con estro la sua realtà di brutto anatroccolo, rivendicandola con orgoglio: sono brutto sgraziato? Bene, mi vesto in maniera così originale da attrarre ancora di più l’attenzione sul mio fisico; non ho un titolo di studio formale? Chissenefrega, faccio della mia esperienza, del mio essere autodidatta una bandiera!

Occasione sprecata e somma delusione quindi, non solo per coloro che hanno aderito al suo partito, ma anche per quelli che – come me – non condividono minimamente le sue posizioni politiche, ma che hanno creduto di poter vedere in lui un “Don Chisciotte” della meritocrazia contro i mulini a vento del nepotismo imperante… e come spesso accade l’eroico cavaliere è finito, ahimè, gambe all’aria.

Suzanne Valadon: "Dare, amare, dipingere"

Francesca Bonazzoli 
Le amanti di Modigliani
Le due pittrici: la prima si suicidò dopo la morte del pittore, la seconda cavalcò la cerchia di Montmartre con spregiudicatezza
Jeanne la silenziosa, Suzanne la leonessa
Hébuterne e Valadon, nelle donne di Modì due modelli femminili agli antipodi                          
Corriere della Sera, 21 febbraio 2013

....Il funerale di Suzanne Valadon, invece, racconta tutta un'altra storia. Nata 33 anni prima di Jeanne [Hébuterne], ma morta 18 anni dopo, Suzanne riuscì a radunare alle sue esequie tutta Montmartre, compresi Picasso, Max Jacob, Derain, Francis Carco, André Salmon. L'elogio funebre fu letto dall'amico Edouard Herriot, due volte ministro di Francia. Niente male per la figlia bastarda di una governante di Bessines, sedotta da un mugnaio. Ignorata dalla madre, troppo occupata a bere di sera e di giorno a guadagnare da vivere per entrambe fra i miasmi della Butte dove si era dovuta trasferire, Suzanne tentò la strada del circo, ma quella carriera fu stroncata a 15 anni con la caduta da un trapezio. Sapeva, però, che Dio l'aveva dotata di uno splendido corpicino e che a Montmartre era pieno di giovani pittori che ne cercavano uno come il suo. Così cominciò ad andare alla fontana di place Pigalle dove gli artisti sceglievano i loro modelli. Iniziò da allora una vita meravigliosa, fra brasserie, cabaret, passeggiate nei boulevard e visite ai caffè per «l'ora verde». Nelle mattinate libere, però, riprese a disegnare come faceva da bambina, mettendoci una serietà assoluta e dicendosi che doveva essere dura, severa, senza indulgenze. Intanto posava per Puvis de Chavannes: lui aveva 58 anni e lei 16. Ne diventò l'amante, così come di Renoir e di Toulouse-Lautrec che la mandò da Degas, il quale ne riconobbe subito il talento. A diciott'anni partorì l'adorato Maurice, cui non rivelò mai chi fosse il padre, come lei stessa non aveva mai conosciuto il nome del suo.
Molti anni dopo, un altro amante, il giornalista spagnolo Miguel Utrillo, gli diede il suo nome, nonostante all'epoca in cui era rimasta incinta Suzanne avesse avuto una liaison anche con il musicista Eric Satie, propostosi invano come marito. Si lasciò invece sedurre da Paul Mousis, un ricco uomo d'affari che le costruì una casa a Montmagny e la convinse a condurre un'agiata vita borghese finché un giorno, a riaccendere la fiamma, arrivò André [Utter], un ragazzo bellissimo, di 21 anni più giovane, forte, sicuro di sé, solare: era un amico di Utrillo, anche lui compagno di sbronze di Modigliani. Suzanne lasciò tutti gli agi e di nuovo l'amore si dimostrò la sua risorsa vitale e creativa. Si sposò e intanto sia lei che Utrillo cominciarono ad avere molti, moltissimi soldi. Ma attorno a lei Montmartre iniziava a morire: Degas, Toulouse, Van Gogh, Puvis de Chavannes, Gauguin, Seurat. E in Costa Azzurra dove si era trasferito, Renoir dipingeva con i pennelli legati alle mani rinsecchite dall'artrite. Utrillo veniva ricoverato sempre più spesso per l'alcol e André la tradiva. Anche per Suzanne stava arrivando il tramonto, ma convinta che «non bisognerebbe mai mettere la sofferenza nei disegni», si accomiatò con questo motto da leonessa: «Dare, amare, dipingere».


