martedì 20 agosto 2013

Il ruolo dei militari in Egitto

Bernardo Valli
Mubarak e il generale. In Egitto tornano i rais
la Repubblica, 20 agosto 2013

Il generale Abdel Fattah al-Sisi è un sentimentale. Gli capita di far piangere la platea. In aprile, a conclusione di un concerto, ha preso la parola per ringraziare gli interpreti, e li ha commossi al punto che sono scoppiati in lacrime. Il generale Sisi sorride spesso. Sembra un ictus. Le migliaia di ritratti appesi alle finestre, ai balconi, in molti quartieri del Cairo, non solo quelli borghesi, anche i sobborghi operai ne sono pieni, mostrano un volto disteso, sereno, senza il piglio militaresco che verrebbe spontaneo attribuire a chi ha promosso una repressione il cui bilancio supera il migliaio di vittime. Il suo sguardo è spesso mascherato da grossi occhiali ray-ban. Gli egiziani appartengono al mondo arabo dell’ulivo (i cui alberi ombreggiano il delta del Nilo che si getta nel Mediterraneo); un mondo contrapposto dagli storici per la sua gentilezza a quello arabo assai più rude della palma (i cui alberi punteggiano le rive irachene del Tigri e dell’Eufrate che si gettano nell’Oceano).
Con i sorrisi e il linguaggio suadente, dietro i quali si nasconde un freddo calcolatore, il generale affascina oggi la maggioranza degli egiziani, riluttanti a riconoscersi investiti da un’ondata di odio, ben evidente a un osservatore straniero. L’espressione serena del generale rassicura e funziona da alibi: dà l’impressione che, nonostante il sangue versato, il paese dell’ulivo non sia cambiato. E che sia nelle mani di un uomo duro ma giusto. Il quale, per la dignità che irradia, non può essere l’istigatore di non nobili istinti popolari.
Il generale Sisi è un personaggio complesso. È riservato, dosa le parole, ma a volte si abbandona a confidenze, sia pure senza mai abbandonare il riserbo di un ufficiale che ha diretto l’intelligence militare. È religioso, la moglie porta il velo, e lui compie le cinque preghiere quotidiane prescritte dal Corano, ma non è un bigotto. Non pensa che la religione debba essere confusa con la politica. Nel 2006,
quando frequentava negli Stati Uniti l’US Army War College, scrisse alcune considerazioni sulla società americana e sulla società musulmana. Gli americani credono nella vita, nella libertà e nella ricerca della felicità. Mentre la cultura islamica punta all’equità, alla giustizia, all’uguaglianza e alla carità. A questi giudizi il generale aggiungeva che una democrazia deve appoggiarsi su principi religiosi. Ma la teocrazia non rientrava tuttavia nelle sue idee. La escludeva. Il suo scritto fu tuttavia interpretato come molto vicino alle tesi dei fratelli musulmani.
Il generale Sisi non ha mai partecipato a una guerra. Nel ‘77, a 23 anni, uscì dall’accademia militare quando l’allora presidente Sadat faceva la pace con Israele, mettendo fine ai conflitti con lo Stato ebraico. Egli appartiene quindi alla nuova generazione arrivata all’apice della gerarchia, vale a dire nel Consiglio supremo delle forze armate (Scaf), proprio quando con l’elezione dell’islamista Morsi i vecchi generali, che avevano governato per un anno con pessimi risultati, furono mandati in pensione. Il generale Sisi sembrava destinato a convivere con gli islamisti.
