mercoledì 10 aprile 2013

La felicità è un affetto ribelle


Maurizio Ferraris, la Repubblica, 1 luglio 2012


...Suggerirei conclusivamente tre elementi di buon senso.

Primo, la felicità richiede un oggetto. Nelle istruzioni degli psicofarmaci si legge talora, tra gli effetti collaterali, che potrebbero provocare “euforia”, e suonerebbe davvero strano che uno psicofarmaco potesse provocare, sia pure a livello di effetto collaterale, della felicità. Perché? Secondo me la differenza tra euforia e felicità sta nel fatto che la felicità dipende dall’esistenza di qualcosa nel mondo (e questo mondo può essere anche la nostra psiche) che ci rende felici: una persona, una cosa, una speranza, anche una idea. Non una reazione enzimatica senza oggetto, che creerebbe per l’appunto una semplice euforia.

Secondo, non può essere un fatto puramente individuale. Freud diceva che non si ride e non si piange mai da soli, e credo che avesse ragione. L’uomo è un animale politico, vale a dire un animale che sta in società. Tanto è vero che il solo fatto di stare da soli può essere una causa di infelicità. E d’altra parte non c’è felicità, per immensa che possa essere, che non risulti un po’ diminuita dal fatto di non poterla dire ad altri, così come ci sono felicità che per essenza non ci sarebbero se non ci fossero degli altri. Immaginiamo qualcuno che riceva una medaglia, ma in segreto, e con l’ordine di non dirlo a nessuno e di nascondere la medaglia. Sarebbe felice? C’è da dubitarne. Un corollario di questo punto è che risulta piuttosto difficile essere felici se si causa l’infelicità degli altri, e questo purtroppo è un problema che si dà spesso. [...]

Infine, e soprattutto, non si deve dimenticare che la ricerca ossessiva della felicità è da annoverarsi tra le cause maggiori di infelicità. Kierkegaard ha osservato che gli uomini inseguono così ostinatamente la felicità che a volte la sopravanzano. Credo che sia verissimo, ed è per questo che le Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick (1983, tradotto in italiano da Feltrinelli) è un libretto da cui si può imparare molto. Così come da La felicità di Paolo Legrenzi (il Mulino, 1998), la cui tesi fondamentale è che non ha senso misurare la felicità, ma che si possono invece riconoscere con precisione gli ostacoli che si frappongono tra noi e lei. Senza dimenticare che la felicità è uno stato: si è felici non quando si cerca la felicità, ma quando, cercando qualcos’altro o non cercando affatto, ci accorgiamo di essere felici, e questa consapevolezza spesso coincide con la fine della felicità perché, come ha scritto Adorno “Per vedere la felicità, se ne dovrebbe uscire. L’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine”.
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Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama. 
Eugenio Montale

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