venerdì 29 marzo 2013

Pillole gramsciane5 Analisi culturale e lotta politica


 “La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto piú difficile di quanto non sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto (piú di un volume al giorno, oltre i giornali), ma non è a questo che mi riferisco; intendo altro. Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa «für ewig», secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore.”

Questo si legge in una delle più belle (e commoventi) lettere di Gramsci, inviata a Tatiana pochi mesi dopo il suo arresto, il 19 marzo 1927. La lettera continua delineando un vero e proprio progetto culturale:  1° una ricerca sugli intellettuali italiani; 2° Uno studio di linguistica comparata; 3° uno studio sul teatro di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano; 4° un saggio sui romanzi di appendice e il gusto popolare in letteratura.

Fin dal mio primo approccio con Nino, mi ha sempre meravigliato questa decisione di un impegnato attivista politico – che aveva abituato i suoi lettori e compagni di militanza politica soprattutto alla corrosiva e quotidiana polemica politica in quelli che egli stesso definisce “scritti alla giornata”, che dovevano morire “dopo la giornata” (lettera a Tatiana del 7 settembre 1931) – di passare a scrivere qualcosa “per l’eternità”, (l’espressione tedesca è di Goethe) e di dedicarsi a un sapere “disinteressato”. Eppure io partivo, come tutti noi “posteri”, dalla consapevolezza del­l’impor­tanza di un autore ormai considerato un “classico” della cultura mondiale. Per questo continuo ancora a chiedermi quale impressione deve aver provocato la lettera di Gramsci in Tatiana e in quei pochi e “intimi” lettori dell’epoca.
Oggi mi sembra di poter affermare che in Nino ci fosse la chiara consapevolezza dell’enorme differenza tra la necessità di precedere a strattoni, ed eventualmente con colpi di pesante ironia capaci di spiazzare l’avversario, nella fluida e spesso imprevedibile attività politica quotidiana, e l’analisi accurata, capace di consentire una comprensione più approfondita delle realtà e dei problemi socio-economici, politici e culturali – ammesso che sia possibile distinguere nettamente questi tre livelli nell’opera gramsciana!
La consapevolezza di tale differenza non significa però che, in Gramsci, le due forme di analisi siano o debbano essere autosufficienti o addirittura in conflitto tra loro. Occorre anzi afferrare la necessità di entrambe e coglierne le imprescindibili interconnessioni, soprattutto se si tratta di individuare i “principii di metodologia storica” che consentano una corretta analisi dei rapporti di forza in una determinata situazione:

“l'osservazione più importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano
 quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini ecc.” (Quaderni del Carcere, Torino 1977, pag. 1588)

Francesco Scalambrino

martedì 26 marzo 2013

La verità, la grazia, il silenzio

Pier Aldo Rovatti
Scoprite la filosofia del “quasi-niente”
Il mondo di Jankélévitch, grande pensatore francese, in una monografia 