Non erano in pochi ad avere questa impressione, ma si sbagliavano. Nonostante l’età, 59 anni, relativamente giovane per un capo delle forze armate, e le esperienze nelle scuole di guerra americane e inglesi, il generale Sisi è fedele alla vecchia tradizione militare egiziana, che risale ai primi dell’Ottocento, all’epoca di Mohammed Ali pascià, e che è poi stata rilanciata nel 1952 dagli “ufficiali liberi” repubblicani, dopo la fine della monarchia. L’esercito è la spina dorsale e l’arbitro della vita nazionale. Controlla più di un terzo dell’economia ed è l’arbitro in campo politico. Anzi, lo domina. Il rosario di disfatte inflitte da Israele (‘48, ‘56, ‘67, ‘73) non ha intaccato il suo prestigio, perché all’interno del paese, non avendo avversari in grado di abolire i suoi privilegi e la sua autorità di fatto al di sopra delle leggi, l’esercito vanta soltanto vittorie. È passato dal socialismo al liberismo, e ha imposto non poche versioni di autoritarismo, sempre con presidenti usciti dai suoi ranghi. Naghib, Nasser, Sadat, Mubarak. Tutti leader politici e generali. Abdel Fattah al Sisi non è ancora il presidente, al momento dice di non volerlo diventare, ma la strada è tracciata. La tradizione riprende.
Il 3 luglio Sisi ha cacciato dalla presidenza l’usurpatore, l’intruso, il borghese Mohammed Morsi, e nelle settimane successive ha disperso i suoi seguaci, i Fratelli musulmani. Mentre la repressione è ancora in corso, è stato annunciato che le accuse contro Hosni Mubarak, l’ex presidente scalzato dal potere dalla “primavera araba” e condannato da un tribunale, stanno per essere alleggerite. In particolare potrebbe cadere quella di corruzione e questo trasformerebbe la detenzione di Mubarak in libertà condizionata. Il generale Sisi cancella una macchia vergognosa del suo vecchio superiore? Èun segno della solidarietà di casta? L’improvvisa clemenza nei confronti di Mubarak sconcerta molti animatori della primavera araba dichiaratisi in favore del “golpe” dell’esercito contro il presidente islamista e il governo dei fratelli musulmani. Adesso si sentono un po’ beffati. Hanno l’impressione che il vecchio rais corrotto stia per essere riabilitato. È una restaurazione rampante? Il ripristino dello stato d’emergenza, che restituisce i vecchi poteri ai militari, può essere considerato un altro segnale.
A suo modo il generale Sisi è rispettoso delle regole. È l’esercito che, contenendo e poi cavalcando l’insurrezione di piazza Tahrir, cominciata il 25 gennaio 2011, ha deposto Mubarak, e che l’ha arrestato. Poi, sempre i militari, hanno condotto il paese alle elezioni e hanno insediato alla presidenza il vincitore Mohammed Morsi. Il generale Sisi è diventato il suo ministro della difesa, di fatto il garante dell’esercito nel governo islamista. Per la sua fama di musulmano osservante sembrava l’uomo adatto. Si sospettava appunto che fosse affiliato alla Confraternita dei Fratelli. Alcuni nella sua famiglia della media borghesia (il padre era un commerciante) lo erano e lo sono. Un cugino, Khaled Lufti al Sisi, è stato ucciso durante lo sgombero di Rabaa al Adawij, a Nasr City, il quattordici agosto, giorno del massacro.
Le voci sulla supposta appartenenza alla fratellanza musulmana del generale sono state bruscamente smentite quando lui di persona, senza ricorre ad intermediari, ha invitato la popolazione a manifestare contro i “terroristi”, come ormai chiamava apertamente gli islamisti. Sentendosi appoggiata dall’esercito la maggioranza della popolazione ha sfogato la sua collera, alimentata da giornali e televisioni, contro i fratelli musulmani rivelatisi incapaci di governare e ritenuti responsabili del disastro economico. Il compassato ufficiale, con lo sguardo nascosto dietro gli occhiali neri, si è rivelato un laconico ma efficace tribuno, poiché senza perdersi in lunghi discorsi è riuscito a mobilitare la maggioranza del paese contro i fratelli musulmani, un anno prima votati come salvatori della patria. Il sospetto che fosse tutto orchestrato è abbastanza fondato. Mentre la collera montava contro il governo inefficiente, le stazioni di benzina sono rimaste senza carburante e il Cairo si è paralizzato. Per miracolo hanno ripreso a funzionare subito dopo la destituzione di Morsi. Il compassato generale Sisi si è dimostrato un buon agitatore e un esperto nel tessere trame. Non a caso ha comandato l’intelligence militare.
