lunedì 29 luglio 2013

Grey's Anatomy al microscopio

Aldo Grasso e Cecilia Penati
Corriere della Sera, La Lettura, 28 luglio 2013

Non chiamatela guilty pleasure, ossia qualcosa che ci piace, ma di cui ci vergogniamo. Potreste fare arrabbiare la sua creatrice, Shonda Rhimes, la produttrice più influente della televisione americana contemporanea. Meredith Grey è molto di più. Non è solo un personaggio che «ci vergogniamo di amare», non è solo l’ultima erede della narrativa popolare di consumo, l’ennesima pollastrella da chick lit. E in fondo, come spiega Rhimes, «quando dici che uno show è un guilty pleasure, non è certo un complimento. In pratica, stai dicendo che fa schifo».
Chi è allora Meredith Grey? È un affermato aiuto primario presso la divisione di chirurgia generale al Grey Sloan Memorial Hospital di Seattle: la sua carriera è partita da molto lontano, per l’esattezza otto anni e nove stagioni fa, quando la notte precedente al suo primo giorno come tirocinante di chirurgia è finita a letto con un tizio conosciuto per caso in un bar, di cui stentava a ricordare il nome e che prevedeva di non rivedere mai più dopo quell’unico one-night-stand. Per poi scoprire, la mattina dopo, che il tizio in questione era Derek Shepherd, il miglior neurochirurgo dello Stato di Washington, nonché suo superiore tra le mura dell’ospedale. Il destino non si scompone mai senza una ragione. Shepherd è presto ribattezzato dottor McDreamy (in italiano si sono inventati «Dottor Stranamore») e, da lì in avanti, per Meredith la carriera inizia a intrecciarsi irrimediabilmente con il sesso, i drammi chirurgici iniziano a confondersi con quelli sentimentali.
Meredith è il personaggio che dà il titolo a una delle serie più importanti dell’ultimo decennio, in onda su Abc, una delle poche con una forte female lead, forse non la più bella, sicuramente non quella maggiormente acclamata dalla critica, ma senz’altro quella più amata dal pubblico, come testimoniano la sua longevità e i suoi ascolti stellari (al debutto 21 milioni, diminuiti solo nelle ultime due stagioni). Il titolo della serie, Grey’s Anatomy, oltre a mettere Meredith al centro del racconto, è un gioco di parole che richiama il famoso manuale di anatomia descrittiva e chirurgica scritto nel 1918 da Sir Henry Gray e ancora in uso nelle scuole di medicina. Tra le altre cose, Meredith è anche costretta a portare lo stigma di «predestinata», perché «figlia di», nello specifico del famoso chirurgo Ellis Grey: una specie di star della medicina, vincitrice di due premi Harper Avery, ideatrice di un divaricatore per l’addome e di molte procedure chirurgiche all’avanguardia. Una madre devota solo alla medicina, sposata con un uomo debole, che finisce per lasciare dopo averlo a lungo tradito con il più vigoroso collega Richard Webber. Quando Meredith decide di iscriversi a medicina, la scoraggia dicendole che «non ha il carattere». Sarebbe già abbastanza per evocare i più potenti traumi psicologici legati al rapporto madre e figlia, ma le cose si complicano quando Ellis viene colpita da un’aggressiva forma di Alzheimer precoce. Non ricorda più nulla, disconosce la figlia, lascia l’ospedale per trasferirsi in una casa di cura e infine muore per le complicazioni della malattia.
Meredith rimane sola con se stessa, è solo la vocazione per la medicina a sostenerla. È così che, come nella migliore tradizione seriale americana, si costruisce giorno dopo giorno una famiglia sostitutiva, composta dai colleghi tirocinanti e dai primari, che diventano alternativamente mentori, antagonisti, amanti. Un gruppo di medici in carriera, ma anche in tumulto ormonale, espressione di un’ampia varietà etnica e di gender molto cara a Rhimes. Cristina Yang, sua collega di specializzazione, è il doppio di Meredith, quella che lei chiama «la sua persona»: arrivista e talentuosa, disinteressata alla vita familiare almeno quanto Grey desidera ricostruire quel nido che le è sempre mancato
In Grey’s, ogni personaggio risponde a profili narrativi semplici, in fondo quasi schematici, mantenuti con coerenza e costanza nel tempo, accompagnati da dialoghi sempre costruiti in perfetta aderenza alla biografia del personaggio. Il romanzo di formazione dei tirocinanti racconta l’apprendimento delle pratiche chirurgiche, ma è soprattutto una formazione sentimentale, una soap di alta qualità. Insomma, in Grey’s Anatomy, il letto più importante non è certo quello che sta in corsia, tanto che il «New York Times» ha fatto presto a ribattezzare la serie Sex and the City Hospital. Grey’s è un «Luogo d’angoscia», come si confà a un medical drama, ma anche un Nonluogo di avventure sentimentali. A differenza di altre serie, non si preoccupa tanto di descrivere i particolari tecnici delle operazioni mediche (diagnosi, interventi, cure), quanto piuttosto di rappresentare le emozioni dei primi atti terapeutici, così intrinsecamente legati agli intrecci amorosi. Nella sala operatoria, i tirocinanti se la cavano bene, è la vita fuori da lì, con tutte le complicazioni delle relazioni umane, a riservare le insidie maggiori: «Con un bisturi in mano, ti senti inarrestabile. Non provi più paura, né dolore. Ti senti un gigante invincibile. Ma poi esci dalla sala operatoria. E tutta quella perfezione, tutto quello splendido autocontrollo, va in malora».
