lunedì 5 agosto 2013

Aron e Sartre, gloria e sfortuna della libertà

Guido Vitiello
Introduzione a Breve storia della libertà di David Schmitz e Jason Brennan (IBL Libri 2013), pubblicata dal Foglio il 5 luglio 2013.


Non dico che Raymond Aron fosse un bell’uomo. Tutt’al più, avrebbe detto mia nonna, un signore distinto: elegante, bel portamento, un sorriso affabile, un naso (cito sempre la nonna) «importante». Ora date un’occhiata al suo eterno amico-nemico Jean-Paul Sartre: a esser larghi di manica, era la versione strabica di Mr. Moto, il detective giapponese impersonato da Peter Lorre nei noir di fine anni Trenta. Malvestito (degli abiti sbagliava perfino la taglia), alquanto ranocchiesco, esoftalmico dietro gli occhialetti tondi, capelli untissimi, denti giallognoli e ritorti, la pelle vizza, pareva sbalzato da una tavola del repertorio fisiognomico di Lavater. Per giunta era basso, così basso che Aron, che tutto era fuorché uno spilungone, poteva permettersi il capriccio di chiamarlo mon petit camarade. Eppure non c’era verso, le donne preferivano Sartre, che dico: non gli davano pace, lo assediavano come una rockstar o un divo del cinema. E il filosofo, dal canto suo, ricambiava circondandosi di ragazze appariscenti, perché la sola vista di una donna brutta – lo confidò proprio lui, l’inarrivabile sgorbio, in un’intervista a Playboy nel 1965 – lo offendeva. Quanto ad Aron, sfortunatamente, la redazione di Playboy non si sognò mai di interpellarlo sul tema. Almeno sotto questo aspetto, non me la sento di obiettare ai giovani contestatori parigini e al loro slogan «Meglio aver torto con Sartre che ragione con Aron»: ne andava della loro educazione sentimentale, per dirla con il massimo dell’understatement
Non me la sento di obiettare, tanto più che questo schema archetipico si riproduce, con piccole varianti, nella vita di ogni liberale imberbe, negli anni della scuola o dell’università (mi rivolgo, di tutta evidenza, ai lettori maschi; le lettrici portino pazienza per qualche riga, e tutt’al più ci commiserino). Non che fiorissero ovunque menti sopraffine come Sartre ed Aron, beninteso. Ma lo schema era quello, inflessibile e crudele: ad affascinare le compagne di studi, ricorderete, erano quasi sempre i propugnatori di idee radicalissime e incendiarie, gli occupatori di aule, i comizianti, i bulli ideologici; il tutto, neppure a dirlo, a spese di noi occhialuti raziocinanti e rimuginanti. La verità? Il liberalismo non è sexy. D’altro canto, quando pose la sua celebre domanda – «Perché il fascismo è più sexy del comunismo?» – Susan Sontag non si degnò neppure di tenerci in conto, di considerarci tra le opzioni percorribili. E come darle torto? Gli uni avevano Wagner, i Nibelunghi, Mishima, D’Annunzio e i tanti esteti armati degli anni Trenta; gli altri rispondevano con Lenin, Che Guevara, il subcomandante Marcos e una filza di fascinosi guerriglieri zazzeruti o dagli occhiali scuri. Entrambi, radicali di destra e di sinistra, avevano a disposizione una portentosa epica storica, un repertorio formulaico e sloganistico di sicuro effetto e una stirpe di eroi e di condottieri a cui ricongiungersi idealmente. E noi, che cosa potevamo contrapporre a tutto questo? Qualche gentiluomo settecentesco in parrucca, e l’inventario infinito dei nostri dubbi. Non il calor bianco delle passioni eroiche e cavalleresche, proprie ai guerrieri, ma il tiepido mondo degli interessi, il mondo meschino e prudente dei mercanti, secondo la bella distinzione di Albert O. Hirschman. Non la fede che smuove le montagne, ma tutt’al più quella «fede irrazionale nella ragione» di cui parlava confusamente Karl Popper in coda alla Società aperta e i suoi nemici, l’unica fede che sia concessa a uno scettico. E davanti all’areopago delle donne, diceva il misogino Gadda, «il Tentenna è perduto».
