lunedì 30 settembre 2013

Serve il coraggio dei moderati

Emanuele Macaluso
l'Unità 30 settembre 2013

 L’AVVENTUROSA INIZIATIVA BERLUSCONIANA CHE HA MESSO IN CRISI IL GOVERNO E COLPITO INTERESSI VITALI DEL PAESE, ha un risvolto su cui riflettere: lo sconcerto tra le forze produttive, lo sbandamento dell’area politica del centro-destra e anche lo smascheramento di quei gruppi di «sinistra» (Grillo e il Fatto) che avevano bollato l’opera del presidente della Repubblica come copertura e sostegno alle magagne del Cavaliere.
C’è da aggiungere che anche nel centro-sinistra, dopo tanti giuochi tra le correnti-non correnti, è scoccata l’ora della verità. Anzitutto un’osservazione che dà un senso preciso alle cose cui ho accennato: tutti i giornali, anche il Fatto, hanno qualificato l’iniziativa berlusconiana come una pugnalata al Paese. Il che significa che il governo Letta, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, nella realtà italiana esprime una verità: uno stato di necessità dovuto alla drammatica situazione economica e sociale, alla nostra precaria collocazione in Europa e alla impossibilità di tornare a votare con una legge elettorale infame e sotto giudizio della Corte Costituzionale. Questa verità non può essere cancellata dall’ira del Cavaliere e dei suoi scudieri che non vogliono prendere atto di una sentenza irrevocabile, di una sconfitta che non è solo giudiziaria, ma politica perché ha messo in forte evidenza che un certo modo di fare politica ha toccato il fondo.
Nei prossimi giorni vedremo come si svilupperà il dibattito parlamentare e quali processi politici si apriranno anche nei gruppi parlamentari che hanno sostenuto o avversato il governo Letta. Un’attenzione particolare deve essere data all’«area moderata», dove forze sociali (non solo la Confindustria), gruppi cattolici e laici che avevano apprezzato l'impegno del Pdl in un governo di emergenza con il Pd e Scelta Civica, non sono disposti a subire passivamente l’avventurismo berlusconiano. E anche nel gruppo parlamentare del Pdl le critiche di Cicchitto e la decisione degli onorevoli Quagliariello e Lorenzin di dimettersi da ministri ma non di aderire a Forza Italia rivela più che disagio una determinazione politica di non accettare un regime di partito che ignora le regole più elementari della democrazia e della collegialità. Un partito in cui c’è un «segretario» che non ha partecipato né alla demenziale decisione di fare dimettere tutti i parlamentari (pezzi di carta inutili in mano a Schifani e Brunetta), né a quella di mettere in crisi il governo.
Il tema di oggi è, a mio avviso, chiaro. Dal momento in cui formalmente si apre la crisi il Capo dello Stato, seguendo la Costituzione e la prassi, dovrà verificare se nel Parlamento c’è una maggioranza in grado di esprimere un governo. Ma per questa possibilità occorre lavorare con iniziative politiche o bisogna rassegnarsi ad accettare quel che vorrebbe Berlusconi? La questione riguarda soprattutto il Pd, dove non mancano gruppi che, per motivi correntizi, privilegiano le elezioni: una parola chiara e iniziative limpide sono necessarie per capire dove si vuole andare a parare. In ogni caso si tenga ben presente il fatto che il presidente della Repubblica ha più volte detto che è assurdo tornare a votare dopo pochi mesi e ancora più assurdo farlo con una legge che tutte le forze politiche - almeno a parole - dicono di non volere e che il 3 dicembre subirà un giudizio della Corte Costituzionale.
Su questo nodo è bene che i dirigenti di tutte le forze politiche rileggano l’applauditissimo discorso di Napolitano pronunciato alle Camere dopo la sua rielezione, per capire che non ci sono spazi: con questa legge non si voterà. Il Paese nella situazione di oggi ha bisogno di un governo che intanto faccia l’essenziale in tutti i campi, soprattutto in quello economico-sociale e anche per cambiare la legge elettorale. Solo dopo questa fase si potrà valutare il futuro, non solo del governo ma della politica italiana.

domenica 29 settembre 2013

I funerali di Pablo Neruda

Stefano Malatesta
Neruda e il gigante
Quei funerali al canto dell’Internazionale
Quarant’anni fa moriva il poeta cileno. Lo accompagnarono nell’ultimo viaggio centinaia di giovani che sfidarono la polizia di Pinochet schierata
E un oratore d’eccezione, lo scrittore Francisco Coloane

la Repubblica, 28 settembre 2013

Pablo Neruda morì quarant’anni fa, nel settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe dei militari cileni. Anni prima era stato candidato alla presidenza del Cile, ma i medici a Parigi, gli trovarono una malattia che lasciava poche speranze e al suo posto venne eletto Salvador Allende, il primo e unico presidente delle Americhe che si autodefiniva marxista.
Così Pablo tornò in Cile per l’ultima volta perché voleva essere seppellito sulla spiaggia di Isla Negra vicino a Valparaiso, dove aveva costruito una casa come un “barco”, in cima alle dune, come se fosse stata spinta lassù dalle lunghe ondate del Pacifico. Era nato a Temuco, un paesetto del Sud, nascosto in quelle vallate che dalle Ande scendono verso il tratto di mare più pescoso del mondo, percorso dalla corrente gelida di Humboldt, dove si incontrano banchi immensi di sardine pescate con un sistema di idrovore, che in poco tempo ingoiano tutto il banco. Questi erano territori che appartenevano agli auraucani, grande popolo guerriero, gli unici indios che furono capaci di fermare i tercios spagnoli, guidati da Valdivia e di sconfiggerli. A Temuco, un posto dove piove sempre, non c’era molto da fare e si poteva anche morire di noia, ma il giovane Neruda passava molto del suo tempo ascrivere i suoi versi incantato dal rumore che facevano le gocce sulla lamiera di ferro ondulato, l’unica copertura delle case povere cilene. Quando costruì la casa di Isla Negra, fece ricoprire la sua camera da letto dello stesso materiale: quella pioggia lo faceva tornare giovane.
Non so bene perché Pablo non venne seppellito, come aveva desiderato sulla spiaggia di Isla Negra. Morì in un’altra casa seminascosta tra le montagne che dominano Santiago. Una costruzione pendula che stava tra la capanna di Tarzan sugli alberi e il rifugio del barone rampante di Calvino. Quando arrivai sul posto, insieme con tutti i giornalisti presenti in città e il mio amico Saverio Tutino, che era stato corrispondente da Cuba per l’Unità e Le Monde, trovammo cinque o seicento ragazzi venuti da tutto il paese con il rischio di essere catturati dalla polizia scatenata dai gendarmi di Pinochet.
Davanti alla casa di Pablo i ragazzi avevano di fronte centinaia di agenti dei servizi speciali che stavano fotografando e filmando tutti i presenti alla cerimonia. All’uscita del feretro, questi ragazzi alzarono il braccio sinistro con il pugno chiuso nel saluto comunista. Tutti sapevano che la sera stessa qualcuno avrebbe bussato alla loro porta, per prelevarli e spedirli all’isola di Dawson, nella Tierra del Fuego, un carcere infame da cui non era facile tornare. Ma nessuno di loro avrebbe rinunciato a dare l’ultimo saluto al loro più grande poeta. Poi qualcuno intonò l’Internazionale subito seguito da un coro potente che fece irrigidire gli agenti della polizia.
Io non ho un passato di militante comunista, ma anche io, come molti altri giornalisti, cantai l’Internazionale e forse avrei cantato anche Bandiera rossa, quello era il momento. Gli uomini dei servizi speciali che stavano a sentire quella canzone, posarono le macchine fotografiche per terra e tolsero i fucili mitragliatori dalla tracolla per puntarli contro la processione. Ma gli uomini della Cia che avevano appoggiato e manovrato il golpe dopo i primi massacri avevano consigliato la massima prudenza a Pinochet, soprattutto in presenza di giornalisti.
La tensione si allentò quando prese la parola un gigante dai capelli corvini, abbronzato come un marinaio. L’uomo indossava un maglione blu. Il gigante, che sembrava arrivare direttamente dallo stretto di Drake, fece l’elogio di Pablo con voce tonante. Alla fine molti ragazzi piangevano e i giornalisti avevano inforcato gli occhiali da sole per non fare vedere gli occhi arrossati.
Dopo il golpe sono ritornato due o tre volte in Cile, l’ultima una decina di anni fa, non per scrivere un reportage politico, ma per intervistare Francisco Coloane, il cantore del mondo australe che aveva scritto racconti bellissimi su Cabo de Hornos e sulla Tierra del Fuego. Io non lo avevo mai incontrato ma avevo contribuito a far diffondere i suoi libri in Italia. Negli anni precedenti qualcuno del governo, vergognandosi che la casa di Neruda fosse stata svaligiata dalla polizia durante i giorni del golpe, l’aveva trasformata in un museo recuperando tutta la meravigliosa collezione di Polene, le decorazioni di legno che Pablo aveva trovato in giro per il mondo.
Il pomeriggio tornai a Santiago per l’appuntamento con Coloane. Lo trovai seduto su un divano perché aveva avuto da poco una paresi ad una gamba e non riusciva a camminare. La casa aveva pochi mobili estremamente eleganti, di genere marinaro, alla parete era appesa una pelle di guanaco conciata dagli indios e si vedevano dappertutto utensili del folklore australe soprattutto ami e coltelli fatti di osso e magnificamente scolpiti e un paio di revolver che dovevano essere stati usati molti anni prima. L’accoglienza di Coloane fu estremamente calorosa, io rimasi incantato dai racconti dello scrittore che parlava delle sue avventure nell’estremo sud americano popolato una volta dagli indios yamanes e onas, sterminati dai terratenientes che si volevano impadronire dei loro territori per allevare i merinos.
Parlò ininterrottamente per tre o quattro ore e vedendolo un po’ affaticato lo interruppi per raccontare come era andata la mattina la mia visita a Isla Negra. E un po’ di sfuggita accennai che nel settembre ’73 io ero a Santiago e avevo partecipato ai funerali di Neruda, rimanendo molto impressionato da un oratore dalla voce tonante. Coloane, a sentire quello che stavo raccontando, diventò prima pallido con le mani che gli tremavano per l’emozione, poi tentò di alzarsi in piedi e solo allora mi accorsi che era un gigante, più alto di me, e aveva folti capelli che un tempo dovevano essere corvini. Con la sua voce diventata roca mi disse: «Non te requerde? Ero jo quell’oratore». Mi diede un grande abbraccio e poi consegnandomi un pennarello mi indicò il vasto quadro che stava di fronte al divano dove c’erano tutte le firme dei suoi amici e mi disse: «Vai al quadro e metti la tua firma sotto quella di Pablo».