Suzanne Valadon, Ritratto del figlio Maurice Utrillo, 1921

mercoledì 20 febbraio 2013

Dizionario Bersanese





Oggi "Il Foglio" ha ripreso (a tradimento) un articolo di Gotor del 2009  sul linguaggio utilizzato da Bersani, che egli definisce «bersanese»: l’articolo sorprende per la sua incredibile attualità. Bersani pur avendo intuito la necessità di codici linguistici differenti, non riesce comunque a compiere il salto. 



Dice Gotor:



La lingua di Bersani è peculiare perché non sceglie di mescolare l’alto e il basso – ossia di percorrere la strada del mistilinguismo di tutta una tradizione letteraria italiana che va da Dante Alighieri a Carlo Emilio Gadda – ma preferisce usare solo il sermo humilis, quello dei toni gergali e quotidiani, dei dialettismi orgogliosamente esibiti, delle parole tronche e strascicate, della sentenziosità proverbiale che ricorda da vicino il populismo linguistico degli esordi di Umberto Bossi e di Antonio Di Pietro.


Interessante è la classificazione delle metafore bersaniane


Un gruppo di metafore è tratto dal mondo contadino, quello che popolava le aie delle cascine della bassa padana fino alla metà del secolo scorso: «la raccolta non la fai quando semini», «il consenso è come una mela sul ramo: balla, balla ma cade solo se c’è il cestino» […]. Un secondo insieme di immagini rimanda al laborioso mondo artigianale delle officine e delle botteghe con i loro antichi mestieri: un partito si costruisce «a forza di cacciavite», «la lama si affila sul sasso», «facciam l’amalgama», «bisogna trovare la quadra» [..].Il terzo gruppo di espressioni figurate riguarda il mondo delle osterie e quello delle bocciofile: «ci hanno levato la briscola», «siamo rimasti col due in mano», «non possiamo portare vino annacquato».


(A ciò aggiungerei l’ormai evidente compiacimento con il quale Bersani imita Crozza che imita Bersani)



La domanda sorge spontanea non solo all’autore del pezzo, ma a tutti noi:



Ma come parla Bersani? E soprattutto, perché parla così? Naturalmente, l’interessato ha la risposta pronta e quindi ricorda: «Io negli anni Settanta parlavo in un modo che oggi mi fa quasi schifo: fra il politichese e l’ostrogoto. Ho fatto uno sforzo, adesso credo alla nobiltà della metafora, che consente a tutti di capire». Insomma, saremmo davanti alla studiata scelta di un registro comunicativo originale, che avrebbe lo scopo di raggiungere il maggiore numero di persone possibili, offrendo loro la possibilità di identificarsi pienamente con l’interlocutore, a prezzo di rinunciare a qualunque intento pedagogico-formativo. Se fosse così, una simile opzione avrebbe un indubbio vantaggio, ossia quello di produrre nell’ascoltatore un curioso effetto di regressione che predilige la nostalgia per il buon tempo antico.



Peccato che



Oggi gli italiani non parlano più in questo modo e i luoghi e i mestieri richiamati da Bersani sono quasi materialmente scomparsi insieme con i microcosmi sociali di riferimento: la bocciofila, la cascina, l’osteria, la bottega sartoriale, l’officina. E dunque ne scaturisce un risultato paradossale perché la realtà non corrisponde al linguaggio e il linguaggio quindi non riesce a descriverla compiutamente, ad afferrarla in un progetto. Il candidato alla segreteria del Pd sembra rivolgersi a una platea di cattolici e socialisti dell’Ottocento, ma il pubblico che lo ascolta si sente come estraniato, quasi fosse in un museo davanti a un quadro di Pellizza da Volpedo.



