venerdì 14 giugno 2013

Massimo Recalcati, Telemaco

Odissea, libro II
il discorso di Telemaco agli itacesi

 ansioso di dire
 si fece nel mezzo. L’araldo Pisenore, uomo
di saggi consigli, in mano gli porse lo scettro,
E prima, al vecchio rivolto, Telemaco disse:
“O vecchio, non lungi è quell’uomo: son io,
radunato ho il popolo io, colpito da grande dolore.*
Non di gente, che a noi s’appressi armata,
Nè d’altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d’un male, anzi di duo,
Che aspramente m’investono ad un’ora.
Il mio padre io perdei? Che dico il mio?
Popol d’Itaca, il nostro: a tutti padre
Più assai, che Re, si dimostrava Ulisse.**
L’altro è peggiore, che presto tutta la casa
mia scuoterà, distruggendo tutti i miei beni.
Si affollano i Proci intorno a mia madre
ritrosa, e son figli di nobili;  ma entrare
non osano in casa d’Icario suo padre,
che dovrebbe la figlia cedere in moglie
a quello che gli riesca più gradito;*
l’intero dì nel mio palagio in vece
banchettan lautamente, e il fior del gregge
struggendo, e dell’armento, e le ricolme
della miglior vendemmia urne vôtando,
vivon di me: nè v’ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d’infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, nè uguale all’opra
in me si trova esperïenza, e forza.
Oh così le avess’io, com’io le bramo!**
ma più non sopporto
che la mia casa continui a perire.
Dovreste voi stessi indignarvi e temere
di perder la stima degli altri vicini
e guardarvi dall’ira dei numi, che i vostri
giorni non mutino in tristi. Io vi supplico
per Zeus Olimpio e per Temi, che scioglie
e raduna gli uomini insieme: frenate
dei Proci l’impeto folle, o amici;
non lasciatemi solo a struggermi in pianto,
se pure mio padre, il nobile Ulisse
non mai recò danno agli Achivi
tanto che abbiate di lui a lamentarvi e vogliate
incitare costoro al mio danno. Assai meglio
sarebbe per me se voi stessi i miei beni
divoraste: ne avrei forse un giorno il compenso;
verrei ad uno tutti a pregarvi fintanto
che le sostanze mie non tornassero.
Ora d’affanno insanabile colmate il mio cuore.”*
Detto così, gittò lo scettro a terra,
ruppe in lagrime d’ira, e viva corse
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di core in cor nel popolo pietade.
     Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d’una risposta,
tutti stavano i Proci.**
... 
* Enzio Cetrangolo
** Ippolito Pindemonte

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I complessi di Edipo e di Narciso hanno costituito chiavi di lettura decisive per comprendere il disagio della Civiltà e sono largamente entrati nella cultura comune. Ma oggi non bastano più per interpretare la sofferenza dei giovani. Se la figura di Edipo ha messo in luce il conflitto tra le generazioni e l'impatto beneficamente traumatico della Legge sulla vita umana, quella di Narciso ha mostrato come il nostro tempo sia dominato dall'homo felix, dedicato al culto frivolo ma anche mortifero di se stesso. Di questa egemonia di Narciso raccogliamo oggi una eredità catastrofica: il mito della crescita e dell'espansione fine a se stessa ha mostrato la corda, lo spettacolo iperedonista si è rivelato un circo vuoto e melanconico.
In questo contesto, una nuova figura sembra rappresentare il disagio. È quella di Telemaco. Massimo Recalcati lavora da diversi anni sul tema del padre e della sua assenza. Nella visione di Recalcati in primo piano non c'è più il conflitto a morte tra le generazioni, né l'edonista e sterile affermazione di sé, ma una domanda inedita di padre, di adulti in grado di offrire una testimonianza credibile di come si possa vivere con slancio e vitalità su questa Terra.

Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013

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