sabato 28 settembre 2013

Defezione, protesta e lealtà

Giuseppe Berta
Hirschman, il riformismo e l’azione collettiva
Europa, 28 settembre 2013

La morte sopraggiunta nel dicembre scorso ha sottratto Albert O. Hirschman al silenzio che, immeritatamente, aveva cominciato a scendere su di lui. La sua scomparsa e la pubblicazione, qualche mese dopo, della grande biografia dedicatagli dallo storico Jeremy Adelman (Wordly Philosopher, Princeton University Press 2013) hanno ridestato l’attenzione su una figura unica, nella sua originalità, di scienziato sociale del Novecento. Un secolo che Hirschman ha attraversato quasi per intero (era nato in Germania nel 1915), sviluppando una propria singolarissima coerenza forgiatasi tra l’Europa e le Americhe del Nord e del Sud.
Al momento della sua morte, l’Economist ha scritto che non aveva ricevuto il Premio Nobel, per il quale aveva tutti i requisiti, soltanto perché la sua opera era difficile da inquadrare entro un distinto alveo disciplinare. Hirschman era un economista, per la precisione (e per chi crede alle divisione fra i settori accademici) un economista dello sviluppo, grazie ai suoi studi sull’America Latina frutto di anni e anni di lavoro di consulenza sul campo. Ma in realtà fu sempre molto di più: un autore che si collocava all’incrocio fra le scienze sociali, con una forte sensibilità di tipo storico e politico, che emerge da tutti suoi scritti. Fra i quali spicca un piccolo e densissimo libro del 1970, probabilmente il più citato fra quelli firmati da Hirschman (insieme con l’altro suo capolavoro, The Passions and the Interests, 1977), Exit, Voice and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and the State (tradotto in italiano da Bompiani, ma oggi non più disponibile).
In un’analisi condotta con un argomentazione serrata quanto elegante, Hirschman prende in considerazione le due strade che si profilano davanti a chi non condivide più il modo di operare l’organizzazione in cui è coinvolto. La prima, la più semplice e la più immediata, è quella della exit, cioè della defezione. Si tratta della via più congeniale all’approccio degli economisti, che di fronte ai risultati insoddisfacenti generati da un’impresa o da un’attività economica postulano semplicemente il ritiro del consenso. Così il consumatore smette di acquistare un certo prodotto o il dipendente cerca un’altra occupazione. Ma non sempre le cose vanno a questo modo, sostiene Hirschman, e non è affatto detto che la soluzione più semplice sia la migliore.
Esiste un’altra strada, quella che consiste nel dare voce alla propria disaffezione, articolando una protesta orientata a incidere sul funzionamento dell’organizzazione di cui si fa parte. È anche la via che preferisce Hirschman e che esalta la qualità politica dell’azione collettiva, verso la quale traspaiono le sue preferenze.
L’esempio cui ricorre (polemizzando con Milton Friedman) è quello della scuola pubblica: immaginate dei genitori che non siano soddisfatti di come funziona la scuola dei loro figli. La scelta economica razionale, secondo Friedman, è quella di ritirare i ragazzi per iscriverli a una scuola privata, di cui possano controllare la qualità. Ma è una scelta per pochi, per chi ha i mezzi per permetterselo; gli altri o non saranno in grado di intervenire o, se consapevoli del problema, agiranno per organizzare la loro protesta e correggere i difetti della scuola pubblica. Così facendo non tuteleranno soltanto i loro figli, ma porranno le condizioni per un sistema scolastico migliore.
Hirschman credeva nelle riforme sociali. Ma ancor più credeva in un processo di riforme attivato dalla volontà collettiva, di chi si organizza per cercare da sé la risposta ai problemi da cui è afflitto. Ne deriva che il cammino delle riforme non è qualcosa che possa essere guidato dall’alto; al contrario, richiede aggiustamenti e correzioni continue, dovendo fronteggiare situazioni nuove e inaspettate, che non possono essere preventivate a priori. Qui sta il bello delle riforme (e della sfida che esse rilanciano incessantemente).
E della loyalty, che si può dire? Che forse è l’aspetto più controvertibile della visione (non parliamo di teoria, un termine che a lui non piaceva, giacché non si considerava un teorico) di Hirschman. Il suo universo di riferimento è ancora fortemente strutturato: chiama in causa imprese e organizzazioni politiche dove è ancora molto solido il senso di appartenenza e di identità. Anche dalla disaffezione traspariva il cemento della solidarietà, magari tradita. Ma oggi? Oggi esercitare la voice è molto più difficile di quarant’anni fa. E la tentazione di tagliare i nodi scegliendo l’exit sta crescendo.

domenica 22 settembre 2013

Giulio Douhet e Gramsci

a proposito di
Fabio Vander
Caporetto e il Novecento. Offensivismo e "guerra di posizione" nel pensiero strategico e politico
Italia contemporanea, n. 268-269, dicembre 2012, pp. 472-496

Il saggio contiene una rilettura della battaglia di Caporetto, da un punto di vista originale: quello delle novità strategiche emerse in quell’episodio fondamentale della prima guerra mondiale. Centrale nell’articolo è la figura di Giulio Douhet, che denunciò in occasione di Caporetto proprio il fallimento della strategia offensivista di Cadorna e l’affermarsi invece della "guerra di posizione" come modalità prevalente della guerra novecentesca. La tesi che ormai la guerra era "totale" - non riguardava cioè più solo la "tecnica" militare, ma coinvolgeva integralmente, dal punto di vista materiale e morale, tutte le parti in lotta - è qui ricostruita nel dibattito italiano. Da una parte Douhet, che declinò in termini totalitari, aderendo al fascismo, il motivo dell’indistinto politico-militare; dall’altra Gramsci, che con i concetti di "guerra di posizione" e "cadornismo politico" cercò di trarre dalle novità della prima guerra mondiale, conseguenze politiche capitali, segnatamente in ordine a una "rivoluzione" che non fosse più quella "di movimento" dell’Ottobre bolscevico.

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Douhetdu-è›, Giulio. - Generale italiano (Caserta 1869 - Roma 1930). Ufficiale d'artiglieria, poi di Stato maggiore; dal 1912 al 1915 comandò il primo battaglione di aviatori costituito in Italia; colonnello nel 1917, scrisse due memoriali sulla condotta della guerra in atto; poiché le sue opinioni si rivelarono in più punti contrastanti con quelle del comando supremo, il D. lasciò il servizio attivo. Fra gli scritti: Difesa nazionale. Diario critico della guerra (1923); Sintesi critica della grande guerra. Probabili aspetti della guerra futura (1928), raccolti nel volume Le profezie di Cassandra (post., 1931). Nella sua opera più significativa, Il dominio dell'aria (1921), sostenne la necessità di potenziare l'arma aerea rispetto all'esercito e alla marina, in vista dell'assoluta preponderanza che essa avrebbe assunto nelle guerre future. (Treccani)

Si veda inoltre http://www.treccani.it/enciclopedia/giulio-douhet_%28Dizionario-Biografico%29/
... Una valutazione di questa nuova dottrina della guerra aerea va in primo luogo ricondotta alle vivaci polemiche del dopoguerra: il D. non era il solo a esaltare il ruolo dell'aviazione in reazione al conservatorismo degli stati maggiori, ma nessuno dei sostenitori della modernizzazione delle forze armate aveva la sua forza di lucido ragionamento e la sua capacità di portare all'estremo le proprie convinzioni, senza riguardo per gli interessi costituiti e per le altre esperienze scaturite dalla grande guerra. La battaglia per l'indipendenza dell'aeronautica e la rivendicazione delle sue straordinarie possibilità erano indubbiamente fondate e per molti aspetti profetiche; ma il ruolo di geniale anticipatore e precursore del D. non deve far dimenticare la sua insufficiente valutazione dei problemi tecnici (il progresso aeronautico era ancora ben lontano dal garantire la potenzialità di distruzione ipotizzata) e l'unilateralità della sua dottrina, che trascurava tutti gli altri elementi della guerra moderna, dallo sviluppo degli armamenti di terra e di mare alla straordinaria capacità di Stati e popolazioni di resistere agli effetti dei bombardamenti aerei, come il secondo conflitto mondiale avrebbe evidenziato.
...  due punti sono da mettere in evidenza: che il D. è il primo teorico militare italiano di fama internazionale dopo Machiavelli e che la sua dottrina della guerra aerea non può essere considerata in astratto senza forzature, ma deve essere rapportata al periodo in cui venne formulata, nelle geniali anticipazioni sulle possibilità dell'aviazione come nei limiti tecnici e politici caratteristici del suo tempo. (Giorgio Rochat)


Suscettibile e evanescente laicità

Una presenza forte e innegabile non passa il tempo a riflettere su se stessa. E neppure si considera troppo facilmente minacciata. Il pensiero laico in Italia è invece in una situazione di evidente difficoltà, da anni. E non perché la Chiesa cattolica stia recuperando terreno. Alla fin fine è l'indifferenza o il calore contenuto sul terreno della fede il vero vincitore della partita nella società civile (*). E di fronte a questa realtà, il pensiero laico per parte sua non offre certo lo spettacolo di una ricchezza lussureggiante.



Antonio Carioti
Laicità secondo Urbinati
Ma è la politica che ha abdicato
Corriere della Sera, la Lettura, 22 settembre 2013

Nel libro a quattro mani Missione impossibile (Il Mulino, pp. 138, euro 14) Marco Marzano scrive che l'avanzata della secolarizzazione ha vanificato il tentativo della gerarchia ecclesiastica di egemonizzare la sfera pubblica italiana. Ma poi Nadia Urbinati denuncia i pericoli che corre la laicità in una "società monoreligiosa" quale sarebbe l'Italia. Si resta sconcertati. Forse perché il nodo non è la "tradizione culturale" cattolica, che era ben più solida al tempo delle leggi su divorzio e aborto, ma l'inconsistenza della politica, oggi pronta ad assecondare le spinte confessionali pur di ricevere la benedizione della Chiesa. Questo è il vuoto che mina non solo la laicità, ma le basi stesse dello Stato.

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... il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un'immagine del cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all'albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come criterio di vita, più per l'educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali. 