la Repubblica, 31 dicembre 2012

Vladimir Jankélévitch, chi era costui? Eppure si continuano a pubblicare in Italia le sue opere: nel 2009 il grande volume su La morte, nel 2010 la nuova edizione del suo libro chiave Il non-so-che e il quasi-niente, nel 2012 la splendida conversazione intervista con Béatrice Berlowitz Da qualche parte nell'incompiuto (Einaudi, con l'appassionato interesse di Carlo Bonadies, e a cura di Enrica Lisciani-Petrini). Jankélévitch è morto nella sua Parigi nel 1985, un anno dopo Foucault. La tonalità morale è quella che lui stesso attribuisce alla propria filosofia, che è comunque un pensiero a tutto campo alla ricerca, ostinata e sempre inevitabilmente "incompiuta", di un fondo tanto "semplice" quanto inarrivabile dell'esperienza del pensare e del vivere. La musica, per esempio, e quanto vi attinge per dare colore e perfino spessore al suo singolare modo di far filosofia: è uscita anche la riedizione di Débussy e il mistero (edizioni SE) e bisogna ricordare un altro testo-chiave, La musica e l'ineffabile, tradotto già nel 1985 proprio da Lisciani-Petrini, poi riapparso nel 1998 (da Bompiani).
Enrica Lisciani-Petrini, studiosa napoletana, ha legato al nome di Jankélévitch più di trent'anni del suo lavoro: è lei che lo ha "scoperto" e adesso raccoglie gli esiti di una lunghissima fatica nel saggio Charis, una monografia compatta su Jankélévitch (Mimesis), la prima di tale impegno e penetrazione. Charis, cioè grazia, la nota giusta per entrare in questo pensiero senza tradirlo immediatamente. E allora perché tanta difficoltà? Basta leggere una pagina di Jankélévitch per capire che tra lui e l'attuale dibattito, dal sapore sempre più neo-illuministico, c'è moltissima distanza, quasi un'incompatibilità.
Prendiamo solo qualche battuta dal citato libro-conversazione (Da qualche parte nell'incompiuto): «Per un po' mi sento meno inquieto quando, dopo aver girato a lungo tutt'intorno alle parole, mi rendo conto che non posso andare oltre. La pretesa di toccare un giorno la verità è un'utopia dogmatica, quel che importa è andare fino in fondo, e siccome ciò che cerco esiste appena, siccome l'essenziale è un quasi-niente, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare qualcosa di cui si può intravedere l'apparizione, ma non verificarla perché svanisce nell'istante stesso in cui appare».
E così che lui reinventa la lezione del maestro Bergson, e un'intera generazione di intellettuali francesi ha fatto tesoro del suo insegnamento alla Sorbona e una folla di studenti e studiosi ha trattenuto nelle orecchie parole come queste. Oggi il nostro orecchio sembra meno adatto: abbiamo fretta di correre alla verità, quasi nessuna pazienza di girare e rigirare le parole per orientarle a un obiettivo che subito si preannuncia deludente. Jankélévitch aborriva gli "insipidi itinerari del turismo filosofico", chiedeva tempo e pazienza. Attenzione, però: niente a che fare con una grigia filosofia accademica, ma, al tempo stesso, niente a che fare con un pensiero sfumato e vago. Anzi, lui riprende in modo sorprendente l'adagio di Husserl, strenge Wissenschaft, scienza rigorosa, intendendo con esso l'incessante interrogazione, l'andare fino in fondo anche se l'oggetto sfugge per definizione e scompare proprio quando credi di averlo catturato nella rete della speculazione: il tema della "morte" è per eccellenza un simile oggetto, ma tutti quelli lavorati da Jankélévitch sono simili oggetti. Già, cosa dobbiamo intendere per "rigore"? A che titolo considerare poco rigoroso un modo di pensare che, sulla linea di Agostino e di Bergson, ci mette di fronte all'ineffabilità dell'esperienza del tempo? È più rigoroso stringere in una formula questa esperienza, oppure accorgersi che stringerla in una simile formula è un trucco per tradirla, mentre essa chiede il rigore di un'incessante apertura, il riconoscimento della sua essenza "misteriosa"? Inoltre, questo inabituale rigore deve coniugarsi, secondo Jankélévitch, con il ritrovamento della semplicità: è la fatica ("forsennata", dice) di conquistare una semplicità che tutti sentiamo a portata di mano, quasi intuitiva, ma che ogni volta ingombriamo di discorsi opachi e alla lettera viziosi.
Il mio incontro con il pensiero di Jankélévitch è avvenuto attraverso un suo vecchio saggio sull'ironia (1936, tradotto dal Melangolo, 1987) che ho letto come un "elogio della litote": un'antiretorica del "meno", l'abbassamento del tono come risultato di una "buona coscienza" di tipo ironico. È questo il filo che ci può portare a far nostra la "grazia" che respira in tutte le sue pagine, a non fraintendere l'insistenza sullo charme, in cui lui sposa filosofia e musica mostrando che il "silenzio" è un operatore decisivo del pensare, un tono basso contro i toni alti di tanta filosofia. Ecco dunque un altro pensatore che sembra diventare col tempo sempre più inattuale e che lo rimarrà, necessariamente, finché sarà così invadente e frenetico il nostro desiderio di impadronirci della verità, una volta per tutte.
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Non è disponibile in rete l'articolo di Marco Dotti, Jankélévitch. Identità dell’opera tra un istante di grazia e la rovina del tempo. Una «filosofia della vita» al cuore del Novecento francese: monografia e libro-dialogo curati da Lisciani Petrini; il volume si trova invece ampiamente riconsiderato in  http://www.recensionifilosofiche.info/search/label/Vladimir%20Jank%C3%A9l%C3%A9vitch

sabato 23 marzo 2013

Gli scioperi del marzo 1943. Storia e leggenda

Il 5 marzo [...] al segnale della prova di allarme delle ore 10, gli operai della Fiat Mirafiori cessarono il lavoro. La notizia dello sciopero alla Fiat Mirafiori si diffondeva in un baleno e nello stesso giorno lo sciopero si estendeva a molte altre fabbriche. Nei giorni seguenti lo sciopero delle ore 10 si estendeva e si allargava oltre i limiti della città, raggiungeva Asti, Pinerolo, Torre Pellice, Biella, Vercelli, Villar Perosa, Avigliana, Venaria Reale, Rivoli, Collegno e altri centri dell’industria nel Piemonte. La cessazione del lavoro durava qualche volta anche più ore durante la giornata; lo sciopero riprendeva nuovamente all’indomani o due giorni dopo. Nella giornata del 13 marzo, per esempio, alla Fiat Lingotto gli operai sospendevano sei volte il lavoro, alla Fiat Mirafiori tre volte, e così alla Fiat Materiale Ferroviario e alla Farina, alla Riv di Torino, al Dinamificio Nobel e alla Magnoni e Tedeschi.
Umberto Massola, "Gli scioperi del marzo 1943", in Trent’anni di storia italiana (1915-1945), a cura di Franco Antonicelli, Einaudi, Torino 1961.

