giovedì 18 luglio 2013

Gorbačëv, il percorso di una vita

 Demetrio Volcic
recensione per L'Indice 
Michail Gorbačëv, Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita, ed. orig. 2013, trad. dal russo di Nadia Cicognini e Francesca Gori, pp. 493, € 20, Marsilio, Venezia 2013


Il titolo Ogni cosa a suo tempo indicherebbe una vicenda ordinata, cosa che la vita di Gorbačëv proprio non è stata: sbagliò mosse, compì passi troppo lunghi per superare la stagnazione o troppo corti perché non trovava il guado. Ha avuto il tempo per finire la guerra fredda. La perestrojka non è riuscita a produrre risultati duraturi, per la brevità della gestione, dal 1985 al 1991, e non ha dato molta gioia ai pensionati e alla gente semplice. Ha tuttavia prodotto con El’cin oltre mille miliardari, secondo le stime degli americani. Il regime ha alfabetizzato il paese, ha scritto un capitolo di grande significato per la Russia, che si è iscritta nell’elenco delle nobili utopie.
L’impero del male, l’Urss, per il presidente Reagan è diventato un paese amico, e Gorbačëv ha trovato particolarmente simpatici gli indiani che si battevano per un mondo denuclearizzato. Sobrio nel descrivere la professione e la vita, privo di cinismo, semmai in alcuni momenti innocente, per uno che dirige un variegato impero con migliaia di agenti segreti e generali. Le sue ricette avrebbero dovuto valere per il mondo, non solo per un paese in crisi. Finché parlava dell’atomo aveva molto ascolto dappertutto.
A una festicciola universitaria conobbe una ragazza e la invitò a fare due passi. Dopo alcune ore lui disse di aver gradito la passeggiata e lei anche. Senza parlare eccessivamente degli affetti, si amarono per cinquantasette anni. Raissa è stata la colonna portante della loro vita, Gorbačëv la voleva sempre accanto nei momenti decisivi. Prima delle visite all’estero lei si studiava le guide dei musei. Le mogli degli statisti erano perplesse, consideravano le visite culturali all’estero come momenti protocollari da sbrigare in cinque minuti. Trattenendole a lungo, Raissa dimostrava la sua cultura e quella della sua Russia. Piccole soddisfazioni.
Michail e Raissa venivano da villaggi dove non esistevano né luce né telefono e quando si partiva per Mosca le valigie di cartone erano enormi, ma buona parte del contenuto erano viveri. Il nonno contadino di Raissa fu accusato di trotzkismo, condannato alla fucilazione, ma la pena non fu eseguita. I genitori di Michail, anche loro contadini, conobbero la persecuzione e il padre qualche anno di prigione. Il futuro presidente non sapeva come presentare le biografie dei genitori quando chiese l’iscrizione al Partito comunista.
Finiti i quattro anni di studi a Mosca, la coppia tornò nella città di lui, Stavropol, in una stanza con il letto di ferro troppo stretto e con la rete che si piegava fino a toccare terra. Come tavolo usavano una cassetta di legno per la frutta. Era un passo in avanti rispetto al grande dormitorio dell’università sulle colline di Lenin, dove anche gli studenti sposati non potevano stare insieme. Se Michail veniva a trovare Raissa, poco dopo suonava il telefono per ammonire contro la presenza di uno straniero nella stanza. Che i giovani imparino a essere controllati! Si sono sposati a settembre, ma sono diventati di fatto marito e moglie a ottobre, in un boschetto dietro all’università. Dopo tre anni a Stavropol l’amministrazione cittadina assegnò ai due e alla neonata figlia un monolocale di 38 mq, con una cucina di 12 mq, un bagno, un gabinetto e un corridoio. Ai Gorbačëv sembrava di non aver più bisogno di nient’altro nella vita.
I dissidenti di tutte le democrazie popolari, da Dubček a Nagy, i grandi e piccoli Trockij, si battevano per un comunismo diverso. La cornice socialista non è stata mai messa in dubbio. Le vittime sono state spesso personaggi per una metà poeti e per l’altra sognatori. I grandi dissidenti Solženicyn e Sacharov non sono mai stati comunisti di professione, ma sono più noti all’estero che a casa loro. Senza la crisi del regime pochi li avrebbero conosciuti. La salita era riservata a chi aveva cominciato da piccolo.