Franco Garelli
La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi
La Stampa, Vatican Insider, 2 novembre 2011
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Una politica senza religione di Giovanni De Luna
Politica e religione sconfitte dal mercato
di Simonetta Fiori

la Repubblica, 22 settembre 2013
 

La credibilità d’una classe politica si misura dalla sua capacità di costruire una “religione civile”? Se è vero questo assunto, su cui si regge il nuovo argomentato saggio di Giovanni De Luna, se ne ricava un giudizio sconsolato sul presente. E verosimilmente sul futuro. Mai come negli ultimi decenni la politica italiana ha dato prova di un vuoto colossale di valori e simboli, di principi, regole e memorie, anche “tradizioni inventate”, capaci di toccare le menti e i cuori dei singoli individui. Un deserto che ha contrassegnato non solo la “destra berlusconiana” millantatrice di un illusorio benessere e la “destra di Monti”, appiattita sul “culto dello spread”, ma anche quella «costellazione di feudi assetati di potere» in cui si è risolto il Partito democratico. Né si salva un nuovissimo attore come Grillo, artefice di un albero genealogico affollato di “morti per caso”, subalterno al “paradigma vittimario” della seconda Repubblica fondato sul dolore e sul lutto. Non c’è più “religione” nella politica italiana, dove per “religione” De Luna intende non certo una fede confessionale o una concezione sacralizzata del potere, ma «la costruzione di uno spazio pubblico di appartenenza e di cittadinanza». E una politica che non produce simboli, ammonisce lo storico, «si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente».
Ma le classi dirigenti italiane sono mai state capaci di costruire una proposta forte di valori civili ed etici? Qui interviene lo sguardo lungo dello studioso che ripercorre una vicenda accidentata fin dalle origini della storia nazionale. Se nell’Italia liberale il progetto di “fare gli italiani” fu compromesso dal trasformismo, sotto il regime di Mussolini le cose andarono anche peggio. E nel lungo dopoguerra i due più grandi partiti, pur svolgendo una preziosa opera di «alfabetizzazione politica di masse spoliticizzate», continuarono a opporre religioni diverse e contrapposte. Anche il rilancio della Costituzione, negli anni Settanta, viene giudicato da De Luna «un’occasione mancata», spazzata via da una smisurata dilatazione dei partiti nello spazio pubblico. Fino alla “mutazione genetica” della stagione successiva, con la trasformazione delle forze politiche «in un ceto poco differenziato sul piano dei valori e molto intraprendente sul piano delle carriere». È qui che comincia quella “politica esangue”, “senz’anima”, destinata a soccombere soprattutto “nelle fasi di discontinuità”, quando le viene richiesto di produrre una nuova tradizione capace di confrontarsi con un panorama radicalmente modificato.
Alla “carestia morale” della politica nell’ultimo ventennio è corrisposta una Chiesa cattolica sempre più ingombrante, celebrata come «unico collante capace di tenere insieme gli italiani». Un progetto egemonico che ha trovato un pericoloso concorrente in una religione non meno pervasiva e potente, che è quella incarnata dal mercato. Alla “religione dei consumi”, che contamina la stessa fede cattolica (il mercimonio intorno a padre Pio) e invade territori di sua appartenenza come la vita e la morte, il sesso o i processi di formazione degli adolescenti,sono dedicati gli ultimi densi capitoli, con efficaci descrizioni di cimiteri trasformati da “luogo di lutto” a “luogo del loisir”.«Incalzati dal mercato», annota De Luna, «laici e cattolici sono oggi come due eterni duellanti, impegnati in uno scontro che prosegue sempre più stancamente: esausti e incapaci di accorgersi che il terreno del duello è cambiato e che stanno per essere sconfitti entrambi».
Vie d’uscita? La ricostruzione di De Luna, non priva di accostamenti inediti, approda a un epilogo malinconico. Esauriti i partiti di massa, nell’era del web e dei nuovi media, l’unica tradizione politica che gli italiani sono stati capaci di conservare è il populismo. Non una grandissima eredità. Sulla quale – conclude lo studioso – urge un leopardiano esame di coscienza.


venerdì 20 settembre 2013

Il fallimento dei Talk show

Federico Orlando
Europa, 20 settembre 2013

Cara Europa, ho letto accenni, anche sul vostro giornale, molto positivi per la trasmissione di Iacona Presa diretta, che con umiltà e dedizione riscopre e porta nelle nostre case le verità del paese: come nella storica inchiesta sulla distruzione dell’industria del Nord Est e sull’ostilità degli  imprenditori all’euro, nonché sulla ripresa emigrazione in Germania dalla Sicilia: non più ventenni, ma anziani posti al bivio tra la pazzia del non lavoro e una partenza forse senza ritorno. Così mi sono domandato perché le tv perdano tempo nei talk show coi soliti noti, coi soliti intervistatori, più o meno prigionieri della sindrome di Stoccolma: quasi non bastassero i risciacqui berlusconiani di vecchi messaggi, riciclati per continuare a difendere aziende e libertà personale, con la scusa di non dare l’Italia alle “sinistre” fiscali e giustizialiste.
Stefania Rocca, Caserta

Cara Signora, se in Italia non dovessimo (anzi, volessimo) parlare ogni giorno di Berlusconi con o senza messaggi, avremmo certamente cose serie di occuparci: tra le quali questo problema dell’informazione politica in tv, di cui lei si occupa e che nei giorni scorsi aveva cominciato a interessare anche i giornali: forse per il calo degli ascolti, forse per il ridicolo di cui coprono la politica e se stessi, cioè l’informazione tutta, che ha perduto il gusto e la capacità del giornalismo d’inchiesta.
Ma non mancano i pentimenti, da Giovanni Minoli, inventore di Mixer, che accusa: «Il talk ha distrutto la politica», a Enrico Mentana che cade del cielo: «I talk? Sempre le stesse facce» (è vero, ma da chi dipende?). Abbiamo visto a Ballarò l’educanda Mara Carfagna impancarsi a giurista e dare lezioni all’avvocato Pisapia, che nella parte penale del processo Mondadori (di cui la sentenza civile è conseguenza) aveva sostenuto le ragioni di De Benedetti. Abbiamo visto nella Gabbia di Paragone sguatteri di varia fattura insultare Giuliano Amato (e Napolitano che lo ha nominato giudice costituzionale) per alcuni cascami e peccati che la politica si porta con sé, ma dimenticando che Amato è uno dei maggiori giuristi d’Italia e che il suo volume sul diritto pubblico, scritto insieme ad Augusto Barbera, continua a formare generazioni di studenti e di studiosi. (Il diritto. Cioè quel che si richiede a un giudice, costituzionale o no).
Per fortuna, come ha scritto su Europa un conoscitore della comunicazione, Stefano Balassone, i crolli serali  degli ascolti fanno ben sperare nella scomparsa di molti contenitori e nel ravvedimento operoso di chi sopravvivrà: così Quinta colonna, ridotta al 3,51 di share, o Piazza pulita, al 4,47. Insomma, la tv gridata, violenta, con conduttori che si fingono Saint Just o Robespierre, con squinzie e marionette politiche caricati come i giocattoli a molla di una volta, comincia a stancare anche i più qualunquisti fra gli ascoltatori.
È rimasto Michele Santoro a dire «il talk show è eterno». Ma dice pure che «il Cavaliere è un combattente», confermando così quella sua sindrome di Stoccolma della quale diede pubblica dimostrazione nell’intervista di Servizio Pubblico, con la quale, lo scorso inverno, lanciò la campagna elettorale di un cavaliere che era disarcionato. Chi invece sembra cavarsela dal naufragio dello share, sono, secondo Balassone, i talk mattinieri, specie de La7, e quelli di Sky: forse ci sarà un motivo, magari gli ospiti un po’ diversi dai soliti, magari i giornalisti un po’ meno inchinati o demagoghi, magari temi che non siano i soliti consumatissimi spread, casta, Cavaliere, ma più attinenti alla vita dei milioni di italiani sull’orlo della frana. Speranze, forse vane, Adesso sciroppiamoci per qualche settimana le esegesi del Messaggio.

giovedì 19 settembre 2013

L'economia italiana vista da Marte

Da alcuni mesi a questa parte si è diffusa in Italia una vera e propria vulgata, alimentata da politici e opinionisti vari, secondo la quale la situazione economica del paese sarebbe in sensibile miglioramento, tanto che si comincerebbe addirittura ad intravedere la fatidica "luce in fondo al tunnel". L'articolo di Lucrezia Reichlin che pubblichiamo di seguito smonta pezzo per pezzo, con la fredda logica dei numeri, questa incomprensibile ventata di ottimismo, riportandoci alla realtà dei fatti.



CON LA TESTA SOTTO LA SABBIA
Lucrezia Reichlin


Corriere della Sera, 16 settembre 2013

Quasi sessant'anni fa Ennio Flaiano immaginò la storia, divertente e malinconica, di un marziano atterrato a Roma e poi ricevuto dalle maggiori autorità. Ma che cosa accadrebbe oggi, se un inviato proveniente da Marte, terminato un viaggio di ricognizione nel mondo, giungesse in Italia per incontrare ministri e banchieri, politici e industriali, deciso a farsi un'idea del nostro Paese? Proviamo a ipotizzarlo. Dopo avere intercettato grande ottimismo per la ripresa incipiente, il nostro marziano torna in albergo e riguarda gli appunti preparati dai suoi esperti. L'Italia ha oltre il 130 per cento nel rapporto debito-Pil, in crescita: ben al di là delle previsioni di due anni fa quando i più sostenevano che fosse stato raggiunto il picco. Le prospettive di rientro, sentenziano i tecnici di Marte, sono inesistenti. La crescita del reddito potenziale è infatti, nelle stime più ottimiste, appena sopra lo zero, l'inflazione presente e attesa è al di sotto dell'uno e mezzo (1,3 in agosto), ma i tassi d'interesse effettivi sono in rialzo. Dati poco incoraggianti per la sostenibilità del debito. Dai giorni della crisi più profonda,  precisano poi gli esperti, l'Italia non ha fatto niente per rilanciare la competitività. Né quella intesa in senso stretto, determinata, cioè, dal tasso di produttività e dal costo del lavoro; né quella più ampiamente considerata, determinata dall'efficienza nelle dinamiche amministrativo-burocratiche e del sistema giudiziario e dall'incidenza della corruzione. La conseguenza, nota il marziano spulciando numeri e percentuali, si fa sentire sugli investimenti e sulle esportazioni che, pur essendo cresciute più della domanda interna, non hanno avuto un andamento dinamico quanto quelle di Madrid, capitale che ha appena visitato. La disoccupazione è in crescita, l'occupazione in calo, mentre il settore bancario resta fra i più fragili d'Europa, con la necessità potenziale di capitali che sfiora i 30 miliardi, secondo le informazioni che gli esperti di Marte hanno raccolto a Francoforte e Bruxelles. Se questo è il quadro, si chiede il marziano con gli occhi sbarrati dopo una notte a far di calcolo, perché le tante, eminenti personalità incontrate sono ottimiste? Perché non avvertono un senso di urgenza? Non temono di perdere il controllo delle finanze pubbliche, non li inquieta la prospettiva di dover chiedere aiuto all'Europa? Se, invece, gli italiani fossero forzati a comprare titoli di Stato per evitare questa prospettiva, non temono di scivolare lungo la via di un irreversibile declino economico? È davvero motivo di gioia una previsione di crescita del Pil che oscilla dal -1,3% al -1,7 nel 2013 e dal -0,5 al +0,7 nel 2014, visto che, secondo gli esperti, alle stime del governo con il suo +1,3% nel 2014 non crede nessuno? Come mai, infine, tanti si compiacciono del surplus primario, ma non pensano che con questi dati macroeconomici, attuali e attesi (dal Pil all'inflazione ai tassi d'interesse), è difficile che l'Italia possa arrestare la dinamica perversa del debito? Essendo la sua conoscenza degli esseri umani ancora molto superficiale, non fidandosi completamente dei suoi esperti, consapevole che gli economisti hanno spesso un approccio limitato ed eccessivamente tecnico, il nostro marziano decide di chiedere aiuto a un guru di Marte, amico suo. Il guru gli risponde così: «L'italiano è una specie particolare di essere umano. Ha età media elevata e, nella media, è ricco. Forse per questo la sua propensione al rischio è scarsa, un ricordo la voglia di emergere del dopoguerra. Si preoccupa soprattutto della tassa sulla casa, ovvero la tassa che incombe sulla sua ricchezza». Poi il guru aggiunge: «Non perdere troppo tempo a ragionare in Italia, ma goditela. È un Paese di grande bellezza». Il nostro marziano è molto occupato e deve terminare il suo viaggio tra gli umani: si ripropone di tornare e portarci suo marito in vacanza (va da sé, si tratta di una marziana). Nel finale del suo rapporto sull'Italia scrive: «Teniamo un occhio aperto. Quando tutte queste belle cose italiane dovranno essere vendute per fare fronte ai debiti, le compreremo a prezzo di saldo e ne faremo attrezzati luoghi di vacanza per i pensionati di Marte e del mondo emergente. La prima idea potrebbe essere quella di mini appartamenti al Colosseo. Bellissimo, nonostante i buchi».