E qui Gotor ha afferrato il nocciolo della questione: non basta sentire l’esigenza di una buona comunicazione perché questa si compia: ci vuole una cosa che a Bersani – come del resto alla maggior parte dei politici manca: il talento. La comunicazione – piaccia o non piaccia – è un’arte che non si impara. Se poi a questa mancanza si associano quelle ben più grave di non avere il coraggio di rischiare e di rimanere radicato ad un elettorato – che nella migliore delle ipotesi è in via di estinzione e nella peggiore esiste solo ormai nell’immaginazione dei politici – e quella di non avere la minima empatia verso la gente comune (nel senso di intuirne necessità reali, sentimenti e stati d’animo),  il disastro è assicurato. Conclude Gotor in maniera fin troppo benevola: Bersani



proprio del passato sta facendo un uso smaliziato e consapevole con l’ambizione di chiamare a raccolta un elettore sommerso, quello delle primarie, che deciderà il suo futuro politico. Ciò può forse bastare a Bersani per motivare un pezzo di partito e per rafforzare il recinto del proprio elettorato tradizionale, ma certo non gli sarà sufficiente se vorrà davvero vincere la sua partita, ossia raggiungere pezzi di società (si pensi soltanto alla piccola e media impresa) che oggi non votano il Pd. Per riuscirvi, però, «’sta roba qui» non dovrà essere solo di sinistra, ma soprattutto riformista e non guardare al passato e basta, bensì anche al presente e al futuro degli italiani. Bisogna trovare ancora le parole per dirlo, ma come dicevano gli antichi: rem tene, verba sequentur.


(Il Sole 24 ore, 12 settembre 2009)