Un’epica liberale? Sembra un ossimoro, un ferro ligneo. Certo, c’è sempre quella romanticona di Ayn Rand, che non sarà una scrittrice di prim’ordine ma ha tentato quanto meno di capovolgere lo schema: i veri eroi sono i mercanti, diceva, che abitano tra le fiamme perenni del rischio, mentre i guerrieri sono parassiti tenuti in vita a spese della comunità. Ma non è un’autrice facile da importare (la più grande concentrazione dei suoi romanzi, in Italia, la si trova per qualche misteriosa ragione nei magazzini Ikea, dove sono usati per riempire gli scaffali, per giunta in edizione svedese). Il suo Atlas Shrugged non ha avuto grande eco da noi, e quel suo vecchio saggio sui giovani astronauti apollinei contrapposti ai contestatori dionisiaci di Woodstock, fidatevi, non avrebbe fatto il nostro gioco. Ma immaginate se avessimo avuto tra le mani, negli anni decisivi, questo piccolo libro di David Schmidtz e Jason Brennan, Breve storia della libertà, edito da IBL Libri. Sarebbe stata tutta un’altra storia, e i bulli ideologici avrebbero avuto la loro nemesi. Avremmo potuto narrare anche noi una saga grandiosa le cui origini si perdono addirittura nella preistoria, quando si celebrò la vittoria evolutiva dell’Homo Sapiens, audace, avventuroso, disponibile al baratto e allo scambio, sull’uomo di Neanderthal, chiuso, guardingo, organizzato in tribù isolate e autosufficienti. L’Eroe liberale contro l’eterno Parassita. Avremmo potuto anche noi soffonderci dell’alone del mito, citando misteriose tavolette sumere di più di quattromila anni fa dove era registrata la prima ribellione all’oppressione fiscale, e dove compariva la più antica delle molte forme della parola libertà: amagi, ossia «ritorno alla madre», l’affrancamento di chi aveva ripagato il debito cessando, così, di essere schiavo. La libertà di tornare a casa.
Sarebbe stata tutta un’altra storia.
Libertà è la prima parola di cui uno spirito libero dovrebbe diffidare, se non altro perché la si leggeva, impressa in ferro battuto, sui cancelli di Auschwitz. Non c’è tiranno che non se ne fregi, non c’è chierico che non la accomodi al suo dogma e alla sua casuistica, non c’è terrorista che non pretenda di spargere sangue in suo nome. E allora si tratta, come diceva Ernesto Rossi rievocando Salvemini, di «battere con le nocche sull’intonaco delle parole per sentire quel che c’è dietro: il gesso, la pietra viva o il vuoto». E si tratta soprattutto di proteggere l’idea stessa di libertà dalle scorrerie dei predoni illiberali, segnandone i confini ed erigendo bastioni. Schmidtz e Brennan, filosofi-economisti, dedicano gran parte della loro introduzione a delimitare questo concetto elusivo, partendo, com’era quasi d’obbligo, dalla distinzione canonica di Isaiah Berlin tra libertà positiva e negativa, «libertà di» e «libertà da». Ma il loro non è un libro di filosofia, e della parola in fin dei conti si interessano poco. Più che della storia filosofica di un’idea, di un Begriff teutonico, si tratta di storia vera e propria, storia di popoli, di guerre, di regnanti e di sudditi – ma indagata e ricostruita sotto uno sguardo filosofico. Ancor meglio: indagata e ricostruita sì da poterne spremere qualche goccia di filosofia, qualche idea guida su ciò che promuove l’espansione della libertà e ciò che, di solito, la fa retrocedere. Perché è il concreto svolgersi delle vicende umane, la storia con il suo scalpello, che ha sgrossato, definito, foggiato e rifoggiato il blocco di marmo informe dell’idea di libertà, donandole nel corso del tempo tutte le sue sfumature, i suoi lineamenti e le sue dimensioni.