I profili dei colleghi disegnati da Gorbačëv sembrano più esatti rispetto alla media dell’abituale cremlinologia.
Senza Andropov probabilmente non sarebbe sorto un forte movimento riformista nel partito. Il suo passato lasciava perplessità: ambasciatore sovietico a Budapest nel 1956 durante l’intervento sovietico, per molti anni capo dei servizi segreti sovietici, anche durante l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Gorbačëv, uno dei suoi cinque-sei figli spirituali, racconta come arrostivano spiedini sul falò, quando con Andropov trascorsero due vacanze estive insieme, ma l’autore si chiede se fossero stati veramente amici: “Credo di sì. Dico questo con una certa prudenza, perché più tardi avrei scoperto che i sentimenti hanno un significato diverso negli alti gradi del potere. Nonostante il riserbo di Andropov, potevo sentire che era ben disposto nei miei confronti anche quando discutevamo”.
Un giudizio favorevole riguarda Kosygin, dall’aria quasi sempre dimessa, che restava avvolto nella sua corazza. La sua cautela, secondo Gorbačëv, era comprensibile, essendo l’unico vivo di un gruppo fatto uccidere da Stalin. Kosygin di regola guardava. Dal suo silenzio l’interlocutore poteva forse capirne il pensiero. Se fosse stato in dissenso, avrebbe troncato il dialogo. “Dovunque andassi, non ero mai solo”, disse Kosygin in un raro momento di apertura, e si riferiva al controllo assoluto della sua vita personale. Gorbačëv gli chiese una volta perché aveva abbandonato la riforma nel 1965. Kosygin rispose con una domanda: “Perché lei, già membro del comitato centrale, non intervenne al plenum in difesa delle riforme?”. Ambedue sapevano che tre anni dopo la primavera di Praga aveva preso molte (forse troppe) idee dal repertorio del primo ministro.
I dirigenti si davano tutti del voi o del lei, patronimico compreso. Soltanto alcuni, tra questi il segretario generale, davano del tu a una decina di collaboratori più stretti. Dopo l’arrivo a Mosca, Gorbačëv invitò nella sua dacia per una colazione l’ideologo Suslov, rigido e severo, che venne con la famiglia e fu un’occasione piacevole. Invitò pure Andropov e questi rifiutò spiegando: “Michail non deve meravigliarsi, Brežnev avrebbe saputo in poche ore del nostro incontro il che non avrebbe servito al più giovane di noi due”.
Senza Gorbačëv non sarebbe finita la guerra fredda, senza Andropov non sarebbero usciti allo scoperto i riformatori o sarebbero stati diversi. Sono dati necessari per il bilancio dei meriti (o demeriti) del XX secolo. La riforma non aveva gli strumenti per poter procedere velocemente. I politologi di Harvard, d’accordo con gli economisti liberal russi, raccomandavano la chiusura dei grandi impianti paramilitari, obsoleti e senza mercato. Il presidente in un incontro mi disse: “Gli esperti che propongono il licenziamento di quattro milioni di lavoratori non sanno ciò che dicono”.
Un giorno andò nella clinica del Cremlino per una visita a Brežnev e trovò uno slogan che entusiasmò il malato. Pane e difesa. Tornato al Cremlino comunicò il consenso del capo supremo almeno su uno dei punti per i quali si batteva: la gara con la storia, la vodka, l’agricoltura e la Difesa: l) la storia: pochi giorni prima della caduta del Muro, Michail Sergeevič ricordava a Berlino al padrone di casa Honecker che “la storia non perdona chi è in ritardo”; 2) alcool: con uno dei primi provvedimenti fissò i limiti alla produzione e alla vendita della vodka; 3) contadini: ogni autunno lo stato concedeva un prestito milionario alle imprese agricole statali, significa a tutte. Nessuno ha mai restituito un solo centesimo. Gorbačëv propose di alzare solo di pochi centesimi il prezzo del pane per rientrare nell’economia normale e abbandonare i simbolismi. Ma per anni non riuscì a vincere. Costava meno acquistare ingenti quantità di grano all’estero e pagare il deficit con il petrolio che cozzare contro il tabù del pane per tutti. 4) Difesa: nella zona industriale caucasica si sfasciavano i carri armati, si trasportava l’acciaio in un altra fabbrica per costruire un nuovo tank identico al precedente. L’operazione di risurrezione si ripeteva e così lavoravano cinquecento specialisti.