lunedì 18 febbraio 2013

Ancora sull'enigma del quaderno

«Al terzo e al quarto piano della scala di destra si era insediata la direzione del Pci. Le stanze per gli uffici erano piccole, in quelle che erano state una volta le cucine erano stati sistemati i ciclostili, nei corridoi si inciampava in scatoloni di documenti. Si lavorava in un clima di appassionata confusione, con pochi telefoni che spesso non funzionavano. Le dattilografe, fra cui mia sorella Simona, indossavano il grembiule nero, e avevano le dita perennemente sporche di carta carbone, dato che all’epoca non esistevano le fotocopiatrici».
Nel suo libro postumo di memorie, Una vita quasi due (Rizzoli), Miriam Mafai ha tratteggiato con la grazia arguta che le era propria il quadro della direzione del Partito comunista italiano nella Roma della primavera 1945, la Roma della Liberazione. Un vecchio palazzo umbertino al numero 243 di via Nazionale, gli ascensori esterni a gabbia, un paio di studi professionali e alcuni appartamenti della buona borghesia capitolina. Ma anche, per l’appunto, la direzione del Pci, la mensa, e una foresteria a uso dei compagni sopraggiunti dall’Alta Italia, «molti ancora con l’improbabile divisa partigiana», il fazzoletto rosso al collo…
«Mia sorella Simona – spiega Miriam Mafai in quella stessa pagina – aveva un incarico molto delicato: copiava a macchina i Quaderni che Gramsci in carcere aveva riempito della sua scrittura minuta. Per riconoscere la grafia era costretta a adoperare spesso una lente di ingrandimento, ma era molto fiera del compito che le era stato affidato. Lavorava con lei un’altra ragazza della sua età, bruna, allegra. Si chiamava Milena, ed era la zia di Massimo D’Alema (che però all’epoca non era ancora nato)».
La pagina vale a restituire il senso di una situazione, insieme, prosaica ed epica, storica e leggendaria. Un anno dopo il suo ritorno da Mosca e la svolta di Salerno, è anche sul culto di Antonio Gramsci che Palmiro Togliatti vuole edificare le fondamenta del «partito nuovo». E a dispetto di quanto aveva separato, negli anni Trenta, il prigioniero di Mussolini dal segretario dell’Internazionale comunista, i quaderni redatti da Gramsci nelle carceri fasciste rappresentano la reliquia più preziosa del santo. Non per caso il 29 aprile 1945, in un comizio a Napoli, Togliatti annuncia urbi et orbi l’esistenza di quei «34 grossi quaderni» coperti di «una scrittura minuta, preziosa, uguale». Né per caso quel giorno – che è poi lo stesso, a Milano, di piazzale Loreto – Togliatti mostra al popolo comunista un frammento della reliquia, un quaderno su 34. «Eccone uno», scandisce dal palco del Teatro San Carlo. Ecce Quaternum.
Il resto è storia nota. O piuttosto, è storia che si pensava nota fino a pochissimo tempo fa. La pubblicazione dei quaderni del carcere presso Einaudi, fra il 1948 e il ’51, in un’edizione tematica destinata a facilitarne l’accoglienza e l’influenza. La lunga attesa per l’edizione critica, pubblicata ancora da Einaudi nel 1975. Poi, a partire dal 2007, l’avvio di un’edizione che si vorrebbe “definitiva”, nell’ambito dell’edizione nazionale degli scritti di Gramsci pubblicata dalla Treccani. Finché non ci si è messo di mezzo, l’anno scorso, uno studioso palermitano. Dopo avere argomentato le ragioni di una rottura politica fra Gramsci e il Partito (I due carceri di Gramsci, Donzelli 2012), Franco Lo Piparo ha sostenuto e sostiene che i dirigenti del Pci abbiano fatto sparire uno dei 34 quaderni. Presumibilmente, un quaderno troppo scomodo.
Il nuovo libro di Lo Piparo, L’enigma del Quaderno, sta facendo chiasso sulle pagine culturali dei giornali. Un filologo che sa il fatto suo, Luciano Canfora, ne ha sposato la causa dalle colonne del «Corriere». Dalle colonne di «Repubblica», invece, un filologo meno riconosciuto, Joseph A. Buttigieg (presidente dell’International Gramsci Society), ha denunciato la manipolazione di un cadavere a fini di scoop. In realtà, l’argomentazione di Lo Piparo non merita di essere liquidata come volgarmente sensazionalistica. Chiunque legga senza pregiudizio L’enigma del Quaderno resta colpito dall’acribia di uno studioso che non ha voluto più guardare unicamente al contenuto degli scritti carcerari di Gramsci: che ha scelto di guardare – finalmente – anche al contenitore.
Noi non sappiamo quale sarà l’esito dell’affaire. La Fondazione Istituto Gramsci ha costituito un gruppo di lavoro che comprende lo stesso Lo Piparo, e che potrà avanzare nella ricerca della verità. Ma il merito storiografico dell’indagine di Lo Piparo va salutato fin da adesso. Perché lo studioso palermitano ha appreso da buoni maestri come la celebrata «critica delle fonti» sia fatta di scienza paleografica prima ancora che di scienza filologica. Ecco dunque i Quaderni del carcere – un monumento intellettuale del Novecento - analizzati per quanto di rivelatore possono avere la struttura fisica del supporto, le tonalità di colore dell’inchiostro, le etichette incollate sulle copertine dei quaderni dopo la morte dell’autore. E proprio l’analisi di un’etichetta sovrapposta a un’altra produce deduzioni difficilmente oppugnabili in favore della tesi di un Quaderno mancante.
Sia che Lo Piparo abbia ragione, sia che abbia torto, L’enigma del Quaderno ci ricorda come all’eredità immateriale di Gramsci corrisponda un’eredità materiale: la (cartacea) reliquia del santo. Eccoli, i quaderni del carcere! Per esigenze argomentative, il libro di Lo Piparo contiene la riproduzione di un buon numero di copertine. E il lettore non si stanca di osservarle, queste copertine variamente monocrome o policrome. Per la maggior parte hanno un’asciuttezza scolastica da anni Venti, non portando che menzioni tipografiche del genere: «Gius. Laterza & Figli». Ma alcune si caricano di sapori anni Trenta, fra un generico esotismo e una strizzatina d’occhio all’impero fascista prossimo venturo.
Il Quaderno mancante è stato trafugato, alla maniera in cui si trafugavano nel Medioevo le reliquie dei santi, oppure è stato distrutto, alla maniera in cui nel Medioevo distruggevano i Vandali? In un intervento pubblico del giugno 2012, Massimo D’Alema si è pronunciato – al limite – per la prima ipotesi piuttosto che per la seconda: «Non me lo vedo un Togliatti che distrugge un Quaderno, piuttosto lo conserva per un tempo successivo». Il che gli merita, oggi, la replica di Franco Lo Piparo: «Bisognerebbe chiedere a D’Alema se la sua dichiarazione fosse il risultato di un ragionamento, oppure se abbia pescato nella memoria di qualcosa sentito a Botteghe Oscure».
E se D’Alema avesse pescato – a suo tempo – nella memoria della zia Milena, scomparsa una decina d’anni fa? Milena Modesti era la ragazza bruna e allegra che alla direzione del Pci in via Nazionale, nella Roma del 1945, insieme con Simona Mafai batteva a macchina i quaderni di Gramsci. Certo, ove si considerino le abitudini di riservatezza di un Pci uscito da vent’anni di clandestinità antifascista, e le cautele di un Togliatti sopravvissuto perfino all’abbraccio del Comintem, riesce difficile anche soltanto immaginare che una dattilografa ventunenne abbia avuto sentore dell’intrigo del Quaderno. Ma al punto in cui siamo giunti, perché escluderlo a priori?