martedì 17 settembre 2013

Una copertina del New Yorker

La copertina dell’ultimo numero del New Yorker è stata di nuovo disegnata da Adrian Tomine, un disegnatore e fumettista tra i più stimati e famosi negli Stati Uniti, che il New Yorker ha coinvolto spesso. Tomine ha 39 anni, la sua famiglia è californiana di origini giapponesi, ma lui vive da diversi anni a Brooklyn e le sue storie e disegni hanno molto di New York. In Italia Rizzoli ha pubblicato Scene da un matrimonio imminente, Una lieve imperfezione e Coconino Sonnambulo e altre storie.

La copertina di destra è quella pubblicata per prima da Adrian Tomine. Risale al novembre 2004.


 A very talented and respected comic artist, Tomine’s work covers classic editorial with many an illustration gracing the cover of The New Yorker (as pictured), to his own series of excellent comics, Optic Nerve. His books are critically acclaimed and intelligent and they give his medium a whole new dimension. (Bryony Quinn, 24 settembre 2009)
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Sarebbe interessante avere dei commenti. A mio parere i temi che traspaiono e spiegano quindi il fascino esercitato dalle raffigurazioni sono la solitudine urbana, il desiderio di un altrove, l'attrazione verso una realtà virtuale per quanto scontata, l'anonimato, una sorta di calma frustrazione.

giovanni carpinelli

sabato 14 settembre 2013

La storia di Alba Dorata

Antonio Carioti
Un'Alba Dorata che porta le tenebre
Corriere della Sera, 11 settembre 2013


Per noi italiani la Grecia è quasi un parente povero e sfortunato, nel quale ritroviamo ingigantiti i nostri problemi e difetti, anche perché ha subito in passato disgrazie che invece il nostro Paese ha (forse di poco) evitato. Basti pensare che dal 1946 al 1949 la società ellenica fu lacerata da una spietata guerra civile tra comunisti e anticomunisti. E nel 1967 subì un colpo di Stato militare e una conseguente dittatura, il cosiddetto «regime dei colonnelli», che durò sette anni. Adesso la storia sembra ripetersi, con Atene schiacciata da un’asfissiante austerità che anche in Italia ha connotati gravi, ma certo non così devastanti.
Tra gli effetti dalla crisi in Grecia, uno appare ai limiti dell’assurdo: l’ascesa di un partito neonazista in un Paese che fu invaso e martoriato dal Terzo Reich. Un fenomeno al quale Dimitri Deliolanes, corrispondente a Roma per la radiotelevisione pubblica ellenica, ha dedicato un libro, interessante e ricco d’informazioni, che si legge con un filo d’inquietudine: Alba Dorata (Fandango Libri).
Ciò che colpisce, nel movimento razzista oggi insediato nel Parlamento di Atene con il 7 per cento dei voti (stesso risultato nelle due tornate elettorali del 2012), è la pochezza del personale politico, delle idee, dei programmi. Il fondatore e leader di Alba Dorata, Nikolaos Michaloliakos, è un violento demagogo, radiato dall’esercito con disonore, accusato di delazione e opportunismo da suoi ex sodali. Il suo rimedio contro la crisi è indirizzare verso gli immigrati stranieri la rabbia dei greci. I suoi richiami all’antica civiltà ellenica sono cianfrusaglie ideologiche da rigirare a piacere: per esempio, dopo aver a lungo denigrato il «giudeocristianesimo» in nome di una presunta tradizione pagana, oggi Alba Dorata si erge a baluardo della religione ortodossa contro l’Islam.
Tuttavia i neonazisti hanno due assi nella manica. Con le loro azioni squadriste, rivolte perlopiù contro immigrati inermi, riescono ad apparire gli unici autentici tutori dell’ordine agli occhi dei cittadini spaventati dalla latitanza delle pubbliche autorità. Il loro gioco, nota Deliolanes, consiste nel «sostituirsi allo Stato, prenderne le funzioni». In secondo luogo Alba Dorata intercetta e attizza il senso di umiliazione dilagante in un Paese vissuto per secoli sotto il dominio straniero, nel quale quasi metà della popolazione discende da profughi cacciati dalle proprie case in seguito ai conflitti con la Turchia. La crisi, con i rigidi vincoli imposti ad Atene dall’esterno, fa temere a molti, scrive Deliolanes, «che l’ellenismo si stia esponendo al rischio di una cancellazione violenta». E Michaloliakos se ne avvantaggia.
Se a ciò si aggiunge che la classe dirigente greca prosegue nelle sue abitudini parassitarie e clientelari, si capisce perché Deliolanes confidi soprattutto nella mobilitazione popolare di sinistra per arginare Alba Dorata. Pare del resto che al momento i più risoluti oppositori dei neonazisti siano gli ultras della squadra di calcio Aek Atene. Ma certo non basta. La stessa Europa non può chiudere gli occhi di fronte a un morbo che in Grecia ha trovato un terreno fertile, ma può attecchire anche altrove. I focolai non mancano.

Dimitri Deliolanes, Alba Dorata. La Grecia nazista minaccia l’Europa, Fandango Libri, pagine 203, € 15

martedì 10 settembre 2013

Perché la sinistra ignora Mc Luhan

Mauro Calise
l'Unità, 10 settembre 2013

È in edicola il numero di settembre di «Italianieuropei». Nel fascicolo il «Laboratorio partito», focus sul Pd che si accinge a una difficile fase congressuale per ridefinire profilo e strategie. Tra i saggi pubblicati proponiamo ai lettori de l’Unità quello di Mauro Calise.