Questa è la versione che, di quei fatti, si è impressa nella memoria. Versione che ritorna in tanti testi autorevoli, da Candeloro a Deakin.  Ma le cose non andarono esattamente così. Lo stesso Massola nel 1973 non rimase fermo a quella immagine della Fiat Mirafiori che dà inizio allo sciopero sollevandosi per prima, compatta "come un sol uomo" contro il fascismo. Ma il mito aveva una sua forza e sopravvisse alle smentite che gli furono con fondamento opposte negli anni Ottanta da due autori: Adriano Ballone, in Uomini, fabbrica, potere (1987) e Tim Mason, con "Gli scioperi di Torino del marzo 1943", in Francesca Ferrantini Tosi, Gaetano Grassi, Massimo Legnani (a cura di), L'Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza (1988).

Gli operai di Sesto San Giovanni durante uno sciopero
Ecco alcune tra le cose che ha scritto Tim Mason nel saggio citato.
L'ondata di scioperi che si verificò nel marzo-aprile 1943 fu il primo atto di resistenza di massa di un popolo assoggettato a un regime fascista autoctono. Ebbe anche buon esito e per tale riuscita gli insorti non pagarono alcun prezzo di vite umane. [...] p. 400
...l'assoluta preminenza agli operai di Mirafiori negli scioperi del 5 marzo non è il frutto di una ricostruzione storica del movimernto fatta dopo la guerra; essa è bensì nata come motivo tattico essenziale della propaganda attraverso la quale il Pci si sforzò di diffondere e rafforzare lo sciopero nel corso stesso del suo svolgimento. [...] p. 409

per il testo integrale del saggio: http://www.gramscitorino.it/images/Tim_Mason_1.pdf

A sua volta Ballone afferma:
Così questi operai entrano nella leggenda. Gratificante ma improduttiva, Ad ogni decennale vengono commenorati [...] Leggenda e politica depauperano la storia [...] p. 36
Sicuramente è lo sciopero a far "maturare alla classe operaia la volontà di organizzare le proprie fila" (F. Vincenzi) e non il contrario. p. 42

Con l'aggiunta di uno sfondo la foto è diventata l'icona degli scioperi del marzo 1943


Ancora la leggenda nella bella versione epica degli Stormy Six, 1975
La fabbrica
Cinque di Marzo del Quarantatré
nel fango le armate del Duce e del re
gli alpini che muoiono traditi lungo il Don

Cento operai in ogni officina
aspettano il suono della sirena
rimbomba la fabbrica di macchine e motori
più forte il silenzio di mille lavoratori
e poi quando è l'ora depongono gli arnesi
comincia il primo sciopero nelle fabbriche torinesi

E corre qua e là un ragazzo a dar la voce
si ferma un'altra fabbrica, altre braccia vanno in croce
e squillano ostinati i telefoni in questura
un gerarca fa l'impavido ma comincia a aver paura

Grandi promesse, la patria e l'impero
sempre più donne vestite di nero
allarmi che suonano in macerie le città

Quindici Marzo il giornale è a Milano
rilancia l'appello il PCI clandestino
gli sbirri controllano fan finta di sapere
si accende la boria delle camicie nere
ma poi quando è l'ora si spengono gli ardori
perché scendono in sciopero centomila lavoratori

Arriva una squadraccia armata di bastone
fan dietro fronte subito sotto i colpi del mattone
e come a Stalingrado i nazisti son crollati
alla Breda rossa in sciopero i fascisti son scappati