Sergio Luzzatto
Il  Sole 24 ore, 17 febbraio 2013 

Articolo precedente sullo stesso argomento:  http://machiave.blogspot.it/2013/02/gramsci-lenigma-del-quaderno-nascosto.html

Che cosa c'è dietro Grillo

Si parla di Federico Mello, Il lato oscuro delle stelle, Imprimatur 2013,  € 16,00

...Giornalista del Fatto quotidiano, poi di Pubblico, Mello intreccia nella sua indagine implacabile il piano dello sviluppo della Rete e dei new media, i cortocircuiti che hanno portato Internet, nel giro di poco tempo, a trasformarsi da una sorta di Eden incontaminato a una lichtung fitta di insidie, e quello della resistibile ascesa di Beppe Grillo, da comico a leader politico. In particolare, l’inchiesta – perché di questo si tratta – scruta da vicino la chimica tra il capo e il suo consigliere, Gian Roberto Casaleggio, in una torsione che, secondo Mello, ha portato dalla individuazione di «nuovi spazi di partecipazione» a un «movimento verticale e proprietario, impermeabile all’esterno e interessato unicamente alla propria ulteriore riproduzione». Una contraddizione in progress che, per l’autore, non si limita alla nota dialettica con il territorio, i «ribelli» inseguiti dalle testate a caccia di comprensione di un fenomeno complesso, ma solido, duro come un diamante.
Nel viaggio al termine della notte grillina, notte fonda anche se stellata, Mello scopre la metafora di una Rete a rischio di incartarsi ed incantarsi, di un Vangelo politico più smagato di quanto la retorica della libertà e della trasparenza svelino. Il paradosso di un «sogno spezzato» proprio in quanto vincente, di successo, nella divaricazione un po’ tradizionale, tuttavia, tra la base buona e il vertice oscuro, più triangolo che prisma.

Filippo Sensi
Europa, 14 febbraio 2013

http://www.europaquotidiano.it/2013/02/14/sotto-le-stelle-di-grillo/








domenica 17 febbraio 2013

Paul Verlaine, l'innamoramento

E' una poesiola facile? E' una poesiola facile. Musicale, come sa esserlo Verlaine, pur con qualche asperità, il "dolorosamente" del secondo verso fa pensare a un passaggio sassoso. L'autore vuole sentirsi in regola e si mostra eloquente.  Mentre i versi scorrono veloci verso la fine, quasi inosservata passa un'idea dell'amore, attraverso una rappresentazione dinamica assai efficace. L'incertezza prima, la fiducia poi che viene dalla certezza del rapporto con l'altro, la comunanza nuova. L'apertura alla vita (dal presagio d'alba al mattino). Alberoni ha scritto libri su libri per dire più o meno questa cosa semplice semplice. A Verlaine sono bastate una cinquantina di parole. Non per nulla era un poeta. (Giovanni Carpinelli)

Camminavo su sentieri infidi
dolorosamente incerto.
E le tue care mani mi guidarono.
 
Pallido un debole presagio d'alba
riluceva all'orizzonte lontano:
il tuo sguardo fu il mattino.

Nessun altro rumore che il suo passo
sonoro incoraggiava il viaggiatore.
La tua voce mi disse: Vai avanti!

Il mio cuore timoroso, oscuro,
piangeva solo sulla triste via:
l'amore, delizioso vincitore,
 

ci ha riuniti nella gioia. 

[da La bonne chanson, 1870]

NB Nel testo francese il poeta si rivolge al suo interlocutore con un voi, che in italiano non è traducibile. Sartre e Simone de Beauvoir si parlavano con il voi, e così facevano le coppie d'altri tempi. Era un segno di rispetto. E il voi in questa poesia può anche venire dal fatto che i due all'inizio non si conoscono. (gc)
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J'allais par des chemins perfides,
 

Douloureusement incertain.
Vos chères mains furent mes guides.

Si pâle à l'horizon lointain
Luisait un faible espoir d'aurore ;
Votre regard fut le matin.

Nul bruit, sinon son pas sonore,
N'encourageait le voyageur.
Votre voix me dit: "Marche encore!"

Mon coeur craintif, mon sombre coeur
Pleurait, seul, sur la triste voie ;
L'amour, délicieux vainqueur,
 

Nous a réunis dans la joie.

