lunedì 8 aprile 2013

Disagio carcerario, vergogna civile


Scriveva Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri… Perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”.
Se questa celebre frase del filosofo francese dovesse essere utilizzata come metro di giudizio della realtà carceraria italiana, se ne dovrebbe inevitabilmente trarre la desolante conclusione che il livello di civiltà del nostro paese è estremamente basso.
Le fredda logica dei numeri è in proposito assai eloquente: le carceri italiane custodiscono attualmente oltre 66.000 persone, di cui il 40% in attesa di giudizio definitivo, a fronte di una capienza massima teorica di 44.000, condizione di sovraffollamento, come si può facilmente intuire, a dir poco drammatica, tale da rendere molti istituti di pena del tutto invivibili. Non è certo un caso se il numero dei suicidi di detenuti sia cresciuto in maniera impressionante negli ultimi anni (759 dal 2000 ad oggi), fenomeno che ha riguardato in misura minore anche il personale carcerario.
Tale disastrosa situazione è in larga parte il frutto velenoso di politiche della giustizia a dir poco discutibili, che hanno portato all’adozione di leggi che non è eccessivo definire criminogene (dalla Bossi-Fini sull’immigrazione, alla quale si deve tra l’altro l’istituzione dei famigerati Centri di identificazione ed espulsione, alla Fini-Giovanardi sulle droghe, alla cosiddetta ex Cirielli, che ha inasprito le pene per i recidivi), che hanno affollato le prigioni italiane di soggetti perlopiù socialmente disagiati (stranieri, tossicodipendenti, autori di reati di microcriminalità), trasformandole in vere e proprie discariche sociali.
Tutto ciò mentre, per converso, i reati dei “colletti bianchi” sono stati o depenalizzati o hanno potuto godere di un accorciamento dei tempi della prescrizione, fenomeno quest’ultimo sempre più diffuso, che ha assunto ormai le dimensioni di una vera e propria amnistia strisciante dai forti contenuti di classe.
Una giustizia quindi forte con i deboli e debole con i forti, con buona pace del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Se è vero che le leggi citate poc’anzi sono state tutte approvate dai governi di destra, è altrettanto vero che i partiti della sinistra, quando sono stati chiamati in anni recenti alla guida del paese, non hanno certo mostrato una spiccata volontà di affrontare e di risolvere queste problematiche, mostrando una persistente idiosincrasia, risalente fin dai tempi del vecchio Pci, per le questioni relative ai diritti civili, a lungo considerate “sovrastrutturali” e pertanto non meritevoli di particolare attenzione.
Una felice eccezione in tal senso è stata a lungo rappresentata, per quanto riguarda i comunisti, da Umberto Terracini, un uomo che la durezza della vita carceraria l’ha conosciuta bene e che si è sempre battuto per la difesa dei diritti dei detenuti, sia come politico, sia come avvocato. Nell’ultima fase della sua esperienza politica le sue posizioni hanno molto spesso coinciso con quelle del Partito radicale, che della questione carceraria ha sempre fatto, e continua ancora a fare, il proprio cavallo di battaglia.
Ed è proprio con una sua citazione, tratta da un discorso in Senato del novembre del 1962, nel quale critica il governo per non aver affrontato un tema a lui particolarmente caro, quello dell’abolizione dell’ergastolo, che mi piace concludere questo articolo:
Forse non tutti hanno coscienza di ciò che significhi per un essere vivente la perdita della libertà personale, e per questo si è facili ad accettare che questa si prolunghi assai al di là di quanto possa essere umanamente sopportato [...]. È tempo di rinunciare alla credenza che la estrema durezza delle pene rappresenti la migliore difesa della società”.

Per approfondimenti su questi temi vai a Associazione Antigone.

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