giovedì 21 marzo 2013

5 stelle, i dilemmi dello sviluppo

Marianna Rizzini
Il Foglio, 21 marzo 2013


E’ l’ultimo giro di chiave alla porta del castello a Cinque stelle, il paradosso dei coordinatori (e proconsoli) della comunicazione Claudio Messora e Daniele Martinelli che, dopo un solo giorno di servizio, non comunicano più – per permalosità verso i giornali che fanno i giornali e interpretano estensivamente nei titoli il “non so, valuteranno i deputati e i senatori” detto da Messora alla “Zanzara”, sul tema del governo extrapartiti. “Macchina del fango”, “esercito di spalamerda”, ha detto il blogger annunciando il silenzio stampa, ché non basta una normale smentita nel mondo sdegnoso degli Avatar sognati da Gianroberto Casaleggio. Ma la doppia mandata non puntella la friabilità e non nasconde la permeabilità delle mura.
Voleva piazzare il riflettore in faccia ai “ladri” dei vecchi partiti, Beppe Grillo, ma il riflettore al momento è su di loro, i parlamentari a Cinque stelle che fanno conferenze stampa senza domande e si riuniscono ossessivamente: più il tema rileva, meno c’è la tanto sbandierata diretta streaming, come ieri durante la “confessione” pubblica dei senatori dissidenti che hanno votato per Pietro Grasso alla presidenza del Senato (poi perdonati), seguita da discussione sulla linea da tenere alle consultazioni stamattina (linea già decisa dal duo Grillo-Casaleggio: vogliamo un governo a Cinque stelle. Ma sotto sotto non tutti sono per il “no” a qualsiasi altra proposta, specie se di “società civile”). Voleva dire ancora “vaffa”, Grillo, ma i “vaffa” sono arrivati a lui, via Web, dopo la sua scomunica dei franchi tiratori. E se è vero che lo sbarco di proconsoli della comunicazione era previsto nella lettera pre-firmata dai candidati alle parlamentarie (pena la non candidabilità), è chiaro che il quadro uscito dalle urne ha sorpreso anche Grillo. Ma la baracca vacilla? Abbiamo interpellato alcuni analisti del grillismo. Il giornalista Giuliano Santoro, autore del libro “Un Grillo qualunque” (Castelvecchi), intravede un possibile conflitto tra due “anime” del movimento finora in “pacifica convivenza”, il “civismo pragmatico e la tendenza totalizzante di Grillo”.
“Fino a oggi”, dice Giuliano Santoro, “il vertice lasciava fare in ambito locale, e intanto centralizzava la comunicazione. Ma il movimento è più eterogeneo di quanto si pensi, ha una base sociale trasversale. Bisogna capire che cosa succederà quando la retorica della difesa di uno spazio o di un diritto minacciato sul territorio, e l’idea dei duri e puri che resistono al nemico esterno, si sposteranno sul piano nazionale”. Elisabetta Gualmini, presidente dell’Istituto Cattaneo, editorialista della Stampa e autrice, con Piergiorgio Corbetta, del saggio “Il partito di Grillo” (Il Mulino), non vede “rischi di deflagrazione immediata in questo percorso di normale aggiustamento”, ma pensa che per Grillo sia ineludibile, ora, il passaggio alla “creazione di quadri intermedi” (Messora e Martinelli?). “Siamo di fronte a un’organizzazione nascente, senza modelli di riferimento forti, investita di un successo superiore alle aspettative”, dice Gualmini, “un’organizzazione che deve risolvere il rapporto tra partecipazione orizzontale dei cittadini – e retorica relativa – e comunicazione unilaterale del capo. Anche il carisma di Grillo, per durare, si deve umanizzare”. Per Paolo Natale, docente di Sociologia politica all’Università di Milano, editorialista di Europa e autore, con Roberto Biorcio, di “Politica a Cinque Stelle” (Feltrinelli), il movimento “sconta il fatto di ritrovarsi ago della bilancia con una preparazione politica non adeguata al livello nazionale, quando invece si pensava dovesse essere solo il controllore. Però mi sembra che ora Grillo si sia messo in ascolto, sia meno granitico”. Ma c’è chi, come Federico Mello, giornalista e autore di “Il lato oscuro delle stelle - La dittatura digitale di Grillo e Casaleggio” (Imprimatur-Aliberti), criticando da sinistra l’impalcatura del M5s, vede già l’implosione nelle contraddizioni “ideologiche” del movimento, quelle che “ruotano attorno alla distruzione della democrazia rappresentativa in favore della democrazia diretta del Web – una bufala alla prova dei fatti”. La tecnologia e la rete, dice Mello, “hanno bisogno di una cultura che possa interpretarle; Grillo invece pone la rete sul piedistallo della divinità. E poi: non c’è per caso un conflitto di interessi per un’azienda privata che svolge un ruolo di segreteria politica per il secondo partito del paese? Vedo tre possibili livelli di conflittualità: tra gli eletti e il duo Grillo-Casaleggio; tra gli eletti stessi, non omogenei; e tra eletti e simpatizzanti, quando si moltiplicheranno le promesse disattese, come a Parma con l’inceneritore. L’antidoto sarebbe la presa di coscienza impossibile dei baby boomers Grillo e Casaleggio, eterni Peter Pan incapaci di dire: vi abbiamo portati fino a qui, ecco le chiavi della macchina”.

martedì 19 marzo 2013

Il passaggio dal carisma alla routine

...In maniera sgangherata e sgarrupata il lìder màximo si sta umanizzando. La sua sacralità si sta erodendo. Il carisma straordinario che ha guidato la battaglia... per poter durare deve mutare carattere. Un po' come ci ha spiegato Max Weber.
Elisabetta Gualmini,  Il doppio salto mortale dei grillini, La Stampa, 19 marzo 2013