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Noi tendiamo ad innamorarci quando siamo pronti a cambiare. Perchè siamo mutati interiormente, perchè è cambiato il mondo attorno a noi, perchè non riusciamo più realizzare i nostri desideri o ad esprimere le nostre potenzialità. Allora cerchiamo qualcuno che ci indichi la strada e ci faccia assaporare un nuovo modo di essere. Possiamo perciò innamorarci a qualsiasi età, ma soprattutto nelle svolte della nostra vita. (Francesco Alberoni)

In memoria di Verlaine posseduto da Rimbaud

La vocazione all'annuncio mortuario che caratterizza twitter mi ha ricordato che ieri, 120 anni fa, è morto Paul Verlaine. Poeta, ma non grande poeta. Lieve, dolce, a volte dolciastro, così implacabilmente musicale, come il Rilke peggiore. La sua immediatezza facile - chi lo ama direbbe: ingannevolmente immediata e facile - fece scegliere due suoi versi come segnale dall'Inghilterra ai partigiani francesi che stava per avvenire lo sbarco di Normandia: "Les sanglots longs des violons de l'automne / Blessent mon coeur d'une langueur monotone". Già.
Gli nuoce la vicinanza e la relazione con Rimbaud, così tanto più grande. Alla fine è Rimbaud che lo salva nella memoria della poesia, il povero "vierge folle" della Saison en enfer, un ritratto così terribile e potente da rendere Verlaine grandioso malgrado se stesso, immortale per contiguità.
Ed è sempre Rimbaud a salvare poeticamente Verlaine anche dopo aver scelto da tempo il silenzio della poesia. Nel 1889 giunse a Verlaine la notizia (falsa) della morte del suo ex giovane amico. Ne uscì "Laeti et errabundi", straordinaria poesia d'amore che nega la morte. All'imbolsito stanco e così adulto Verlaine scoppia la pelle dell'Io, fino ai versi incontenibili della parte finale:
Mort, vous,
Toi, dieu parmi les demi-dieux!
Ceux qui le disent sont des fous.
Mort, mon grand péché radieux e le strofe che seguono. (Enrico Pozzi)

venerdì 15 febbraio 2013

Proust/Vermeer: l'incanto della grazia nella luce

Una piccola ala di muro giallo

Jan Vermeer, Veduta di Delft,  1660 ca., Mauritshuis, L’Aia




M. Proust, La Prisonnière (traduzione di Giovanna Parisse, Roma 1990) in À la recherche du temps perdu (1913-1927)

















Morì nelle circostanze seguenti: a causa di una crisi di uremia abbastanza leggera, gli avevano prescritto il riposo. Ma poiché un critico aveva scritto che nella Veduta di Delft di Vermeer (prestata dal museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro che egli adorava e pensava di conoscere a fondo, una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa, Bergotte mangiò un po’ di patate, uscì ed entrò alla mostra. Sin dai primi gradini che ebbe da salire, fu preso da mancamenti. Passò davanti a molti quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e dell’inutilità di un’arte così artificiosa, e che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia, o di una semplice casa in riva al mare. Infine si trovò davanti al Vermeer che si ricordava più splendente, più diverso da tutto quel che conosceva, ma dove, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, che la sabbia era rosa e infine la preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo. I suoi mancamenti aumentavano; egli fissava lo sguardo, come un bambino su una farfalla gialla che vuole catturare, sulla preziosa piccola ala di muro. “È così che avrei dovuto scrivere, diceva. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo.”

Il [Bergotte] mourut dans les circonstances suivantes: une crise d'urémie assez légère était cause qu'on lui avait prescrit le repos. Mais un critique ayant écrit que dans la Vue de Delft de Ver Meer (prêté par le musée de La Haye pour une exposition hollandaise), tableau qu'il adorait et croyait connaître très bien, un petit pan de mur jaune (qu'il ne se rappelait pas) était si bien peint qu'il était, si on le regardait seul, comme une précieuse oeuvre d'art chinoise, d'une beauté qui se suffirait à elle-même, Bergotte mangea quelques pommes de terre, sortit et entra à l'exposition. Dès les premières marches qu'il eut à gravir, il fut pris d'étourdissements. Il passa devant plusieurs tableaux et eut l'impression de la sécheresse et de l'inutilité d'un art si factice, et qui ne valait pas les courants d'air et de soleil d'un palazzo de Venise ou d'une simple maison au bord de la mer. Enfin il fut devant le Ver Meer, qu'il se rappelait plus éclatant, plus différent de tout ce qu'il connaissait, mais où, grâce à l'article du critique, il remarqua pour la première fois des petits personnages en bleu, que le sable était rose, et enfin la précieuse matière du tout petit pan de mur jaune. Ses étourdissements augmentaient; il attachait son regard, comme un enfant à un papillon jaune qu'il veut saisir, au précieux petit pan de mur. "C'est ainsi que j'aurais dû écrire, disait-il. Mes derniers livres sont trop secs, il aurait fallu passer plusieurs couches de couleur, rendre ma phrase en elle-même précieuse, comme ce petit pan de mur jaune."

