domenica 14 luglio 2013

Primo Levi partigiano

Luciano Allegra
Sergio Luzzatto, Partigia. Una storia della resistenza, pp. 373, € 19,50, Mondadori, Milano 2013
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Una piccola banda partigiana che operava in Val d’Aosta nel 1943 decide di giustiziare due suoi giovani uomini. Efficacemente infiltrata, dopo pochi giorni viene sgominata e la gran parte dei suoi membri subisce l’arresto. Tre di loro, ebrei, verranno immediatamente instradati verso Auschwitz, via Fossoli: due, fra cui Primo Levi, faranno ritorno; la terza no. All’indomani della liberazione, dei due partigiani uccisi si costruirà una falsa memoria: si dirà che erano caduti per il fuoco fascista e li si onorerà come martiri. Questo, in estrema sintesi, è il contenuto di Partigia di Sergio Luzzatto, un libro che vuole essere, programmaticamente, la storia della Resistenza attraverso una storia della Resistenza.
La ricerca ha preso le mosse proprio dalle pagine che Levi ha dedicato all’episodio. Sono pagine letterarie, pagine ben note, nelle quali Luzzatto ritiene si celi un terribile segreto che avrebbe accompagnato e angosciato lo scrittore per tutta la vita: essere stato corresponsabile di un assassinio, quello dei due partigiani, deciso forse con leggerezza e comunque sproporzionato rispetto all’entità della colpa. Lungo questo filo rosso, che tiene insieme tutto il lavoro, vediamo scorrere una ridda di personaggi che ci parlano dalle carte d’archivio dei processi, dai giornali del tempo, o attraverso la viva voce delle interviste rilasciate all’autore. E man mano cresce nel lettore che le segue l’ansia di sapere che cosa accadde davvero in quei gelidi giorni di dicembre a Levi, alle due vittime, agli altri componenti della banda. Chi decise l’esecuzione? Chi la eseguì? Quale fu il coinvolgimento di Levi? Ma, soprattutto, per quali motivi si giunse a tanto? Queste domande, per la delusione del lettore, rimangono senza risposta. Dopo più di trecento pagine continuiamo a non sapere se quella scelta sia originata da ragioni più o meno futili, oppure “gravi”, come lo stesso Levi ebbe a dichiarare. La verità dunque non viene a galla, e di conseguenza il caso clamoroso, lo scoop inseguito con palpabile trepidazione da Luzzatto, scoppia come una bolla di sapone. A quel punto sarebbe stato logico abbandonare la pista Levi e concentrarsi sull’episodio in sé, per collocarlo nella storia più generale della lotta di liberazione, quella che non ama i clamori e non necessita di “provocazioni”. In questo modo però sarebbe venuto meno il richiamo maggiore, perché la figura di Levi garantiva spettacolarità e quindi doveva essere tenuta in ballo a tutti i costi.
Primo LeviPrimo LeviPer riuscirvi, Luzzatto è ricorso a tre dispositivi: ha accusato Levi di essere stato colpevolmente reticente in merito; ha cercato di farlo passare come un testimone inattendibile perché impreciso; ha forzato la lettura di certi suoi passi per mostrare l’esistenza di un’angoscia irredimibile e latente legata a quell’episodio. Fingendo che quella non fosse la cifra di Levi, Luzzatto comincia dunque con il confondere la densità essenziale delle sue parole (che definisce “avarizia narrativa”) con la reticenza e la vergogna, senza però chiedersi che cos’altro avrebbe dovuto dire lo scrittore nell’evocare l’episodio, o che cos’altro avrebbe potuto, trovandosi all’interno di un contesto narrativo (il racconto Oro del libro Il sistema periodico). Il fatto stesso che Levi avesse rievocato quell’esperienza, per di più in un’epoca contrassegnata dalla monumentalizzazione della Resistenza, sembrerebbe suffragare la dolorosa consapevolezza dei limiti della giustizia sommaria in tempo di guerra, piuttosto che celare un senso di colpa individuale. Strano segreto, del resto, questo “brutto segreto”, visto che era stato lo stesso Levi a propalarlo. Forse conscio della sostanziale insussistenza dell’accusa di reticenza, Luzzatto è allora ricorso, per rinforzarla, a un altro artificio retorico: il discredito del testimone attraverso l’insinuazione e l’enfasi di contraddizioni irrilevanti. Vediamone due esempi fra i tanti. Levi accenna, nel corso di due distinte interviste, all’esistenza di bande che operavano nella stessa zona della sua: quella dei casalesi, che riteneva ben munita di “armi e camion”, e quella di Piero Urati, dalla fama ambigua. La prima, in realtà, non disponeva di tutta quella potenza di fuoco e quindi non era stata né il movente né l’obiettivo del rastrellamento nel quale Levi venne catturato; la seconda invece si sarebbe formata di lì a poco, essendo Urati prigioniero dei tedeschi a Torino. Queste contraddizioni inducono Luzzatto a bollare come “fallace” e “impreciso” Levi, sentenziando come, nel suo caso, riesca “poco utile un’interrogazione della memoria che valga da criterio di storia”.