Il punto di vista di Meredith filtra tutto il racconto, il fulcro narrativo è stretto su di lei, anche grazie all’espediente della sua voce fuori campo (come quella di Carrie in Sex and the City e di Mary Alice in Desperate Housewives) che incornicia ogni episodio con mielose frasi «di genere» in apertura e chiusura, una prosa emozionale e molto ripetitiva, facile a trasformarsi in citazione: «Mi amerai anche quando mi odierai» fa promettere nei voti nuziali redatti su un post-it al dottor McDreamy, in procinto di diventare suo marito. Nel corso delle stagioni, lo sguardo della serie si è allargato a comprendere in modo più bilanciato, ma anche più convenzionale, gli altri personaggi del cast, calcando ancora di più la mano su un’impostazione soapish. Meredith è l’ultima esemplare di una lunga tradizione letteraria (e poi televisiva) di rappresentazione delle eroine sentimentali, ma il suo personaggio aggiorna la categoria da molti punti di vista. In lei non c’è solo virtù, ma è disposta a usare il suo corpo anche in modo divertente e spregiudicato; non vede le cose bianche o nere, ma secondo molte sfumature di grigio, «many shades of Grey», appunto. Frequentare un uomo sposato? Va bene, se sua moglie è a sua volta un’algida traditrice. Manomettere la sperimentazione clinica sull’Alzheimer? Va bene, se è fatto per aiutare la moglie malata del primario di chirurgia, che molti anni prima era stato l’amante di sua madre. Senso di colpa, eterna vocazione al masochismo sentimentale, spirito da crocerossina? Non si sa che cosa l’abbia spinta.
In fondo Meredith è una a cui soffrire non dispiace, soprattutto nelle prime stagioni della serie, quando è per la maggior parte del tempo umbratile e cinica, sempre accompagnata da un velo di pessimismo cosmico. Solo lentamente diventa una donna più sicura e fiduciosa, addirittura disposta a essere felice (e la minore originalità delle ultime stagioni della serie forse va proprio imputata a questo cambio nel personaggio). Helen Eisenbach ha scritto su «Salon»: «Oggi forse abbiamo dimenticato l’impatto che Grey’s ha avuto nel 2005, al suo debutto. Anni prima dell’approccio brillante ed esplicito di Lena Dunham (Girls) o Elizabeth Meriwether (New Girl), Leslye Headland (Assistance) e Mindy Kaling (The Office, The Mindy Project), Grey’s ha rappresentato una svolta trasgressiva. Ci ha fatto capire che i personaggi femminili possono essere ambiziosi, severi, rudi, felicemente promiscui e anche imperfetti, essere antieroi per i quali facciamo il tifo e non solo ragazze carine, fidanzate bollenti e ammirabili eroine. Anche se, certo, a volte possono essere tutte queste cose. È stato esilarante e ha creato dipendenza nel pubblico».
Come le eroine del romanzo epistolare, alla Pamela di Samuel Richardson per intenderci, il personaggio di Meredith funziona come un parafulmine narrativo per sventure e disgrazie di ogni genere (un vero marchio di fabbrica di Shonda Rhimes). Le cose peggiori accadono per darle l’occasione di soffrire, toccare il fondo e rialzarsi, e allo stesso tempo per permettere allo spettatore di simpatizzare con lei: è sopravvissuta nell’ordine a un paziente con una bomba in corpo (letteralmente), a un annegamento, alla sparatoria di un folle in ospedale e a un conseguente aborto spontaneo, alla caduta di un aereo in cui muore anche la sua sorellastra, alle complicazioni di un parto cesareo che avvengono durante un black-out elettrico causato da un uragano. Senza dimenticare la minaccia genetica dell’Alzheimer che pesa su di lei come una spada di Damocle. Ma Meredith è una che sulle sue sfighe sa anche ironizzare. Per annunciare al marito la sua prima gravidanza sente il bisogno di mettere le mani avanti: «Ho sempre l’utero ostile, e mi capitano in continuazione cose terribili».
Negli Stati Uniti, la critica impegnata si è scatenata: è lagnosa, lunatica, prende decisioni spesso irrazionali. È stata criticata dalle femministe per i suoi tratti stereotipati di donna in carriera (alla Mary Taylor Moore): professionalmente competente, personalmente un disastro. A difenderla ci ha pensato la sua creatrice, Shonda Rhimes: «La verità è che sua madre è morta di Alzheimer, nessun altro della sua famiglia le parla, e l’uomo che ama è sposato. È sola come un cane. Ha tutto il diritto di essere lamentosa. Quando inciampa è anche perché non ha nulla a cui aggrapparsi». Il lavoro di Shonda nel costruire i suoi personaggi sta tutto in queste sfumature, niente è solo giusto o solo sbagliato, la morale si può costruire. Parlando di Olivia Pope, la protagonista della sua ultima serie Scandal che con Meredith ha molto in comune compreso il fatto di ricoprire il ruolo di amante, ha raccontato a «Salon»: «L’assunto di base della maggior parte degli show televisivi è quello che, in fondo, le persone sono buone. E c’è sempre un eroe contrapposto ai cattivi. Certo, questi sono i fondamentali della fiction generalista. Ma qui non c’è nessun eroe. Fai il tifo per Olivia, ma lei non è un’eroina. Forziamo il pubblico a identificarsi con lei, e poi gli chiediamo di identificarsi con qualcuno che sta facendo qualcosa di sbagliato».
Le nove stagioni della serie ci hanno permesso di conoscere Meredith da vicino, di vederla trasformare nel tempo: Ellen Pompeo, l’attrice che la impersona, ha avuto la bravura di interpretarne le sfumature più sentimentali e comiche come quelle più cupe e drammatiche. «How to save a life», come salvare una vita, recita una delle ballad usate come colonna sonora per gli episodi della serie (tutti prendono il titolo da una canzone). Il senso del personaggio di Meredith è questo, imparare a salvare vite, possibilmente anche la sua.

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