A ciascuna di queste dimensioni Schmidtz e Brennan dedicano un capitolo. C’è la libertà dall’arbitrio e dal capriccio dei sovrani, anzitutto, ottenuta lungo i secoli con la loro sottomissione alla legge, al rule of law. La libertà di religione, che si fa strada dall’avvento della Riforma luterana, nel 1517, in modo tutt’altro che coerente e indolore, già che i protestanti dei primi tempi non ne erano esattamente dei paladini. La libertà di commercio, che gli autori legano alla data simbolica del 1776 – anno in cui Adam Smith scrive La ricchezza delle nazioni e Turgot emana i Sei editti – e alla quale dedicano il capitolo più filosoficamente ambizioso, cercando di ricavare dall’osservazione storica gli ingredienti che la rendono possibile. Le libertà civili, poi, che sono acquisizione più recente (qui la data convenzionale da annotare è il 1954, con la causa Brown v. Board of Education of Topeka che portò alla deliberazione della Corte suprema contro la segregazione razziale nelle scuole).
È un’epopea, certo, ma un’epopea decisamente avara di eroi e di condottieri, dove ogni vetta è conquistata grazie alla cooperazione – volontaria e soprattutto involontaria – di una miriade di uomini, di condizioni, di fattori e d’interessi distinti se non contrapposti. La scorribanda fulminea di Schmidtz e Brennan attraverso millenni di storia (e di preistoria) dà nondimeno l’impressione di un’invincibile armata e di un’avanzata inarrestabile. O quasi inarrestabile. Perché l’ultima frontiera verso cui i due filosofi-economisti lanciano la loro sfida – la libertà psicologica, o se vogliamo la libertà interiore – è anche la più nebbiosa, la più inespugnabile, quella in cui è più alto il rischio di impantanarsi e di capitolare. Gli autori citano, per cominciare, il famigerato esperimento di Milgram, lo psicologo sociale che nel 1963 rivelò la propensione umana ad obbedire agli ordini, anche quando questi sono in contrasto con le convinzioni morali più sacre. Ripercorrono poi gli altri trabocchetti cognitivi e psicologici che si frappongono all’esercizio pieno della nostra libertà – dal confirmation bias al treadmill edonico, ossia il disinteresse per le soddisfazioni raggiunte e l’ansia di ottenerne di nuove. Qui l’impresa è davvero disperata, l’epopea si volge in parodia d’imboscata, e piaccia o meno si finisce per inciampare nel famoso legno storto – che lo si chiami peccato originale o male radicale, poco cambia – il difetto di fabbrica dell’uomo che rende dolorosamente manchevoli tutti i nostri piani.
Certo, l’educazione a qualcosa pur serve, e qualche sforzo non del tutto vano si può compiere per insegnare a sventare i tranelli mentali che generano senza tregua oppressione e infelicità; così come molto si deve fare per garantire un mercato delle idee ricco ed aperto. Ma sulla frontiera mentale tutto si complica e s’ingarbuglia, e il nesso tra la libertà interiore e le altre dimensioni della libertà esplorate nel libro potrebbe essere meno lineare di quanto pensano, o forse sperano, gli autori. Anche senza cedere alle seduzioni del Grande Inquisitore, alla sua cupa convinzione che gli uomini in cuor loro non desiderano la libertà perché non sanno sopportarne il peso, si deve riconoscere che i fardelli da cui ci alleggeriamo nella vita esteriore finiscono a volte per gravare su quella interiore; e che la libertà, che è si cara, lo è anche perché la si paga a caro prezzo di preoccupazioni, indecisioni, insoddisfazioni, dilemmi, terrori e desideri angosciosi che i nostri antenati Neanderthaliani neppure si sognavano. O si sognavano soltanto.
Una conclusione troppo arresa e scoraggiante? Non posso negarlo, e la definizione del liberale che mi è da sempre più cara è questa: un anarchico pessimista. E d’altro canto, proprio negli anni fatali della scuola e dell’università in cui i bulli ideologici mi bersagliavano con la cerbottana, mi sono formato, da liberale di scarsa dottrina e scarsissimi entusiasmi, sui moralisti classici assai più che sui liberali classici, salvo ritrovarmi a casa nelle pagine di David Hume.
Ma il lettore, specie il più giovane, non mi prenda troppo in parola, non segua il mio esempio e si appassioni egualmente a tutte le tappe dell’epopea. Ne va, se non altro, della sua educazione sentimentale.

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