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Quello che Proust trovava in Vermeer è suggerito dal testo con chiarezza. Più in generale sul fascino di Vermeer si è espresso in termini convincenti anche G.B. Angioletti in un testo ormai dimenticato:
"La pittura di Vermeer, fondata su elementari occasioni umane, non sembra neppure umana. La grazia suprema è un limite posto al di fuori della terra, e anche l'oggetto più usuale, un bicchiere, un piatto, una candela, a trattarlo come puro elemento poetico finisce col non appartenerci più. Il segreto di Vermeer è proprio questo: di portare, attraverso la forma e il colore, la più umile verità quotidiana al di là di se stessa, di renderla, senza il soccorso di simboli o concetti, magica e sublime".
I grandi ospiti, Vallecchi 1961, p. 232.

Jan Vermeer, Lattaia, 1659, Rijksmuseum, Amsterdam

Se la politica sapesse comunicare…













Manifesto realizzato da Reeves per Eisenhower nel 1952: è uno dei primi esempi di collaborazione organica di un pubblicitario ad una campagna elettorale.


 Parliamo di Berlusconi,  Bersani, Monti, Grillo... Ma non vi preoccupate, non ho intenzione di propinarvi un saggio politologico… Vorrei invece riflettere sui due differenti approcci comunicativi che i nostri eroi portano avanti, lasciando però a chi mi legge il compito di trarre le proprie conclusioni.

Da vent’anni a questa parte (dalla famosa “discesa in campo”) stiamo assistendo ad un evidente impoverimento della comunicazione politica, sia in termini di forma sia  - ahimè - di contenuti. Lasciamo da parte per un attimo i contenuti e concentriamoci sulla forma.

In un mio post precedente sostenevo le ragioni di una comunicazione “leggera” contro quella “pesante”. Ma è questo il fenomeno a cui stiamo assistendo? La comunicazione politica attuale si può definire leggera, o forse, semplicemente è superficiale  nel senso deteriore del termine (dico deteriore perché filosofi come Nietzsche rivalutano il valore delle sensazioni di “superficie”)? Nel mio post di cui sopra sostenevo che una comunicazione “leggera” aiutasse a stabilire un contatto, dovesse essere finalizzata a  stimolare una risposta. Mi domando e - se permettete - VI domando se  (disgusto o ilarità a parte) il modo in cui i nostri politici si rivolgono a noi suscita un qualche tipo di reazione. In altre parole: ci sentiamo spinti ad agire? Temo di no. Allora la questione non sta nel fatto se si possa parlare o meno di comunicazione leggera, ma di comunicazione efficace. E soprattutto se “comunicare” significa  “mettere in comune, legare, costruire” e “politica” significa “comunità” (dal greco  “polis”, città intesa come comunità di cittadini), ne deriva che la comunicazione politica dovrebbe essere un processo finalizzato a costruire o a rafforzare quell’insieme di valori su cui si fonda una comunità. Altrimenti non funziona.

Per portare avanti il mio ragionamento mi baso su due presupposti. Primo: come sostiene lo psicologo Paul Watzlawick  “non si può non comunicare”: anche il rifiuto alla comunicazione è una forma di comunicazione. Come pure lo è una “cattiva comunicazione”, quella cioè che ottiene un risultato differente da quello previsto; secondo: la comunicazione politica, almeno dagli anni Quaranta, ha adottato gli strumenti e le tecniche propri della pubblicità.