Il termine "carisma" deriva da Charis - una dea Greca - che personifica grazia, bellezza, purezza e altruismo. Il possesso di queste facoltà è conosciuto come carisma. [In greco  charizesthai significa favore o dono di origine divina]. Consuetudini successive derivano da San Paolo, il quale lo vide come un favore di benevolenza da parte di Dio: "A qualcuno - attraverso lo Spirito - è stato attribuito il messaggio della saggezza; a qualcun altro, sempre per mezzo dello stesso Spirito, il messaggio della conoscenza; per un altro c'è un dono di fede; ad un altro ancora è stata concesso il potere di guarire, o poteri miracolosi, a qualcun altro virtù profetiche" (1 Lettere ai Corinzi (12:8-10). 
L'uso moderno del termine "carisma" deriva da Max Weber (1864-1920), uno dei fondatori della sociologia. Weber utilizzò entrambi i fattori, economico e sociale, per spiegare la società. Egli vide la civilizzazione occidentale avanzare sempre più verso la razionalizzazione di tutti gli aspetti della vita. Egli pensò che tale razionalizzazione, faceva della vita moderna una "gabbia di ferro", convertendo l'esistenza quotidiana in una meccanica, alienata, insignificante routine. Weber credeva anche che le idee - specialmente quelle religiose - potessero influenzare profondamente la società, e pertanto non potevano essere semplicemente congedate come funzioni che sottostanno ai processi sociali (Jones and Anservitz 1975,1908). Una fonte di idee nuove, è la periodica comparsa di profeti carismatici. Weber definisce il carisma come "una certa qualità della personalità di un singolo personaggio, dotato di una virtù, per la quale egli è considerato straordinario e dotato di eccezionali poteri soprannaturali, sovrumani...[che] sono ritenuti di origine divina." Weber aggiunge, inoltre, che i discepoli del leader - coloro che lo vedono come un essere divino - rappresentano una fonte per il suo potere e per il suo talento personale, dal momento che senza di loro il leader sarebbe una nullità (Weber 1968a,241-42). 
Descrivendo le molteplici esperienze carismatiche, Weber parlò di flusso ininterrotto dal "puro" carisma a quello "abituale" (di routine N.d.T.). il puro carisma è raro (Weber 1968a,1002) e solitamente è reputato tale solo all'inizio del movimento sociale, quando una "comunità carismatica" si coalizza attorno al leader. Questa comunità è caratterizzata dalla fiducia nei talenti del suo leader, da un intenso legame emozionale dei seguaci verso il proprio leader, dal supporto finanziario da parte di simpatizzanti, dal rigetto delle normali attività lavorative e dall'allontanamento dal mondo nel suo complesso (Schweitzer 1984,18; Weber 1968a,33). Il puro carisma perciò è personale ed è basato sul contatto faccia a faccia e su un sentimento di fiducia, dovere ed amore da parte dei seguaci (Schweitzer 1964,364). Dall'altra parte del flusso, il carisma "routinizzato" descrive quello che accade quando succede che il carisma del leader è finemente dissipato fra tutti i seguaci che agiscono in sua vece, generalmente dopo la morte del leader stesso. Il carisma può sopravvivere per molte generazioni ed essere la base di uno stabile ordine sociale, ed essendo [nella sua modalità cristallizzata] conservativo, non può essere una forza per cambiamenti sociali (Miyahara 1983,370). 
Usando il carisma per spiegare sia cambiamenti sociali che i leader eroici, Weber non intendeva meramente inventare un termine accademico. Egli, piuttosto, vide il carisma come il simbolo della forza della vita, incarnata nel carisma stesso, "la spinta della linfa dell'albero e del sangue nelle vene", un potere elementare o demoniaco (Dow 1978). Attraverso l'unione dell'estasi con il carisma - essendo al di là della ragione e dell'auto controllo - Weber enfatizzò lo sganciamento dalle limitazioni sociali, psicologiche ed economiche. Il leader è un modello di liberazione e di potere divino che rende possibile la libertà. I discepoli non si arrendono alla persona del leader ma al potere da lui manifestato, perciò se il potere abbandona il leader, i discepoli abbandoneranno lui. Arrendendosi al leader, i seguaci ottengono la libertà dalla routine, dalle consuetudini e - sempre attraverso di lui - dalle loro sofferenze emotive. Egli è il loro Dio, non nel senso etico o convenzionale, ma in un modo istintivo e primordiale. L'estasi deriva dalla distruzione delle inibizioni, dal potere libero dalle preoccupazioni e dall'abbandono della morale convenzionale. Il carisma è l'emozionante forza della vita opposta alla legge, alla conformità, alla repressione e alla desolazione di una vita ordinaria.

Len Oakes, Il carisma profetico. La psicologia delle personalità religiose rivoluzionarie, 1977


 

 
 

domenica 17 marzo 2013

Quel Manzoni che piace al papa

I promessi sposi, cap. XXIII

Nel brano che segue si possono vedere tra l'altro e in particolare gli effetti prodotti dalla manifestazione del carisma.
 ...
Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così, gl’imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
...

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Stefania Falasca, Il Manzoni di Bergoglio, Avvenire, 17 marzo 2013



Un pomeriggio di qualche anno fa stavo accompagnando padre Bergoglio alla Casa del clero, in via della Scrofa 70, la residenza da dove è partito la mattina del 12 marzo per recarsi al Conclave e dove ha voluto tornare dopo l’elezione per salutare il personale conosciuto in questi anni.

