sabato 18 maggio 2013

Manet e Tiziano a Venezia

Valentina Tosoni
la Repubblica, 26 aprile 2013

Eccole una vicina all'altra entrambe sdraiate e rilassate, ma con lo sguardo vigile, attento nel fissarti dritto negli occhi, senza indugio. Basta solo questa visione a decretare l'eccezionalità della mostra che ha ''invitato'' a Palazzo Ducale di Venezia ''l'Olympia '' di Manet, che per la prima volta lascia la Francia e la ''Venere di Urbino'' del Tiziano (prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi), due cortigiane, donne emancipate e fuori dagli schemi.  Entrambe arrivate per presenziare nell'esposizione ''Manet, ritorno a Venezia'', che si candida a essere una delle principali attrattive della Serenissima, proprio ora che si appresta a essere invasa anche dall'arte contemporanea; tra meno di un mese la prossima Biennale conquisterà i Giardini, l'Arsenale e non solo.



Come si sa, tornando ai capolavori di prima, la più antica fanciulla ispirò la più recente, non per questo, però riuscì a evitarle tutta una serie di scandali che segnarono il suo destino. ''L'Olympia'', dipinta da Manet nel 1863, fu rifiutata al Salon del '65, da allora quello spirito di sconvenienza e di difficile accettazione l'accompagnò sempre, come quel malizioso nastrino che le cinge il collo, d'un nero ''ineludibile e poco impressionistico'', come scrive nel testo in catalogo Skira, Roberto Calasso. Manet venne in Italia a studiare l'arte antica e in particolare  apprezzò la pittura di Tiziano, la descrizione delle forme così vivide e naturali, sempre accompagnate da un peso psicologico intrinseco, valori che trovò manifesti e perfettamente interpretati nella splendida Venere, che lo colpì a tal punto da volerne reiterare l'intensità, trasportandola nella sua contemporaneità. C'è chi sostiene che in realtà Manet si formò principalmente in Spagna, dove pure si recò da giovane, e si abbeverò davanti a Goya, El Greco e Velasquez. Sicuramente quell'educazione pose le sue fondamenta e lo strutturò, ma la mostra veneziana con le sue 80 tele straordinarie, fa capire quanto quell'imprinting dovette poi fondersi con altri influssi.

Manet per ben tre volte soggiornò a Venezia, assimilò Giorgione, Veronese e Guardi, come da Firenze portò con sé il tratto dolce dei ''manieristi'' e fu ingordo del nostro Rinascimento. La prima volta che vide la laguna fu nel settembre del 1853, poco più che ventenne, e nello stesso anno vi ritornò per un secondo viaggio. L'ultimo fu invece nel 1874, stesso anno della famosa mostra dell'Impressionismo a Parigi. Esposizione a cui non partecipò, si lasciò invece cullare dalla fantastica luce italiana e realizzò varie vedute del Canal Grande.

La mostra, sapientemente congegnata da Stéphane Guéguan e voluta da Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, riserva grandi emozioni: sono molti i capolavori prestati dal Museo D'Orsay, dal ''Balcon'' realizzato tra il 1868 e il 1869, opera importante che accenna e anticipa quella modernità che poi sarebbe esplosa senza mezzi termini, il celeberrimo pifferaio ''Le fifre'' del 1866 e ancora una copia dell'epocale ''Déujeuner sur l'herbe'' del 1863, che nonostante l'impianto compositivo classico, fece gridare allo scandalo per l'utilizzo di abiti moderni e per le proporzioni della donna nuda in primo piano; ci pensò la storia a tramutare il dipinto dai morbidi contrasti cromatici, in uno dei più significativi capolavori del XIX secolo.

L'impianto critico della mostra è volto a sostenere che non solo la pittura spagnola influenzò l'arte di Manet, ma in buona parte fu proprio l'arte italiana a plasmare l'impianto linguistico del grande artista francese. Oltre a ciò, però è stato realizzato: ''Un grande sogno, che ha comportato un anno e mezzo di lavoro'', ha dichiarato Gabriella Belli in conferenza stampa, e ha poi aggiunto ''Si è concretizzato un desiderio che tutti i direttori di museo, storici dell'arte come me, hanno: riunire nella stessa sala due capolavori, l'uno nato di conseguenza all'altro, siamo riusciti a mettere finalmente a confronto 'Olympia e la 'Venere di Urbino''. Due immensi dipinti che nonostante i 300 anni di distanza, dialogano con estrema modernità.

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