COME È POSSIBILE, COME È SPIEGABILE CHE IL PD CI SIA RICASCATO ANCHE STAVOLTA? CHE ANCHE QUESTA CAMPAGNA GIÀ VINTA SIA STATA PERSA SULLO STESSO FRONTE, per lo stesso tallone d’Achille per il quale la sinistra, da almeno vent’anni, cede il passo al centrodestra? Per quale atavica maledizione la cultura degli ex comunisti e degli ex democristiani resta ostile, anzi addirittura estranea, alle regole anche le più elementari della comunicazione, che si tratti di vecchi o nuovi media?
Tra tutte le democrazie occidentali, i leader e i militanti del Pd sono i soli che si ostinano a credere che McLuhan fosse un parolaio. Ciò che conta è il contenuto del messaggio, non il contenitore e la sua forma: in barba a cinquant’anni di storia, i democratici restano convinti che the message is the media. Non si tratta solo di fare il processo, a proposito, non l’ho ancora letto, alla peggiore campagna elettorale italiana di questo secolo. Né di prendersela basta e avanza Crozza con i limiti di un candidato premier che, almeno, ha avuto sempre l’onestà di ribadire di non voler cambiare la propria personalità e il proprio stile. Il nodo è più radicale. Riguarda la profonda incomprensione, ai vertici come alla base del partito, del ruolo che la comunicazione svolge come vero e proprio codice genetico della società contemporanea. Per cui non è più uno dei canali attraverso cui la politica funziona, ne è diventato il motore. O, se preferite, il corpo. E, al tempo stesso, le ha rubato l’anima.
Il successo strepitoso di Grillo suona, per il Pd, come una riedizione riveduta e corretta e tecnologicamente aggiornata dello stesso meccanismo che aveva consentito a Berlusconi di sbaragliare in pochi mesi la «gioiosa macchina da guerra» con cui Achille Occhetto si era illuso di poter vincere le elezioni. Ancora una volta una vittoria certa si trasforma in bruciante sconfitta per l’emergere di una leadership carismatica che crea, quasi dal nulla, un ingentissimo seguito elettorale affidandosi allo sfruttamento strategico di un canale di comunicazione mediatica.
In questo caso, l’amarezza dell’occasione mancata è aggravata dal fatto che Grillo solo in parte ha attinto al serbatoio della destra qualunquista e conservatrice che si era precipitata al seguito del Cavaliere. Una parte molto consistente del voto ai cinquestelle documentano Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini proviene dall’elettorato di sinistra e da una quota predominante delle fasce più giovani. E un’ulteriore e peggiore aggravante viene dal fatto che la televisione, dopotutto, era il dominio – anche privato – del Cavaliere. Ma come è stato possibile farsi prendere in contropiede sul web, che dovrebbe rappresentare il terreno naturale di coltura e di crescita di una organizzazione come il Pd, che ha alla base del proprio programma il cambiamento della società?
LA SOCIETÀ DELLA E-DEMOCRACY
Rosanna De Rosa nel libro che fa il punto sulla cittadinanza digitale ci ricorda che, quando Berlusconi scese in campo, gli utenti Internet erano solo lo 0,4% della popolazione mondiale; ma già nel 2000, con l’esplosione della blogosfera, «la percentuale era salita al 5,9%, e oggi un quarto della popolazione mondiale è in rete, un miliardo dei quali ha un profilo su Facebook». Nel frattempo, la e-democracy, rimasta per un ventennio poco più che un laboratorio di promesse non mantenute, diventava la nuova frontiera per conquistare la Casa Bianca. Nelle primarie del 2003-04 c’è l’exploit di Howard Dean, un outsider che sfiora un successo clamoroso grazie all’uso sistematico per la prima volta della rete in una campagna presidenziale. Facendo da apripista a Barack Obama che, quattro anni dopo, dovrà la propria vittoria all’appoggio di Move On, coi suoi tre milioni di iscritti, e alla straordinaria capacità di intercettare finanziamenti da una amplissima platea di simpatizzanti, quotidianamente sensibilizzati sui temi chiave della sfida con i repubblicani. Riversando poi gran parte dei fondi nell’acquisto di spazi televisivi costosissimi nei momenti di massima audience. Questo schema sarà ripetuto e perfezionato per le elezioni del 2012, anche grazie alla possibilità di utilizzare i database di alcuni dei più importanti motori di ricerca per sofisticatissime operazioni di targetting. Facendo già intravedere la fusione tra la capacità di diffusione virale della rete con la centralizzazione carismatica del messaggio da parte del leader.
Questo nuovo know-how tecnologico della strategia elettorale era, dunque, ben conosciuto, ottimamente documentato e a disposizione di chiunque volesse farne una leva di intervento. Durante un intero decennio, per il Pd è come se il tutto fosse avvenuto su un altro pianeta, inaccessibile e incommensurabile. Ma non per Grillo e il suo mentore telematico Casaleggio. Nel volgere di cinque anni, un bravo comico che era solito chiudere i suoi spettacoli fracassando un computer sul palcoscenico diventa il leader di un nuovo monstrum politico: un partito superpersonale virtuale. A conferma che la comunicazione oggi, ancor più di ieri, è il presupposto oltre che il volano dell’organizzazione. Oltre, ovviamente, che il requisito per la comprensione e la gestione dei processi di innovazione tecnologica grazie ai quali il popolo della rete non è imploso, vittima della propria crescita esponenziale.
Sono due i principali meccanismi o, più precisamente, ambienti procedurali e regolativi che impediscono la frammentazione del mondo che ruota intorno a internet. Come i grandi motori di ricerca prima Aol, poi Yahoo! e Google avevano, coi loro algoritmi e cookies, messo ordine nella galassia infinita delle informazioni in rete, così spetterà ai blog e ai social network trasformare l’anomia della rete in un ambiente ricchissimo di legami sociali e capace di esprimere opinioni collettive. In alcuni aspetti salienti, la nascita della blogosfera ricalca in pochissimi anni il percorso habermasiano che aveva portato, nell’arco di due secoli, alla formazione della moderna opinione pubblica. I blog rappresentano, infatti, la crescita di una nuova élite culturale e, al tempo stesso, l’affacciarsi e il consolidarsi di un rapporto sempre più dinamico con i media tradizionali. Non appena i blog riescono a far emergere, dall’oceano indistinto della rete, le notizie e i temi più trendy, la stampa si affretta a rilanciarli, soprattutto attraverso le proprie testate online (...).
Qualsiasi sforzo di aggregazione delle opinioni quasi pubbliche espresse attraverso il web sarebbe, nondimeno, inimmaginabile senza il lavoro sotterraneo di creazione di un vero e proprio tessuto sociale della rete. La dimensione social introdotta dai network personalizzati, come Twitter e Facebook, non ha niente a che vedere con la categoria di società che è a fondamento dell’organizzazione moderna della vita. Anzi ne rappresenta, per molti aspetti, la sua crisi e destrutturazione. Al posto di classi e ruoli che hanno reso funzionante, gerarchicamente ripartita e, in qualche misura, prevedibile la società sviluppatasi intorno al macchinario satanico della rivoluzione industriale, i social network fanno emergere un infinito reticolo di molecole che si attraggono o si respingono in modo del tutto spontaneo (...).
Ricalcando il percorso aristotelico da cui nasce l’idea stessa di politica, anche la politica in rete prende forma e trova ancoraggio nello sviluppo della socialità. Così come nella lezione sartoriana lo zoon politikon di Aristotele era, in primis, un animale sociale, così anche il netcitizen comincia a prendere forma solo dopo essere riuscito a inserirsi e immedesimarsi nei nuovi circuiti social. Mentre per oltre trent’anni lo sperimentalismo democratico via Internet era rimasto confinato agli spazi e agli effetti di piccole eutopie, con la nascita e la fulminante espansione dei social network l’e-democracy trova finalmente un suo zoccolo duro, un radicamento, una prassi ben collaudata da cui cercare di spiccare il salto alla conquista del politico.
SE NE PARLI AL CONGRESSO PD
A quest’appuntamento, la sinistra italiana è clamorosamente mancata. E il vuoto è tanto più profondo perché la rivoluzione di Internet interseca tutti i settori più vitali della società. Per limitarsi all’esempio più importante, l’intero percorso formativo si sta digitalizzando. Ma lo fa su scala globale, rischiando di lasciare al palo quei contesti geoculturali che continuano a opporre resistenze. Nelle nostre scuole medie, i libri di testo solo ora stanno cominciando ad adeguarsi ancora lentamente e con una qualità quasi sempre scadente alle pratiche connaturate alla generazione dei nativi digitali, improntati alla sindrome di amazoogle: cercare e trovare online i materiali che ti servono. Resistenze, se possibile, ancora maggiori si riscontrano all’interno delle università, dove i ministri di centrodestra con la complicità di quelli di sinistra sembrano aver risolto il problema dividendolo in due campi separati: da un lato, le cosiddette «telematiche», aziende private con licenza di laureare, che erogano corsi a distanza lautamente retribuiti; dall’altro, le statali, che non hanno risorse e stimoli per affrontare la sfida che, tra pochi anni, rischia di metterle fuori mercato.
Il nuovo format dell’educazione in rete, l’insegnamento in modalità Mooc (Massive open online courses), ha reclutato, nel 2012, oltre venti milioni di studenti. Coinvolgendo i principali e più prestigiosi college americani, ma anche molte università di taglia media che cercano di rimanere a galla sperimentando un modello di business misto, in cui i corsi a distanza integrano quelli molto più onerosi in presenza (...). Per chi scrive, resta un mistero doloroso come mai la sinistra, e in primis il suo maggior partito, non sia schierata per fare di Internet e del suo rapporto con la scuola la sua testa possibilmente pensante di ponte in un ambiente sociale fertilissimo di stimoli e avidissimo di una rappresentanza che continua a essergli negata. O meglio, che è riuscito a trovare, in extremis e spesso in modo confuso, nella disponibilità del M5S. Una disponibilità non limitata ai contenuti e alla libera espressione, ma che ha investito anche il nodo più delicato: il reclutamento di un nuovo ceto politico.
Nessuno pensa che Internet possa essere la panacea per la crisi politica profondissima in cui il Paese si dibatte. Né una scorciatoia palingenetica per l’iter complesso e faticoso di selezione di una classe parlamentare in grado di governare processi deliberativi e decisionali sempre più complessi. Ma non v’è dubbio che l’ingresso in Camera e Senato dei cittadini venuti dal web abbia, per il Pd, il gusto amaro di un’occasione mancata. Ancor più visti i profili di neodeputati e neosenatori, molti dei quali sono apparsi fin dagli esordi dotati di una propensione all’autodeterminazione non facilmente conciliabile con il dirigismo autocratico che caratterizza gli interventi di Grillo. La partita, tuttavia, non è chiusa. Si va ai tempi supplementari. E possiamo ancora sperare che al centro del prossimo congresso non ci sia solo la discussione su «cosa» dire, ma anche una riflessione su «come» (...). Visto dall’esterno, il ritardo potrebbe apparire incolmabile. Ma, dall’interno, non si può mollare. Provaci ancora, Pd.

Why is Italy still so racist?

Tobias Jones
The Guardian, 30 July 2013


Cécile Kyenge listens during at a debate on immigration
Cécile Kyenge at a debate earlier this month. Despite many Italians' love of all things foreign, racism is common. Photograph: Massimiliano Schiazza/EPA

The events of the last few weeks have proved, beyond doubt, that Italy has a serious problem with racism. Bananas have been thrown at Cécile Kyenge, Italy's first black government minister. A (female) councillor for the Northern League has said she should be raped. A Northern League senator has likened her to an orangutan. Last week the AC Milan footballer, Kevin Constant, walked off the pitch after a barrage of abuse, just as Kevin-Prince Boateng did earlier this year.
The Northern League is, admittedly, a minority party, usually gaining only between five and 10% of the national vote. And other political parties have expressed solidarity with Kyenge. But anyone who has listened to Italian political debate, or worse, stood in an Italian football stadium, knows that Italy simply isn't a tolerant place. This is a country where a recent prime minister, Silvio Berlusconi, thought it hilarious to joke that Obama had a decent suntan. The racism isn't restricted to right or left, old or young, rural or urban: it is noticeable everywhere.
The reasons are pretty obvious. As Italians will constantly tell you, theirs is an incredibly provincial country. Campanilismo – the attachment to one's local belltower – is one of the reasons the place is so charming: people often stay put, they're rooted rather than rootless. All over the country, even in a tiny village, you'll see caput mundi graffitied on walls, suggesting that this sleepy place is considered the capital of the world. The downside is that outsiders are treated as aliens, if not enemies.
Through the centuries Italy has been, not a colonial power, but a colony, a plaything of the superpowers. So with the exception of smzatoall parts of Somalia, no other country speaks Italian. Unlike France, Britain, Portugal or Spain, there's no large diaspora of Italian speakers who can immediately integrate into the "mother country", knowing already its literature and history. So the peninsula remains insular, an astonishingly monocultural, monoconfessional place.
There are other reasons for the racism: the legacy of fascism and the continuing adulation of Benito Mussolini; the tangible insecurity, even sense of inferiority, of many Italians; widespread economic misery for at least the last decade; and a political class that is absurdly ignorant. But perhaps the most interesting explanation for racism comes from an Italian mate of mine who's an armchair anthropologist. He maintains that in a country that is famously lawless, in which rules are often wilfully ignored, everyone is oddly very conformist in other ways: all wearing the same fashionable colour, or eating the same food at the same festivals. Italy simply isn't a country of eccentricity, or a place where difference or diversity are accepted, let alone cherished. I once tried to experiment by putting an unorthodox topping on my pizza and was harangued by irate mates as if I'd committed a terrible crime.
The conundrum of Italian racism is that Italy, ever a country of contradictions, is also a place of remarkable generosity and hospitality. I know it's easy for a white Englishman to say that, but centuries of visitors have noted Italians' esterofilia, their love of all things foreign. The dignity and intelligence of Kyenge in the face of recent attacks may yet remind Italians that they have a reputation for loving, rather than fearing, those from afar.