Stavamo camminando. E conoscendo un po’ la sua sensibilità letteraria gli chiesi quali fossero gli autori italiani che amava di più. Mi rispose subito d’istinto: «Alessandro Manzoni. Le pagine dei Promessi Sposi  le ho lette e rilette tante volte. Soprattutto i capitoli in cui si parla del cardinale Federigo Borromeo, le pagine dove viene descritto l’incontro con l’Innominato... Ricordi?». «Sì», risposi, le ricordo benissimo. «Sono le pagine – riprese – in cui si descrive l’Innominato nel momento immediatamente precedente alla sua conversione, quando, dopo una notte vissuta nel tormento, dalla finestra della sua stanza sente uno scampanare a festa, e di lì a poco, sente un altro scampanio più vicino, poi un altro: 'Che allegria c’è?. Cos’hanno di bello tutti costoro?'. Saltò fuori da quel covile di pruni e, vestitosi, corse ad aprire una finestra e guardò.

Al chiarore che pure andava a poco poco crescendo si distingueva nella strada in fondo alla valle gente che passava, altra che usciva dalle case e s’avviava, tutti dalla stessa parte, e con un’alacrità straordinaria. 'Che diavolo hanno costoro? Che c’è d’allegro in questo maledetto paese? Dove va tutta quella canaglia?'. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; e andavano tutti insieme come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano una fretta e una gioia comune. Guardava, guardava e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa. 'Cos’ha quest’uomo? E perché deve venire?» si chiedeva l’Innominato.

«E poi – mi diceva padre Bergoglio – c’è l’incontro tra i due. Il cardinale Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno e con le braccia aperte come a persona desiderata; e infine l’Innominato, come vinto da quell’impeto di carità, si abbandona a quell’abbraccio e c’è quel silenzio tra i due... un silenzio più eloquente di mille parole, l’uno di fronte all’altro... il misero e la misericordia». Padre Bergoglio parlava piano, mentre camminavamo nel centro di Roma, la città di cui ora è diventato vescovo. E ripeteva le parole del Manzoni mandate a memoria, con quel suo modo lieve e insieme incisivo di dire.

Proprio questo mi è tornato in mente quando con sorpresa l’ho visto affacciarsi dalla loggia centrale di San Pietro, dopo l’elezione che l’ha fatto diventare Papa Francesco. Una delle immagini che resteranno scritte negli occhi e nel cuore di credenti e non credenti è quella di quest’uomo, successore di Pietro, che affacciandosi dal balcone della basilica vaticana si china verso la folla venuta per vederlo. Si china, chiedendo a ciascuno in silenzio una preghiera, confessando il bisogno dell’amore e della misericordia di Dio al pari degli altri uomini.