Molti puntano sul generale Sisi. La maggioranza del paese è con lui: dagli uomini d’affari dei tempi di Mubarak, che sperano in una restaurazione e comunque in un ritorno all’ordine, agli operai trascurati dai fratelli musulmani, insensibili ai problemi sociali. Quelli che non sperano in una sua rapida ascesa, lo detestano. L’odio è reciproco. Per gli uni, per la maggioranza, i fratelli musulmani sono terroristi, per gli altri, una minoranza, sono i difensori della legittimità essendo stati eletti con il primo libero voto nella storia dell’Egitto.
Quest’ ultima affermazione è contestata da molti. Un gesuita che vive al Cairo, Henri Boulad, sostiene che l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza fu una grande mascherata, e che l’esercito non aveva scelta. Le milizie dei fratelli musulmani, armate fino ai denti, seminavano il terrore in tutto l’Egitto. Omicidi, rapimenti, stupri. Chiese e scuole cristiane bruciate o saccheggiate, religiosi cattolici e copti uccisi. Padre Henri Boulad giustifica l’azione dei militari e denuncia l’atteggiamento dei paesi occidentali, e le critiche dei mass media. Il gesuita è un evidente grande sostenitore del generale Sisi.

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Sergio Romano
L’Egitto, i militari, la democrazia, quei golpe fuori dai nostri schemi
Corano e colonnelli, l’eterna tentazione
La «via militare al progresso» inaugurata da Atatürk come costante della storia moderna del mondo islamico
Corriere della Sera, 5 luglio 2013

La storia del ruolo dei militari nelle vicende del mondo arabo-musulmano comincia in Egitto agli inizi dell'Ottocento, dopo la spedizione di Bonaparte, ma è anzitutto una storia ottomana. Nel corpo di spedizione albanese, inviato al Cairo da Costantinopoli per rimettere ordine in una provincia troppo precipitosamente abbandonata dalle truppe francesi, vi era un giovane ufficiale, Mehmet Ali, spregiudicato e ambizioso. Si sbarazzò dei mamelucchi (una oligarchia militare che controllava il Paese in nome del Sultano), ottenne dall’Impero una sorta d’investitura, creò una dinastia e avviò la modernizzazione del Paese ricorrendo a tecnici, istruttori e amministratori europei.
Viene scritta così la prima legge fondamentale dello Stato arabo in epoca moderna: il ceto sociale più adatto alla sua modernizzazione è quello dei militari. Hanno constatato, a loro spese, la potenza degli eserciti europei. Si sono familiarizzati con le loro armi. Hanno frequentato le loro scuole. Hanno potuto misurare la distanza che separa le società arabe dalle società occidentali. Hanno capito che la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale, ma può essere un ingombrante ostacolo sulla strada della modernità. Hanno un personale interesse all’esercizio del potere e possono governare, nella migliore delle ipotesi, a vantaggio della nazione.
Questa «via militare al progresso» diventa ancora più rigorosa ed efficace quando l’azione si sposta nel cuore europeo dell’impero (Costantinopoli, Salonicco, Smirne) e ha nuovi protagonisti nella persona dei giovani ufficiali che escono dalle accademie militari alla fine dell’Ottocento. Hanno studiato all’estero, hanno fatto un apprendistato diplomatico nelle ambasciate ottomane, hanno combattuto contro gli italiani in Libia, contro i greci, i bulgari, i serbi e i montenegrini nelle guerre balcaniche, hanno assistito con grande amarezza e forti sentimenti di umiliazione al declino dell’Impero. Il loro modello militare è la Germania di Guglielmo II, con cui la Turchia ha ormai una solida alleanza. Il loro modello civile, anche se adattato alle condizioni locali, è quello democratico diffuso dalle logge massoniche soprattutto là dove esiste una maggiore influenza francese. Il nome con cui desiderano essere chiamati è quello di «giovani turchi». Quando Winston Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, decide nel gennaio del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande guerra, di colpire la Turchia a Gallipoli con lo sbarco di un corpo composto da truppe del Commonwealth, uno di essi coglie gli invasori di sorpresa e rovescia le sorti della battaglia. Si chiama Mustafà Kemal, ha 34 anni, è colonnello.