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Sempre sul Guardian, il 15 luglio, John Foot aveva così concluso un articolo sullo stesso tema:
 Italy is not a racist country, but it is a country where racism is tolerated and where a person like Calderoli has held institutional power. Yet the racists will not win, because the future is with the Italy of Balotelli and Kyenge. Italy is a multicultural country, whether they like it or not. And when I see Roberto Calderoli, I can't help but think of an ignorant racist.

domenica 8 settembre 2013

Franco Lucentini disfattista

Domenico Scarpa
Franco Lucentini, orgoglioso disfattista d'Italia
Il Sole 24 ore, 22 maggio 2011

Come "uomo della strada", Franco Lucentini si sarebbe fermato molto spesso ad arrotolarsi una sigaretta dopo aver infilato la mano in tasca per recuperare tabacco e cartine, e poi un accendino da due soldi a sigaretta confezionata. Era il suo gesto più solito, anche stando in casa: gli serviva per dare ritmo al pensiero impegnando una parte di sé in una cosa materiale: rimaneva in tua compagnia, ma si astraeva con le sue mani. Lucentini era un anarchico vero, non tanto in senso politico quanto in senso antropologico-percettivo; non credeva nel progresso così come non credeva nell'universo, che secondo lui era solo un disguido del Non-Essere. Non credeva nemmeno in Dio, naturalmente: benché fosse nato a Roma la notte di Natale del 1920 e benché amasse San Luca evangelista, inventore del presepio, Lucentini pubblicò nella primavera 1958 Perché non possiamo non dirci non cristiani, un breve saggio il cui titolo si modella polemicamente su quello celebre di Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, due negazioni che nel pieno di una guerra ormai avviata al disastro per l'Italia fascista (siamo nell'estate del 42) si risolvevano in un'ostinata rivendicazione di energia morale.
«Man of the street?», il breve articolo di Lucentini [...], esce invece l'11 gennaio 1945, quando il disastro è ormai compiuto, in una Roma sotto il controllo degli eserciti Alleati: il punto interrogativo nel titolo ha il duplice scopo di correggere una traduzione imprecisa («uomo comune», non «uomo della strada») e di descrivere in modo attendibile il carattere del l'italiano comune. A Lucentini le due cose stavano a cuore nella stessa misura perché era un traduttore nato e perché con quel corsivo di cinquanta righe stava proseguendo una sua battaglia politica. Man of the street? esce infatti su un giornale intitolato «Democrazia internazionale», che comincia le pubblicazioni clandestine nel 1943, quando Roma è occupata dall'esercito nazista. Il direttore è Federico Valenzani, mentre dell'amministrazione si occupa Peppino Pampiglione che è il migliore amico di Franco. Insieme, all'università, avevano ideato la «beffa delle stelle filanti». Siamo nel maggio 1941: gli studenti del Guf, Gruppo universitario fascista, organizzano una manifestazione patriottica per sostenere la guerra in corso, l'alleanza tra il Duce e il Führer e anche il loro diritto al 18 politico. Sono giovani, sono entusiasti, si sono riuniti per festeggiare e protestare; perciò, quando nel cortile dell'università trovano alcuni pacchi di stelle filanti abbandonati da chissà chi, non sanno resistere e soffiano: il cortile si copre di striscioline di carta sul cui rovescio sono stampate frasi sovversive e battute goliardiche: «Abbasso la guerra», «Viva l'Inghilterra», «Viva la fica», «Differenza tra il duce e un sacco di merda: il sacco». Sono stati in quattro a fabbricarle, usando un kit del «Piccolo tipografo» modificato da Franco: lui, Pampiglione, il loro amico Riccardo Musatti e infine Antonio Giolitti, nipote dello statista piemontese. Scoperti i responsabili, Lucentini sconta sei mesi a Regina Coeli, castigo mite grazie al coinvolgimento di Giolitti jr. e di una sentenza che stabilisce l'insufficienza di prove al dolo, come a dire che quei quattro ragazzini sono dei poveri deficienti e basta. Ma la sentenza parla anche di «attività antinazionale», e di questo aggettivo Lucentini andrà orgoglioso per tutta la vita, perché realmente lui e i suoi amici furono dei disfattisti: sapevano che solo la sconfitta in guerra poteva salvare l'Italia dal permanere in balìa di un regime fascista che si sarebbe trovato a sua volta in balìa di Hitler.
E così, la domenica 25 febbraio 1945, sulla prima pagina di «Democrazia internazionale» si poté leggere il seguente comunicato dal titolo Non ci chiamate antifascisti: «La redazione di "Democrazia internazionale" e i molti o pochi simpatizzanti del giornale e del movimento chiedono di non essere più considerati "antifascisti": troppi Crisafulli, troppi Curzio Malaparte, troppi "littori" di Mussolini, sono ormai antifascisti, e per conseguenza patriotti e di conseguenza nazionalisti (cioè come prima). Noi riprendiamo, umilmente, la vecchia qualifica, che sempre ci ha onorati nel periodo nazional-fascista, quella poliziesca di "antinazionali", che in Italia, significa democratici». «In Italia», puntualizza l'anonimo redattore che quasi certamente risponde al binomio Lucentini-Pampiglione. Con parecchi anni di anticipo sulla ditta costituita con Carlo Fruttero, Lucentini scrive in coppia per la prima volta: per indicare che proprio qui in Italia occorre superare tanto il fascismo quanto l'antifascismo se si vuole sconfiggere il male vero, il nazionalismo – e, con quello –, lo spirito gregario preso di mira nel corsivo Man of the street?.
Quando nel 1996 Ernesto Galli della Loggia pubblicò da Laterza il saggio La morte della patria, Lucentini gli indirizzò (firmandola da solo) una lettera aperta garbatamente polemica, intitolata Elogio del disfattismo; rievocava quel trafiletto del '45 e rivendicava – con la vecchia qualifica di «antinazionale» – l'onore di essere stato tra i pochi italiani che fin dal principio si augurarono la sconfitta dell'Italia fascista, razzista e guerrafondaia. A differenza dell'italiano comune, Franco Lucentini era un anarchico che rispettava le regole, in pubblico e in privato, ed era miscredente in religione senza essere cinico nella morale. I poteri costituiti gli facevano orrore perché ne aveva conosciuto la violenza, l'imbecillità e l'arbitrio: per la stessa ragione detestava l'incapacità di autonomia del suo popolo, il suo familismo, il disprezzo per le donne, il sentirsi forti quando si è in molti. Lucentini sapeva di essere un animale raro tra i suoi concittadini: un uomo libero, capace di governarsi. Nel '64 avrebbe disegnato il proprio autoritratto nel protagonista del suo racconto più bello, Notizie degli scavi: il Professore, un giovane minorato che lavora in una pensione di prostitute, a Roma. C'è in quel racconto una frase che completa la morale della favola implicita in Man of the street?. Siamo negli scavi di Villa Adriana, a Tivoli; il Professore è solo, sotto una tettoia: sta aspettando una delle signorine che ha accompagnato sul lavoro; piove. «Da una grotta in fondo veniva un cane, a vedere che stavo lì, e dopo ne venivano pure altri due, più grossi. Stavamo con questi cani a guardare che spioveva». Stavamo: lo sguardo del Professore ha livellato se stesso e i cani – la compagnia ideale per un uomo di strada – al medesimo grado di esistenza. (Chi la possiede, vada a vedere la copertina della prima edizione di Notizie degli scavi. È una foto in bianco e nero: l'immagine mostra Franco Lucentini tra i ruderi di Villa Adriana, nel gesto di accendersi una sigaretta. È solo).

martedì 3 settembre 2013

Salvador Allende: una biografia

 
Carlo Vulpio
Allende, l'ironia contro i cannoni
La Lettura, Corriere della Sera, 1 settembre 2013
 