sabato 16 marzo 2013

Laura Boldrini, Discorso di insediamento

  Care deputate e cari deputati, permettetemi di esprimere il mio più sentito ringraziamento per l'alto onore e la responsabilità che comporta il compito di presiedere i lavori di questa Assemblea.
  Vorrei, innanzitutto, rivolgere il saluto rispettoso e riconoscente di tutta l'Assemblea e mio personale al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (Applausi – I deputati si levano in piedi), che è custode rigoroso dell'unità del Paese e dei valori della Costituzione repubblicana.
  Vorrei, inoltre, inviare un saluto cordiale al Presidente della Corte costituzionale e al Presidente del Consiglio. Faccio a tutti voi i miei auguri di buon lavoro, soprattutto ai più giovani, a chi siede per la prima volta in quest'Aula (Applausi).
  Sono sicura che, in un momento così difficile per il nostro Paese, insieme riusciremo ad affrontare l'impegno straordinario di rappresentare nel migliore dei modi le istituzioni repubblicane.
  Vorrei rivolgere, inoltre, un cordiale saluto a chi mi ha preceduto, al Presidente Gianfranco Fini, che ha svolto con responsabilità la sua funzione istituzionale (Applausi).
  Arrivo a questo incarico dopo avere trascorso tanti anni a difendere e a rappresentare i diritti degli ultimi, in Italia come in molte periferie del mondo. È un'esperienza che mi accompagnerà sempre e che da oggi metto al servizio di questa Camera. Farò in modo che questa istituzione sia anche il luogo di cittadinanza di chi ha più bisogno (Applausi).
  Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze. Dovremo impegnarci tutti a restituire piena dignità a ogni diritto. Dovremo ingaggiare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri. In questa Aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo. La responsabilità di questa istituzione si misura anche nella capacità di saperli rappresentare e garantire uno a uno. Questa Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall'Italia (Applausi).
  Dovremo farci carico dell'umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore (Prolungati applausi), ed è un impegno che fin dal primo giorno affidiamo alla responsabilità della politica e del Parlamento.
  Dovremo stare accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l'aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante (Applausi), come ha autorevolmente denunziato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
  Dovremo dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di smarrire perfino l'ultimo sollievo della cassa integrazione, ai cosiddetti esodati, che nessuno di noi ha dimenticato (Applausi), ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l'economia italiana (Applausi) e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi, alle vittime del terremoto e a chi subisce ogni giorno gli effetti della scarsa cura del nostro territorio (Applausi).
  Dovremo impegnarci per restituire fiducia a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti (Applausi).
  Dovremo imparare a capire il mondo con lo sguardo aperto di chi arriva da lontano, con l'intensità e lo stupore di un bambino, con la ricchezza interiore e inesplorata di un disabile.
  In Parlamento sono stati scritti questi diritti, ma sono stati costruiti fuori da qui, liberando l'Italia e gli italiani dal fascismo (Prolungati applausi).
   Ricordiamo il sacrificio di chi è morto per le istituzioni e per questa democrazia. Anche con questo spirito siamo idealmente vicini a chi oggi, a Firenze, assieme a Luigi Ciotti, ricorda tutti i morti per mano mafiosa (Prolungati applausi). Al loro sacrificio ciascuno di noi e questo Paese devono molto. E molto, molto, dobbiamo anche al sacrificio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta (Applausi), che ricordiamo con commozione oggi, nel giorno in cui cade l'anniversario del loro assassinio.
  Questo è un Parlamento largamente rinnovato. Scrolliamoci di dosso ogni indugio nel dare piena dignità alla nostra istituzione, che saprà riprendersi la centralità e la responsabilità del proprio ruolo. Facciamo di questa Camera la casa della buona politica (Applausi), rendiamo il Parlamento e il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani (Prolungati applausi).
   Sarò la Presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato. Mi impegnerò perché la mia funzione sia luogo di garanzia per ciascuno di voi e per tutto il Paese. L'Italia fa parte del nucleo dei fondatori del processo di integrazione europea. Dovremo impegnarci ad avvicinare i cittadini italiani a questa sfida, a un progetto che sappia recuperare per intero la visione e la missione che furono pensate con lungimiranza da Altiero Spinelli (Applausi). Lavoriamo perché l'Europa torni ad essere un grande sogno, un crocevia di popoli e di culture, un approdo certo per i diritti delle persone, appunto un luogo della libertà, della fraternità e della pace.
  Anche i protagonisti della vita spirituale e religiosa ci spronano ad osare di più. Per questo abbiamo accolto con gioia i gesti e le parole del nuovo pontefice (Generali applausi), venuto emblematicamente dalla fine del mondo.
  A Papa Francesco il saluto carico di speranza di tutti noi.
  Consentitemi un saluto anche alle istituzioni internazionali, alle associazioni e alle organizzazioni delle Nazioni Unite, in cui ho lavorato per 24 anni, e permettetemi, visto che questo è stato fino ad oggi il mio impegno, un pensiero per i molti, troppi morti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce (Applausi). Un mare che dovrà sempre più diventare un ponte verso altri luoghi, altre culture, altre religioni.
  Sento forte l'alto richiamo del Presidente della Repubblica all'unità del Paese. Un richiamo che quest'Aula è chiamata a raccogliere con pienezza e convinzione. La politica deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione (Prolungati applausi).
  Stiamo iniziando un viaggio, oggi iniziamo un viaggio: cercherò di portare, assieme a ciascuno di voi, con cura e umiltà, la richiesta di cambiamento che alla politica oggi rivolgono tutti gli italiani, soprattutto i nostri figli. Grazie (Vivi, prolungati applausi).

venerdì 15 marzo 2013

Perché Grillo ha vinto

Carmine Fotia,
il Manifesto, 14 marzo 2013

«Ho detto a quel signore che il vero nemico del partito è un nemico interno, molto più insidioso di quelli all'esterno...la paura di esistere...Siete degli zombie e non lo sapete...», Giovanni Ernani, protagonista del film di Roberto Andò, "Viva La Libertà".