Qualche anno dopo, mentre le flotte dei Paesi vincitori gettano l’ancora nel Bosforo e l’Italia prende possesso del vecchio palazzo dei veneziani sulla collina di Galata, Kemal accetta la perdita delle province arabe, ma rivendica il cuore anatolico dell’Impero, prende la guida dell’esercito, batte i greci, depone il Sultano Maometto VI, proclama la fine del Califfato, sposta la capitale ad Ankara e crea la Repubblica turca: uno Stato laico che bandisce il fez e il velo, dà il voto alle donne, instaura l’alfabeto latino, adotta codici ispirati dalle legislazioni occidentali. E’ una dittatura, ma infinitamente più democratica, nella sostanza, degli Stati che sorgono contemporaneamente, sotto la protezione delle potenze coloniali, nelle vecchie province arabe dell’Impero ottomano.
Quando muore nel 1938, Kemal «il Padre dei turchi» (Atatürk è il nome adottato dopo la guerra della riconquista), lascia in eredità ai suoi successori uno Stato in cui le forze armate sono i custodi della laicità, i supremi protettori dell’identità nazionale. Verso questo Stato le classi dirigenti arabe hanno un duplice atteggiamento. E’ il vecchio padrone di cui è bene diffidare, ma è il solo, nella regione, che abbia la dignità dell’indipendenza, istituzioni efficaci, un rispettabile status internazionale. Da quel momento non vi è rivolta, rivoluzione o spinta al rinnovamento, nel mondo arabo, che non prenda corpo negli ambienti militari e non sia tacitamente ispirata dal mito inconfessato del grande Kemal. Sono «nipoti» di Atatürk quasi tutti i leader arabi della regione: il general Neguib e il colonnello Nasser in Egitto, il generale Abdul Karim Kassem in Iraq, il generale dell’aeronautica Hafez Al Assad in Siria, il colonnello Gheddafi in Libia, il generale Sadat dopo la morte di Nasser e il generale Mubarak dopo la morte di Sadat. Anche nei Paesi in cui le maggiori cariche dello Stato sono talora occupate da personalità civili, come nel caso dell’Algeria, la spina dorsale dello Stato, nel bene e nel male, è rappresentata dalle forze armate.
Vi sono alcune eccezioni, naturalmente. In Marocco il generale Oufkir, anima dannata del regime, non riesce a conquistare il potere con un colpo di Stato e viene frettolosamente eliminato nel 1972. In Tunisia, dove la società ha sempre vissuto in simbiosi con il modello delle istituzioni francesi, la personalità carismatica di Habib Bourghiba conquista il consenso nazionale. Nel Paese più multiculturale delle regione, il Libano, l’esercito non riesce a imporre la propria autorità sulle milizie religiose: le falangi dei cristiani e il «partito di Dio» degli sciiti (Hezbollah). In Libia Gheddafi esce dalle file dell’esercito, ma ne diffida e preferisce una sorta di forza privata costituita dalle tribù fedeli. Complessivamente, tuttavia, l’esercito è il protagonista di qualsiasi rivolgimento e il futuro dittatore è molto spesso un colonnello perché il comando di un reggimento basta spesso per rovesciare un regime e conquistare il potere.
Naturalmente l’autorità dell’esercito dipende in buona misura dalla storia del Paese e dal ruolo delle forze armate nelle vicende cruciali della storia nazionale. In Algeria è forte perché può rivendicare la vittoria contro la Francia nella lunga guerra per l’indipendenza e quella contro le formazioni combattenti del Fronte islamico della salvezza durante il lungo conflitto civile degli anni Novanta. In Egitto Nasser ha combattuto contro gli israeliani nel 1948 e la sua presidenza è sopravvissuta alla spedizione anglo-francese di Suez nel 1956. Ma ha perduto la «guerra dei sei giorni» nel 1967. Sadat può vantare qualche successo nella fase iniziale della guerra del Kippur e Mubarak, negli stessi giorni, è protagonista di una fortunata operazione sul canale di Suez. Il siriano Assad ha perduto nel 1967 le alture del Golan, ma ha curato le forze armate come un gioiello di famiglia collocando i suoi fedeli alawiti nelle posizioni di comando e riempiendo i propri arsenali con armi importate dall’Urss, dai suoi satelliti e, più recentemente, dalla Russia e dall’Iran.