Furono, quelli di Salvador Allende, presidente socialista del Cile, mille giorni che meritano di essere raccontati e studiati ancora oggi come una lezione di storia e di politica. Perché furono mille giorni in cui il Cile – un Paese povero, ma ricco di risorse (soprattutto rame e salnitro) e geloso della propria dignità – alimentò una speranza: sottrarsi alla scelta obbligata di finire sepolti o sotto le macerie materiali e morali del «socialismo reale» di stampo sovietico oppure sotto la odiosa «democratura» di élite finanziarie internazionali senza scrupoli e senza controllo.
Questa speranza, questo progetto politico non velleitario, ma forte di una storia che vedeva il Cile come una delle più antiche e stabili democrazie del mondo («il cui Parlamento – come disse lo stesso Allende in un applauditissimo discorso all’Assemblea dell’Onu nel 1972 – non ha mai interrotto la sua attività dal giorno della sua istituzione, centossessanta anni fa»), vennero disintegrati dallo scellerato colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973. Un colpo di Stato «in diretta», con il presidente Allende che, asserragliato nel Palazzo della Moneda, a Santiago, insieme con i suoi fedelissimi, alle 7:55 del mattino comincia a parlare al popolo cileno attraverso la radio e lo informa minuto per minuto su cosa sta accadendo, fino a quando, bombardato il palazzo dall’aviazione e poco prima che se ne impadroniscano i golpisti assassini, esattamente alle 9:10, Allende rivolge al Cile il suo ultimo discorso e poi sceglie di darsi la morte con un colpo di fucile.
Quel discorso «non ha alcun precedente storico, perché mai è stato pronunciato un addio come quello, sulla soglia della morte, e poi perché fra tutti i grandi discorsi politici del secolo scorso, da John Kennedy a Martin Luther King a Charles De Gaulle, quello di Allende fu l’unico discorso improvvisato». Lo sostiene Jesùs Manuel Martìnez, spagnolo, docente all’Università Cattolica del Cile e autore di Salvador Allende. L’uomo. Il politico (Castelvecchi, 325 pagine, 22 euro). «Quel discorso – dice ancora Martìnez – è eterno ed è la “colonna sonora” di questo libro». Che, diciamolo subito, è una biografia accurata, minuziosa, partecipe e lucida, basata su fonti di prima mano e in parte vissuta in prima persona dall’autore, che di Allende è stato anche amico. A riprova della robustezza dell’opera, qualora ve ne fosse bisogno, una bibliografia di 95 titoli e un indice dei nomi di sei pagine.
Sullo svolgimento dei fatti e sui responsabili del golpe – l’amministrazione americana guidata da Richard Nixon, «le multinazionali minerarie del rame, la magacompagnia telefonica Itt, una cellula del governo degli Stati Uniti diretta dal consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger», anche se quest’ultimo ha sempre negato il suo coinvolgimento – è stato scritto e detto (quasi) tutto. Poco si sa, invece, dell’uomo Allende, della sua vita privata, della sua famiglia, della sua formazione umana e politica, del suo carattere. Su questo versante, la biografia di Martìnez è davvero il libro che mancava. Ma prima di vedere come aveva cominciato Salvador Allende, occorre ancora dire qualcosa su come finì. Se non altro perché il protagonista negativo della storia fu la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, che infatti, prima con il presidente Gerald Ford nel 1974 e poi con la Commissione senatoriale Church nel 1975, non poterono che ammettere il proprio intervento in Cile per sabotarne l’economia e demolirne la democrazia. E tuttavia, nonostante questa ammissione, leggendo «la massa di documenti» si resta allibiti e indignati, scrive Martìnez, «di fronte all’arroganza, all’ignoranza e all’incompetenza di organismi e servizi che pretendevano di governare il mondo».
La giustificazione, posticcia, fasulla, fondata su malferme ragioni di Realpolitik dovute a un mondo spaccato in due dalla guerra fredda, è sempre stata quella di evitare che in America latina si formasse «una seconda Cuba». Quando invece da sempre Allende aveva escluso la via castrista per il Cile, rifiutando la geniale idea della sinistra comunista di istituire anche in Cile i soviet operai e contadini «come in Russia» e affermando fino alla noia che «non è rivoluzionario chi, con la forza, riesce a comandare temporaneamente, ma chi, giungendo legalmente al potere, trasforma il senso e la convivenza sociale, le basi economiche del Paese».
Queste parole, frutto genuino della sua avversione ai totalitarismi, del suo essere non violento, marxista non ortodosso, socialista libertario e anti-leninista, contrario al monopartitismo e alla dittatura del proletariato, costeranno care ad Allende durante i suoi mille giorni di governo. Quando era già chiaro dove si andava a parare, i comunisti cileni, gli stessi che potevano vantare tra i propri militanti il premio Nobel Pablo Neruda e che erano al governo con cattolici e radicali nella Unidad Popular guidata da Allende, chiesero aiuto a Leonid Brežnev e organizzarono un incontro a Mosca tra i presidenti dell’Urss e del Cile. Ma il compagno Brežnev fu gelido. «Ogni rivoluzione – disse ad Allende – deve sapersi difendere». Allende non ebbe bisogno di altre parole, si alzò e chiuse lì l’incontro, ma poiché era davvero un hombre vertical fece ricorso alla sua professione di medico per ricambiare la cortesia: «Diagnosticò a Brežnev una forte influenza e gli consigliò un periodo di riposo», racconta Martìnez.
Ecco, questo episodio è soltanto uno dei tanti che rendono meglio l’idea dell’uomo Allende, detto Chicho, proprio come il diminutivo italiano Ciccio, da cui deriva. Un uomo che si dichiarava orgogliosamente «medico, massone e pompiere», che modellò la sua vita professionale e politica su quella del nonno, medico e massone pure lui, benvoluto e ricordato da tutti per l’abnegazione verso i più poveri.
Da ragazzo, al liceo, Salvador era stato campione nazionale giovanile di decathlon e di nuoto e come medico e politico coltivò l’idea fissa della salute per tutti (in un Paese che negli anni Quaranta aveva la mortalità infantile più alta del mondo), un tema che fu al centro della sua tesi di laurea e della sua prima, breve esperienza da ministro della Sanità e che gli valse il plauso pubblico dell’autorevole padre gesuita Alberto Hurtado, proclamato santo nel 2005, e più avanti dell’intera Compagnia di Gesù, «che in Cile, dall’inizio del XX secolo, è stato il vero motore di cambiamento – scrive Martìnez – per il suo altissimo livello sociale, intellettuale e professionale».
Su Allende, dice Martìnez, sono state riversate tonnellate di immondizia. Per fortuna era uno uomo di spirito e «grazie al clown che era in lui» spesso riuscì a neutralizzare i denigratori con una battuta, una trovata. Aveva una barca a remi, la fecero diventare uno yacht (fu El Mercurio, il giornale di Augustìn Edwards, concessionario in Cile e vicepresidente mondiale della Pepsi Cola, il cui presidente era Donald Kendall, uno dei grandi patrocinatori della carriera politica di Nixon…). Allende rimorchiò con l’auto la sua barca fino a Santiago e la «varò» davanti al Palazzo della Moneda. Anni prima, da senatore, dopo uno scambio reciproco di contumelie, aveva anche trovato il modo di affrontare in duello con la pistola il collega Raùl Rettig (ma nessuno dei due fece centro), che lo stesso Allende nel 1970 avrebbe nominato ambasciatore in Brasile. «Ma la mattina del golpe superò se stesso», ricorda Martìnez. A uno dei generali traditori, che gli intimava la resa, Allende chiese come stava con il cuore, visto che da poco aveva avuto un infarto, e come stava la sua signora. Il generale rispose con garbo e con un certo imbarazzo. Poi gli riferì il messaggio del capo dei golpisti, il noto criminale che per diciassette anni sarà il dittatore del ile e che nel libro Martìnez di proposito non nomina mai. Salvador Chicho Allende rispose così: «Gli dica di non fare il finocchio e di venire a prendermi di persona».

lunedì 2 settembre 2013

Che c'entra il petrolio con la Siria

Gilles Kepel
La crisi siriana
Dietro il caos in Siria l’ombra dell’Iraq e i regni dell’oro nero

la Repubblica, 2 settembre 2013

LA CRONACA di un attacco annunciato contro la Siria di Bashar al-Assad coincide più o meno con il dodicesimo anniversario dell’11 settembre. L’ostentata volontà franco-americana di bombardare un Medio Oriente in cui si moltiplicano le spaccature dopo le rivoluzioni del 2011 non è che l’ultima replica del big bang che ha aperto il XXI secolo. Ma le esplosioni ricorrenti del vulcano arabo liberano delle forze irreprimibili, protagoniste impreviste del mondo di domani. Le rivoluzioni arabe sono in primo luogo il prodotto della decomposizione di un sistema politico concepito per resistere alla paura della proliferazione terroristica dopo la «doppia razzia benedetta su New York e Washington» perpetrata da bin Laden e dai suoi accoliti. Contro Al Qaeda, avevamo eretto un baluardo di regimi autoritari e corrotti, ma dotati di servizi di sicurezza efficienti. L’esigenza della democrazia era stata sacrificata sull’altare della dittatura, ma Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e altri come Ali Saleh, non sono stati altro che dei despoti patetici che hanno cristallizzato contro se stessi il malcontento popolare, portando a delle rivoluzioni che sono dilagate da Tunisi al Cairo e da Bengasi a Sana’a nella primavera del 2011.
Nel frattempo, Al Qaeda aveva investito le sue energie per creare un improbabile «Emirato islamico di Mesopotamia» nell’Iraq occupato dagli Usa dopo il marzo del 2003. Si è infranta nella sua corsa folle agli attentati suicidi, sognando invano di infliggere all’America un Vietnam jihadista. Nei suoi confronti, i neoconservatori americani, credendo di riscattare il loro onore militare con il dispiegamento di un arsenale invincibile contro uno «Stato canaglia», si prendevano una rivincita simbolica contro gli aerei lanciati contro le Torri Gemelle. Speravano di raggiungere un duplice obiettivo. Rovesciando Saddam Hussein, punivano un dittatore sunnita sospettato di avere creato bin Laden. E portavano al potere la maggioranza sciita in Iraq, che credevano filo-americana, amica di Israele, e perfino capace di far vacillare il regime dei mullah di Teheran. Questi ideologi imbevuti di guerra fredda si sono rivelati degli apprendisti stregoni. Lungi dal vacillare, Teheran è rapidamente diventata la fornitrice di armi e la finanziatrice dello sciismo iracheno. E sono questi sciiti che hanno spezzato le reni all’organizzazione terroristica sunnita, finanziata dai petrodollari provenienti dalla riva araba del Golfo Persico. Infine, sotto gli auspici di Maliki, Bagdad è diventata la migliore alleata di Teheran.
La guerra in Iraq ha dunque avuto due conseguenze paradossali. Ha rafforzato l’asse sciita diretto da Teheran, che ora ha un forte sostegno a Bagdad, e, inoltre, Damasco, gli Hezbollah libanesi e (fino al 2012) il movimento Hamas palestinese, unico partner sunnita della coalizione. E ha disintegrato Al Qaeda, così le dittature sono apparse inutili o addirittura dannose. Soprattutto, Teheran, fornendo via Damasco le armi ai suoi debitori di Hezbollah e di Hamas, ha proiettato la sua frontiera militare sui confini dello stato ebraico, tramite gli alleati interposti. Di fronte al rafforzamento di questo asse sciita, il cui controllo dell’arma nucleare sconvolgerebbe la geopolitica globale dell’energia, perché trasformerebbe il Golfo Persico in un lago iraniano, il mondo sunnita subisce una prima scossa con le rivoluzioni arabe. Le «primavere arabe» sono state accolte con benevolenza in Occidente, ma hanno comunicato un’ondata di panico nella spina dorsale delle monarchie petrolifere del Golfo.
La prospettiva di un «contagio democratico » ha terrorizzato queste dinastie i cui membri monopolizzano i proventi del petrolio e del gas. Il pericolo toccava ormai la penisola arabica stessa, mentre la comunità internazionale guardava da un’altra parte lasciando prevalere gli idrocarburi in pericolo sui diritti umani a rischio. Eppure, il Consiglio di cooperazione del Golfo si è diviso profondamente rispetto alle rivoluzioni arabe. Il Qatar, seconda potenza produttrice di gas al mondo, si è impegnato a dare un massiccio sostegno materiale e mediatico, attraverso la Al Jazeera, ai Fratelli Musulmani. Ha visto in questo islamismo socialmente conservatore la massa umana critica capace di farlo diventare la potenza egemonica del mondo arabo sunnita. Per contro, l’Arabia Saudita e gli altri emirati hanno fatto blocco contro i Fratelli, che fanno concorrenza alla loro intenzione di controllare l’Islam mondiale. L’Arabia ha sostenuto ovunque i salafiti, rivali dei Fratelli. Tuttavia, parte di questi elementi sono finiti nell’attività jihadista violenta. È in questo contesto che si è sviluppata la rivoluzione siriana. All’inizio, aveva lo stesso profilo che in Tunisia o in Egitto: una gioventù istruita si metteva a capo delle rivendicazioni democratiche contro un potere autoritario. Ma l’intensità della repressione e la sua trasformazione graduale in guerra civile a carattere confessionale ha impedito il sollevamento delle forze armate contro il presidente. Il finanziamento in petrodollari e la distribuzione di armi provenienti dai Paesi del Golfo — uniti per sostenere i sunniti che avrebbero scardinato l’asse sciita se Damasco fosse caduta — ha cambiato la situazione sul terreno, favorendo la penetrazione militare dei gruppi islamisti e rendendo più difficile il sostegno alle forze democratiche della resistenza. La Siria diventa dunque l’epicentro dello scontro tra l’asse sciita e i suoi avversari sunniti, ostaggio di una guerra per procura fatta prima di tutto per controllare gli idrocarburi del Golfo. La vittoria di Assad rafforzerebbe Teheran e, dietro all’Iran, la Russia, messa da parte in Medio Oriente. È su questa mappa contrastata che si è aperto nel 2013 il «terzo tempo» della dialettica delle rivoluzioni arabe: la reazione contro i Fratelli musulmani. A quel punto, si è prodotto un importante riallineamento nella regione, di cui hanno immediatamente tratto profitto i dirigenti siriani, iraniani e russi: l’esplosione del blocco sunnita in due fazioni rispetto al sostegno o all’ostilità verso i Fratelli Musulmani. Questa spaccatura profonda separa la Turchia e il Qatar, da una parte, e gli altri paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa.
Questo è il contesto in cui sono state usate le armi chimiche nella periferia di Damasco. Se si scoprisse che il regime è l’autore di questo bombardamento sarebbe una provocazione per la comunità internazionale, per la quale questa rappresenta, come ha detto Obama, una «linea rossa». È la violazione di questa norma morale che i presidenti americano e francese invocano per agire in nome dell’umanità contro la barbarie. Tuttavia, l’invocazione di questi principi riscuote poco successo tanto nell’opinione pubblica dei paesi coinvolti che tra gli alleati, dagli altri paesi europei alla Lega Araba. Soprattutto, la riaffermazione russa cambia profondamente la situazione rispetto a un’operazione militare. Mosca non vuole subire un nuovo Afghanistan. La paradossale accoppiata francoamericana ha i mezzi per prolungare l’unilateralismo che è prevalso dopo la caduta del muro di Berlino? Oppure l’Occidente, diviso, è costretto ad agire nel quadro di un nuovo multipolarismo?
(traduzione di Luis E. Moriones)