Tra le tante analisi del voto che ho letto in questi giorni, due mi sembrano le più calzanti. Quella di Ilvo Diamanti su la Repubblica e quella di Luca Condò di Ipsos. La prima indaga sulla composizione sociale del voto e ci dice che il 40% degli operai e il 47% dei giovani hanno votato per Grillo, mentre il Pd è più forte tra gli anziani e tra i dipendenti pubblici; della seconda, in questo momento sottolineo due dati: il 30% circa dei voti a Grillo vengono dalla sinistra radicale e il 32% dall'Idv; un pezzo consistente di voto del Pd l'ha abbandonato per riversarsi sul M5S nell'ultima settimana.
Non dico questo per affermare che il Movimento sia la nuova casa della sinistra, ma che, nella composizione trasversale del suo elettorato vi sono milioni di elettori e elettrici del centrosinistra, sospinti su quei lidi dalla doppia crisi che oggi la investe in pieno: crisi di rappresentanza "di classe" e crisi di visione. Avendo smarrito il suo ancoraggio sociale e ogni idea di mutamento radicale dell'esistente, tutta la sinistra, quella "riformista" e quella "radicale", è stata tout court assimilata al ceto politico, alla casta e appare appesa al nulla. È inutile girarci attorno: il voto al Movimento è stato, a sinistra, un voto contro questa classe dirigente, contro questa forma-partito, contro questo modo di fare politica. Il M5S ha fatto dell'indignazione contro la politica il moltiplicatore della rabbia di classe, della rivolta antifiscale, delle lotte contro la devastazione ambientale. Ha raccolto in sostanza anche una forte critica della democrazia rappresentativa, percepita sempre più come il luogo della casta, dei privilegi, degli imbrogli.
La riposta del M5S (consiglio la lettura del libro di Fo, Casaleggio e Grillo), è a metà tra Toni Negri e Scientology, somma elementi di critica radicale alla democrazia rappresentativa che vanno da Rousseau al '68, con suggestioni apocalittiche. Non è dunque da lì che può venire una risposta. Quindi non ci si può stupire se Grillo rifiuti ogni forma di dialogo con chiunque: se lo facesse non sarebbe più il catalizzatore della protesta. Si illuderebbe però chi immaginasse che l'onda della protesta sia già in fase calante e si mettesse nella comoda posizione di attesa, sperando che, alla fine, le nostre razionali argomentazioni prevarranno.
La domanda da cui la sinistra "radicale" deve ripartire è questa: come mai, né la parte che è andata in solitaria, né quella che si è alleata con il Pd, è riuscita a intercettare la più grande critica di massa dopo il '68 al dominio del turbo capitalismo e allo svuotamento della democrazia rappresentativa?
La sconfitta bruciante di Rivoluzione Civile è tutta qua: se per arginare la gigantesca devastazione sociale in atto occorre rovesciare le politiche di austerità, ma ti presenti come il taxi di vecchi partitini ideologici e d'apparato che vogliono tornare in parlamento, il tuo messaggio è svuotato. Per parafrasare Mc Luhan: il mezzo è il messaggio.
Non abbiamo compreso fino in fondo (in questo senso le critiche venute dal mondo di "Cambiare si può" avrebbero dovuto essere prese in più seria considerazione) che la montante rabbia sociale avrebbe preso di mira l'obiettivo più vicino: una politica sorda, cieca e senza voce, di cui siamo stati considerati parte.
Siamo stati avvertiti non come l'embrione di una nuova risposta, ma come l'estrema propaggine di un mondo antico che sventola le sue gloriose ma logore bandiere in un mondo sconosciuto. In campagna elettorale ho ritrovato la generosità, l'onestà, la lealtà di tantissimi militanti, il cui linguaggio però era mille miglia distante da quello dei milioni di cittadini che magari avevano incontrato nelle lotte. Non basta partecipare ai movimenti se ciò non muta il modo stesso di essere delle forme politiche organizzate.
Ma la questione non riguarda soltanto la sinistra radicale e neppure soltanto la sinistra nel suo insieme. Ciò che rende convulsa e così densa di pericoli, ma anche di opportunità, la crisi italiana è che in essa confluiscono crisi sociale, crisi morale, crisi delle istituzioni. I partiti, tutti i partiti, sono zombie, perché nessuno di essi ha capito che il primo passo per venire incontro alla rabbiosa domanda di cambiamento del paese era azzerare se stessi, i propri gruppi dirigenti, il proprio potere per rilegittimarsi dentro la società. Nel Pd l'aveva capito Renzi, che sembra ancora l'unico dotato di una certa capacità reattiva nel Pd, ma che potrà competere solo se capirà il segnale complessivo del voto e la sua carica di rabbia anche contro le logiche devastanti dell'austerità. La rottamazione deve investire non solo i vecchi dirigenti, ma anche le vecchie idee. Un mutamento radicale della forma partito non può che accompagnarsi a una rimessa in discussione dei paradigmi liberisti che producono diseguaglianze crescenti e a un inveramento della democrazia attraverso nuove forme di partecipazione dei cittadini.
[...] Ripensare la democrazia, nelle sue istituzioni rappresentative, così come nei suoi corpi intermedi, è l'unico modo serio per rispondere allo tsunami. Proposte concrete: abolizione del finanziamento pubblico e ricorso a forme di finanziamento tipo l'otto per mille; attuazione dell'articolo 49 della costituzione sulla democrazia nei partiti; forme di partecipazione democratica (referendum, consultazioni on line, strutturazione della democrazia dal basso a cominciare dai comuni); legge sulla rappresentanza sindacale.
In queste elezioni è stata sconfitta tanto una logica iperminoritaria, quanto una immotivata arroganza maggioritaria. Una decisa inversione di rotta può avvenire solo in un campo largo del cambiamento, che si strutturi in forme democratiche di partecipazione, anche perché la radicalità di cui abbiamo bisogno oggi non è affatto ideologica, dal momento che gli elettori ci hanno dimostrato di essere molto più radicali dei partiti e dei partitini.