Le prime memorie di Gorbačëv del 1995 (oltre milleduecento pagine, dal titolo Vita e riforme, edito dall’agenzia Novosti, con tiratura di sole tremila copie) risalgono alla vigilia delle elezioni nazionali. Il suo avversario principale era lo spaccamontagne Boris El’cin, spesso cattivo e ogni tanto con un sottofondo alcolico, ma dal cuore cagionevole. Nel periodo più teso stava sotto i ferri del cardiochirurgo americano DeBakey. Ma El’cin impazzava su tutte le reti di tutte le televisioni, ballava, raccontava, prometteva, e stravinse. Aveva registrato gli spot in anticipo. Se fosse morto, il successore si sarebbe trovato nei guai.
Il primo volume di memorie servi da canovaccio al secondo, ora tradotto in italiano. L’autore lo ha ridotto a meno della metà, togliendo alcune sintesi dei suoi colloqui con i grandi del periodo: Mitterand, Thatcher, Brandt, Kohl, Andreotti e tutti i responsabili della politica americana. Il secondo libro è dedicato alla moglie morta nell’autunno 1999: “L’anno successivo è stato il più difficile, la vita ha perso ogni significato, dopo una convivenza di quasi mezzo secolo”. Gli inizi della malattia di Raissa risalgono alla tarda estate del 1991, quando il golpe contro Gorbačëv fallì, perché condotto in modo confuso. Quasi all’alba del giorno dopo al Cremlino nessuno dei congiurati voleva assumersi la responsabilità. La vodka fece il resto e per l’attacco etilico dovette essere trasferito in ospedale il primo ministro Pavlov. Si schierarono con Gorbačëv alcuni reparti di aviazione e una divisione alle porte di Mosca. Poche ore più tardi El’cin poté salire su un carro armato, maledire il golpe e chiedersi come mai il pericolo non fosse stato previsto. Quando la coppia presidenziale rientrò dal Caucaso a Mosca, Raissa si copriva le braccia con un plaid per mascherare l’inizio di una paralisi. Prima di morire, il suo principale tarlo, scrive il marito, era lasciare il destino del paese nelle mani di “individui disonesti, irresponsabili e senza scrupoli”.
Per il fallimento delle riforme Gorbačëv accusa soprattutto il personale politico, le satrapie che si annidavano nei capoluoghi delle quindici repubbliche federative, ma anche nei tanti uffici della metropoli. Al Cremlino interessavano la stabilità e l’equilibrio tra i gruppi sgomitanti in una lotta anche nazionale assai ruvida, in cui il ritrovato senso nazionale contava più dei valori ideologici. Gorbačëv pensò di non essersi “trovato impreparato quando cominciò a profilarsi nel paese la questione delle nazionalità. Uno del Caucaso ha un’inclinazione innata a creare compromessi in tutte le situazioni”. Il suo modo di agire non sarebbe stato una debolezza di carattere come sostenevano gli avversari.
Quando tuttavia un generale sovietico prende la guida della rivolta cecena, quando la polizia interviene con inusitata violenza contro le piazze delle città baltiche, quando Sacharov rientrato dall’esilio interno si procura milioni di tifosi ai dibatti in tv, mentre El’cin puntava senza nasconderlo alla presidenza, il Cremlino avrebbe dovuto consultare almeno il Kgb se non la Cia, abbandonare la tesi economica che tutto si sarebbe sistemato con le migliorate condizioni di vita. Gorbačëv capì le possibili reazioni negative alle riforme, ma non le nuove derive che si sarebbero presentate, e tanto meno faceva ipotesi sulle derive delle derive. Il barometro della vita nel socialismo doveva salire. I capi dei paesi comunisti non la presentavano come un’ipotesi, ma come una legge della storia, come dicevano molti storicisti, marxisti compresi.

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