Tra l’esercito turco e quelli dei Paesi arabi esiste tuttavia una importante differenza. Il primo ha mandato un primo ministro sulla forca (Asnan Menderes nel 1961) e ha brutalmente destituito, sino all’avvento al potere dell’Akp (il partito di Erdogan), tutti i governi costituiti da forze politiche islamiche. Ma ha conservato, a dispetto delle accuse di Erdogan, il senso della propria missione laica e repubblicana. Quelli dei Paesi arabi, invece, hanno una irresistibile tendenza a divenire casta militare, corpi separati, «regioni autonome» che difendono i loro interessi corporativi, gestiscono una parte dell’economia nazionale e lasciano vivere senza troppi scrupoli tutti coloro che non attentano alle loro prerogative. Quando ha abolito il secondo turno delle elezioni del 1991 e ha duramente combattuto gli islamisti, l’esercito algerino difendeva il potere che aveva conquistato per se stesso.
All’esercito egiziano, in particolare, occorre riconoscere una considerevole dose di scaltrezza e prudenza. Ha concluso un patto con gli Stati Uniti: un miliardo di dollari all’anno per tenere d’occhio Hamas nella striscia di Gaza e ed evitare, per quanto possibile, un altro conflitto arabo-israeliano. Ha coperto le spalle di Mubarak sino al giorno in cui ha capito che rischiava di condividerne la sorte. Ha convissuto con la Fratellanza musulmana sino al giorno in cui l’inettitudine della presidenza Morsi cominciava a rappresentare rischio per la conservazione del proprio status e la salvaguardia dei propri interessi. Vi è molta saggezza orientale in questa politica, ma anche cinismo, opportunismo e una certa tendenza a navigare, giorno dopo giorno, nel senso delle correnti.
Non credo che le altre forze armate della regione, a questo punto, diano migliori garanzie e offrano migliori prospettive. In Algeria la malattia del presidente Bouteflika annuncia una transizione che potrebbe mettere a dura prova la stabilità del regime. In Tunisia l’esercito deve combattere i salafiti e le formazioni ispirate da Al Qaeda soprattutto lungo i confini sud-occidentali del Paese. Ma i salafiti non sono soltanto il nemico visibile, asserragliato nelle sue trincee. Sono anche nascosti nel fronte interno e sembrano in grado di esercitare qualche influenza su Ennahda, incarnazione tunisina della Fratellanza musulmana.
In Libia esistono solo milizie, abbastanza forti per impedire che il Paese abbia un governo stabile, troppo deboli e numerose perché una di esse possa prevalere sulle altre e creare un nuovo Stato. In Libano l’esercito è una istituzione seria e rispettabile, ma troppo fragile per disarmare Hezbollah, garantire l’ordine pubblico, la pace civile e l’indipendenza. In Siria l’esercito combatte una guerra civile, difende Assad e se stesso contro una parte della società, non può essere la forza armata della nazione. In Iraq l’esercito è stato distrutto dal primo proconsole americano e molti di coloro che hanno smesso l’uniforme sono ora impegnati in una guerra civile contro gli sciiti che potrebbe rivelarsi non meno sanguinosa, alla fine, di quella siriana. E tutto questo accade purtroppo mentre la Turchia non è più, come negli scorsi anni, il Paese che sembrava in grado di conciliare la laicità, la fedeltà alle tradizioni e il dinamismo economico. In queste condizioni non è facile ragionare sul ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nella regione. Gli Stati che zono di fronte a noi sull’altra sponda del Mediterraneo sono alla ricerca di nuove rotte, nuove bussole, nuovi timonieri. Potremo essere utili al loro futuro soltanto quando li avranno trovati.

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