Partiamo da questo secondo aspetto. Innanzitutto è necessario sottolineare che la pubblicità è una forma particolare di comunicazione che mira a cambiare l’atteggiamento del pubblico, è in pratica una forma di “persuasione”. Secondo Rosser Reeves (teorizzatore dell’Unique selling proposition - USP - più o meno “argomentazione esclusiva di vendita”),  ogni messaggio pubblicitario per essere ritenuto efficace deve soddisfare tre condizioni: 1) deve proporre un beneficio per il consumatore (o elettore); 2) il beneficio deve essere esclusivo (nel senso che gli altri concorrenti non siano in grado di offrirne uno analogo); 3) il beneficio deve essere così accattivante da spingere il pubblico all’acquisto (o al voto).


E già qui ci sarebbe materiale sufficiente di discussione per riempire 100 cartelle… Mi limiterò a dire che non mi pare proprio che nell’attuale campagna elettorale si possano trovare molti soggetti (Berlusconi e Grillo a parte) in grado di soddisfare le condizioni di cui sopra: programmi in genere poco chiari, sostanzialmente poco differenziabili l’uno dall’altro e sicuramente non abbastanza forti da spostare le intenzioni di voto o di spingere al voto. Ma - e qui mi rifaccio alla massima di Watzlawick - anche una pessima forma di comunicazione è comunicazione. Infatti il risultato  di queste campagne elettorali malamente condotte è quello di spingere le persone o verso l’astensione o verso il cosiddetto “voto di protesta”: non è certo un caso se il Movimento Cinque Stelle sta riscuotendo tanto successo. 

A mio avviso infatti è l’unica realtà politica che - ancora Berlusconi a parte (che “meno tasse per tutti”)- ha una unica e chiara “proposta di vendita”: cambiare il sistema politico. Anche il “tono” della campagna grillina contribuisce a raggiungere il risultato: il fatto di andare in mezzo alla gente e parlare con le persone - e farlo con “leggerezza”, nel senso di usare codici linguistici e comportamentali tali da non creare una distanza percepibile tra il leader e gli altri -  provoca coinvolgimento emotivo. E secondo il modello AIDA (lo schema Attenzione-Interesse-Desiderio-Azione  sul quale si basa l’azione pubblicitaria), è proprio il coinvolgimentio emotivo che spinge all’azione, in questo caso al voto. E, come detto, l’ex comico genovese - a cui va riconosciuta l’intelligenza di essersi affidato a chi di comunicazione ne sa veramente - beneficia proprio dell’incompetenza comunicazionale degli altri soggetti politici (ovviamente sempre escludendo Berlusconi)…

La sensazione sempre più consolidata è che la politica  “tradizionale” sia un mondo a parte, con propri codici linguistici e quel che è peggio con una propria rappresentazione della realtà, molto differente da quella della gente comune. Non è certo un caso se libri come “La Casta” hanno avuto tanto successo: il loro merito non è solo quello di portare alla luce le magagne del sistema ma di dare un nome e una definizione a quell’universo che il cittadino comune e la “casalinga di Voghera” sentono come altro da sé. Certo Vendola in passato è stato uno che del parlare al cuore delle persone ha fatto la sua carta vincente: ma il suo progressivo avvicinarsi al PD ha comportato anche l’abbandono di quello stile comunicativo che tanta parte ha avuto nel fargli vincere le elezioni regionali pugliesi per ben due volte.

E se una buona volta questi politici si decidessero a scendere dalla loro torre d’avorio? Forse finalmente comprenderebbero quello che i pubblicitari hanno capito da tempo: la pubblicità da sola non fa vendere! Non basta adottare qualche tecnica o qualche trucchetto, non esistono scorciatoie: o il tuo prodotto è buono e lo sai “vendere bene” o il mercato difficilmente ti premierà. 

Come uscire da questa situazione? Ecco l’uovo di Colombo: applicare il modello Grillo. Attenzione: dicendo questo non voglio dire che Casini debba mettersi a sbraitare come una pescivendola o  Bersani debba presentarsi in mezzo alla folla in maniche di camicia  o che Monti debba adottare un cane (purtroppo gli ultimi due non sono ipotetici paradossi: l’hanno fatto davvero e i risultati sono stati a dir poco comici). Quello che voglio dire è che basterebbe applicare un po’ di sano buon senso: scendere VERAMENTE in mezzo alla gente, capirne davvero istanze e problemi e, soprattutto, adottare un linguaggio realmente leggero, in grado di parlare al cuore delle persone. Adesso a voi lettori (ed elettori) la parola.