È sbalorditivo però che non si chieda come Levi avesse potuto attingere quelle (false) informazioni: ovvero che non abbia presente il magistrale Les fausses nouvelles de la guerre di Marc Bloch, abc di chiunque voglia misurarsi con un’interpretazione non ingenua né letterale di fonti così delicate. Ma, ancora. Il 13 dicembre del ’43, con i repubblichini all’uscio che stanno per catturarlo, Levi nasconde la sua rivoltella “nella cenere della stufa”, o almeno così racconta. Nel 2010 un testimone, Yves Francisco, sostiene invece di averla nascosta lui, quella pistola, “in un interstizio del sottotetto”. La futilità del particolare non invoglia certo ad almanaccare su quale delle due versioni sia quella più vicina alla verità, se quella del Sistema periodico o quella dell’ottantottenne Francisco. Ma l’effetto è assicurato: il lettore, a quel punto, avrà l’ennesima conferma che Levi è un testimone inaffidabile. Sarà addirittura portato a dubitare di lui come persona e (perché no?), non appena i negazionisti si impadroniranno di questa discordanza cominceranno a dire che anche Se questo è un uomo è pura menzogna. Un “effetto collaterale” ampiamente prevedibile, di cui però Luzzatto si mostra del tutto inconsapevole o noncurante se, non ancora soddisfatto delle due mani di belletto con cui ha cercato di tenere in piedi la sua ipotesi- fantasma, ricorre a una terza ipotesi, improvvisandosi, lui, semiologo letterario. E dunque cercando in ogni anfratto degli scritti di Levi conferme di quell’atroce segreto che avrebbe angosciato l’intera sua esistenza – altro che Auschwitz. Ne trova ovunque: non c’è racconto o poesia che non ne rechi traccia evidente, o non la celi fra le righe. Perfino Se non ora, quando? sarebbe pervaso di indizi, beninteso manifesti solo a lui (“così visibile che nessuno lo ha visto”; sugli abbagli della sua lettura vedi le belle pagine di Alberto Cavaglion in http://ehess.dynamiques.fr/usagespublicsdupasse).
Fra gli altri non irrilevanti effetti collaterali emerge poi un’immagine della Resistenza caricaturale, fatta di persone scriteriate o goffe, di improvvisatori e pasticcioni, di ebrei snob e di giustizialisti implacabili, di fronte ai quali campeggia una sola figura: quella di Edilio Cagni, l’autentico eroe nero della vicenda, che sembra attirare tutta l’ammirazione dell’autore. Non che mancassero figure come quelle, ovviamente, né che i partigiani non commettessero errori, ingiustizie, violenze: la favola del lupo contro l’agnello gli storici non se la raccontano più da un pezzo. E non a caso negli ultimi anni sono apparsi in merito molti fondamentali contributi, alcuni proprio sulle esecuzioni sommarie delle bande. La vicenda di Partigia avrebbe dovuto farvi esplicito riferimento, perché le cause, le forme, i modelli di quei comportamenti e di quelle azioni erano di volta in volta diversi e costituiscono oggi un campo di indagine fra i più promettenti. Nel libro, però, a essi neanche un accenno, tranne quello, fugace, a Pansa, che non basta ad assolvere il compito. E così, omettendo di affrontare nella sua complessità e nella sua generalità il tema quanto mai rilevante della violenza e della giustizia partigiana, Partigia non riesce a uscire dalle secche della storia locale. Nella quale finisce la costruzione di una falsa memoria all’indomani della guerra, un processo che, tanto fra le file dei fascisti quanto fra quelle dei partigiani, coinvolse migliaia di persone, stendendo una coltre di ambiguità sulla nascente repubblica. Anche in questo caso ci si ferma alla storia delle due vittime, come se il fenomeno non fosse generale e non richiedesse, per comprenderne tutta la complessità, una formalizzazione e un approccio comparato.
A fine lettura ci si chiede quale sia, al di là del crisma retorico e artificiale rappresentato da Primo Levi, il problema centrale attorno al quale ruota il libro e il fine per il quale è stato scritto. Non si trovano risposte diverse da quella che Luzzatto stesso ha più volte confessato: per liberarsi da certe sue ossessioni. Non pare però che ci sia riuscito, visto che continua a menare fendenti contro “i devoti di Primo Levi”. Ci sono terapie più efficaci che scrivere brutti libri di storia.

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