lunedì 6 maggio 2013

Essadia, basta un sorriso

Anna Cordioli

foto di Stefano Bertolino


Torino, 4 maggio 2013. “Lei si chiama Zohra che significa fiore, mia figlia si chiama Alae che significa tutti i doni che dà il Creatore, lei si chiama Aya che significa miracolo e io mi chiamo Essadia che è la felicità infatti vedi come sono felice?”.
Essadia mi introduce nel loro mondo con un sorriso sereno, come se questa Italia le avesse portato via tutto, ma non quello che il suo nome ha impresso nella sua carne. Sono seduta con loro, come un’amica e mentre parliamo i bambini passano dalle braccia di una a quelle dell’altra.
Finalmente la pioggia ha dato un po’ di tregua e quel pallido raggio di sole che ci illumina ci fa sentire ancora più vicine.
Da lunedì vivono davanti al Municipio, in Piazza Palazzo di Città, determinati a chiedere una risposta concreta al dramma che stanno vivendo, attraverso una protesta pacifica, ma inesorabile. Sono una comunità, mossa da un forte senso di solidarietà e accoglienza, “il tuo problema è anche inevitabilmente il mio e allora non posso che condividere con te tutto questo”. E anche noi veniamo accolti, come se ci conoscessimo da sempre, quello che hanno ci viene offerto, che sia una tazza di the, un caffè, un piatto di cuscus o una minestra calda.
E allora ti siedi con loro sotto i portici, su una coperta, a gambe incrociate, e inizi ad ascoltare le loro storie. Gli uomini ti raccontano che per vent’anni hanno lavorato la notte, ai mercati generali, hanno faticato per risparmiare i soldi necessari per l’acquisto della tanto sognata casa dove crescere i figli, ti raccontano della facilità con cui la banca ha concesso loro il mutuo, dell’arrivo della moglie e poi della nascita dei figli. Il sogno di una stabilità economica che si realizza, con fatica e onestà. Ti raccontano del permesso di soggiorno o dell’umiliazione di essere considerato straniero anche quando hai la cittadinanza italiana. Poi la crisi, il lavoro sempre più precario e sporadico, la banca che con la stessa facilità con cui ti aveva dato una mano ora ti chiede di pagare le rate del muto arretrate altrimenti… il gesto di Mustafa è chiaro, altrimenti “smamma”, ti buttiamo fuori di casa. Ma se non c’è lavoro come si può riuscire a pagare ogni mese 500 euro di mutuo o di affitto?
Le donne ti chiedono di sederti con loro, ti ringraziano perché semplicemente sei lì, ti parlano dei loro figli, di quello che fanno, ti spiegano il significato dei loro nomi che hanno scelto nel Corano e si illuminano quando vedono che anche tu conosci (un pochino) la loro religione.
Sono 15 famiglie, alcune attendono l’esecuzione dello sfratto, una non ha più una casa. Sono una giovane coppia con due meravigliosi bambini di 2 e 3 anni. I loro corpi sono segnati dalla stanchezza, i loro occhi sono pieni di paura per l’insicurezza del domani, non hanno più nulla, tutto è rimasto nella casa dalla quale sono stati sfrattati, hanno solo una piccola valigia con qualche vestito di ricambio. La notte Khadija e i bambini vengono ospitati a dormire dagli amici, mentre il gruppo di uomini restano a dormire qui, davanti al comune, in attesa che qualcuno si accorga di loro e decida di fare qualcosa.
I passanti quasi non li notano, nemmeno il sindaco sembra farlo, scappa verso la macchina quando i bambini lo rincorrono gridandogli “basta sfratti!”. Non riesce a trovare una soluzione o forse semplicemente non la vuole trovare affatto.
Loro restano qui, sono passati sei giorni, ma non mollano. Se chiedi cosa puoi fare per loro, se hanno bisogno di qualcosa, ti sorrido e ti dicono “Nulla, per noi se sei qui basta”.

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