domenica 1 settembre 2013

Montaigne e Diderot bestseller

Bernardo Valli 
L'estate dei saggi. Montaigne e Diderot bestseller da spiaggia
la Repubblica, 28 agosto 2013

La chiamo "l'estate dei filosofi", perché due di loro, il rinascimentale Montaigne e l'enciclopedista Diderot, hanno dato un'impronta insolita alle letture della stagione balneare. All'origine del fenomeno, perché di fenomeno si tratta, c'è un libretto da dodici euro. Un talismano a buon mercato. La copertina è gialla, un giallo limone, illustrata da un disegno sofisticato e spiritoso. Un uomo, meglio la sua sagoma color inchiostro, si suppone calvo, con la gorgiera dei nobili del Rinascimento, penso inamidata, a merletti, seduto al riparo di un ombrellone da spiaggia, tiene il busto eretto e ha un libro appoggiato sulle ginocchia.
È la posizione rispettosa di chi compie un rito. Forse è cosi che si leggeva secoli fa. Ma la seggiola è dei nostri giorni; è stile habitat; e sullo schienale c'è un passero.
Il libretto, formato opuscolo, presentato con tanto humour, conta centosettanta pagine. L'editore non è uno dei grandi di Francia: le éditions des équateurs non sono parigine, sono della provincia, hanno la loro sede sulla costa normanna. Quanto all'autore, Antoine Compagnon, è un rispettatissimo, noto professore del Collège de France e della Columbia University, specialista di Montaigne e Proust, ma che ha scritto anche di Racine, Baudelaire, Stendhal, ed è l'autore di un testo, Les Antimodernes, diventato un classico. Il suo nome non attirava tuttavia decine di migliaia di lettori. Per divertimento l'estate scorsa, nel 2012, ha accettato di tenere quaranta brevi trasmissioni culturali su Montaigne a Radio France Inter,e nell'estate successiva, la nostra, quelle conversazioni, stampate e diventate altrettanti brevissimi capitoli, si sono trasformate in un volume che ha venduto centomila copie. E non è finita.
L'intelligente, semplice sintesi delle idee di un moralista di mezzo millennio fa si è accodata, sia pure a distanza, nella lista dei bestseller estivi, ai meno nobili giganti, quali sono Inferno di Dan Brown e la serie delle Cinquanta sfumature di E. L. James. Centomila copie significa, a occhio e croce, almeno mezzo milione di lettori: una massa di uomini e donne che sulle spiagge si appassionano alle idee ricavate dai Saggi (Essais), scritti da Michel Eyquem, detto Montaigne, vissuto dal 1533 al 1592, pioniere dell'introspezione per il modello di esercizio spirituale, laico si intende, che ci offre, e maestro di vita per le sentenze epicuree che ci suggerisce. La prima spiegazione è che Montaigne non dimostra i quasi cinquecento anni che ha. L'uomo, coperto da un'ombra, sulla copertina, con il titolo Un été avec Montaigne è ovviamente lui: e se l'abito ricorda la sua epoca, il resto del disegno ricorda che è anche dei nostri. Comunque vorremmo che lo fosse. Non lo si può definire moderno. Se mai premoderno, dice Antoine Compagnon. Aveva una sensibilità simile a quella di molti di noi, annoiati dall'idea di un progresso ineluttabile, promesso all'avvenire dell'umanità. E tuttavia non lo si può definire neppure un postmoderno. È un modello di scetticismo fuori dal tempo, perché non deteriorabile, che invita a trovare la felicità partendo da se stessi, che insegna come accontentarsi di quel che si ha, e come trarne soddisfazione. Gli Essais (in italiano c'è un'esemplare traduzione di Fausta Garavini) sono ritmati dalla regolare alternanza della vita pubblica e della vita privata di Montaigne. Il quale è stato sindaco di Bordeaux, mediatore tra cattolici e protestanti durante le guerre di religione, viaggiatore in Italia, e solitario studioso tra i suoi libri. Gli Essais sono stati scritti, riscritti, corretti per vent'anni, e il loro valore etico resiste cinque secoli dopo.
Didier Diderot è l'altro filosofo della stagione. Tra poco compie trecento anni (essendo nato il 5 ottobre 1713), ma neppure lui li dimostra. In vista delle celebrazioni sono apparsi tanti saggi e biografie che campeggiano sui banchi delle belle librerie parigine. Il volume di Jean Starobinski, Diderot, un diable de ramage, ha diritto a un'attenzione particolare. Il "ramage" è il cinguettio nel fogliame degli alberi, ma è anche il brusio delle voci nella società, di cui parla il nipote di Rameau, nella più nota opera di Diderot. Il filosofo tendeva l'orecchio a quei rumori nel secolo dei lumi. Li ascoltava e li raccontava, li analizzava, li interpretava nei suoi scritti. Era uno straordinario cronista, curioso e sfacciato se necessario, erudito ma non pedante, spaziava dalla matematica alla medicina, dalla scienza alla morale, con la chiarezza di un eccezionale dilettante. Era un libertino, come si diceva allora, ma anche un innamorato tenace. Ne è la prova la corrispondenza con Sophie Volland, considerata da Proust la più bella raccolta di lettere d'amore.
Raccoglieva il brusio della società nelle strade di Parigi, allora cuore di una monarchia moribonda, nei villaggi, nei salotti letterari, nelle alcove delle sue amanti, nelle tipografie dove si stampavano i volumi della sua Enciclopedia. Gli scritti di quel grande ascoltatore, molti dei quali apparsi dopo la sua morte, alcuni ancora allo studio, ci arrivano come se fossero freschi d'inchiostro. I suoi pensieri (dei quali diceva «sono le mie puttane») è come se datassero di ieri.
Jacques Attali in Diderot. Ou le bonheur de penser, e anche Gerhardt Stenger in Diderot. Le combattant de la liberté, lo presentano come il filosofo che più incarnò, nella sua epoca, l'ideale di libertà. E che riabilitò le passioni. Meravigliosi protagonisti, entrambi, Montaigne e Diderot di un'estate del nostro secolo.

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Montaigne in italiano

Montaigne, Saggi, con testo francese a fronte, a cura di Fausta Garavini e André Tournon, Bompiani
Sarah Blakewell, Montaigne. L'arte di vivere, traduzione di Thomas Fazi, Fazi editore
Saul Frampton, Il gatto di Montaigne, traduzione di Elisa Banfi, Guanda

edizione tematica dei saggi, traduzione e cura di Federico Ferraguto, Fazi editore
1. Coltiva l'imperfezione
2. Sopravvivi all'amore
3. Svegliati dal sonno dell'abitudine
4. Scopri il mondo
5. Lavora bene, ma non troppo bene
6. Filosofando per caso
7. La risposta è la vita stessa

Euroscetticismo dilagante

Jacopo Rosatelli 
L’onda euroscettica sotto i colpi della crisi: dalla periferia al nucleo
Aspenia online, 1 agosto 2013

Un fantasma si aggira per l’Europa, quello dell’euroscetticismo? La domanda è legittima, perché i segnali di malcontento sono molti. Laddove le proteste sono più forti, come nella “periferia” rappresentata da Portogallo, Spagna e Grecia, chi manifesta contro le politiche governative adottate per uscire dalla crisi lo fa spesso prendendosela con “i diktat di Bruxelles”. O con quella troika formata, per due componenti su tre, dalle istituzioni continentali che più di altre rappresentano l’Unione Europea come soggetto autonomo (e non come somma di Stati): la Commissione e la Banca Centrale Europea. L’UE ha smesso di essere, per larghi settori di quei paesi, sinonimo di benessere ed opportunità, trasformandosi nell’inafferrabile dispensatore di austerità a dosi ritenute insopportabili.
Fortunatamente, anche nella periferia europea più colpita dalla crisi continuano a prevalere le posizioni di coloro che sanno distinguere tra il progetto europeo nella sua portata storica e le scelte politiche contingenti, tra l’UE in sé e chi ne guida, in questa fase, gli organi di governo. Inoltre, fra quanti criticano l’attuale indirizzo politico delle istituzioni europee, sono una minoranza quelli che assolvono dalle responsabilità della crisi le proprie classi dirigenti nazionali: nell’autocritica sono generalmente coinvolti settori e soggetti interni alle proprie società. Emblematiche sono, da questo punto di vista, voci come quelle del principale quotidiano spagnolo, El País, che rappresenta l’opinione pubblica iberica progressista, e il partito della sinistra radicale greca Syriza, che, com’è noto, è in forte ascesa.
Ciononostante, appare evidente come, nella periferia, lo spazio per conciliare la critica alle politiche dell’UE e la difesa della sua legittimità rischi di ridursi sensibilmente con il trascorrere del tempo, se le popolazioni non riusciranno ad avvertire un miglioramento delle proprie condizioni. Un destino che, a ben guardare, riguarda non solo i paesi “deboli”, ma anche il cuore dell’Europa. Anche in Germania e in Francia, infatti, in modo diverso è viva la tensione fra la critica delle singole scelte politico-economiche delle istituzioni comunitarie e la negazione della legittimità stessa dell’UE. Nonostante l’euroscetticismo sia ancora sotto i livelli di guardia, non si può dare per scontato che, nel centro del continente, esista un’eterna ed inesauribile riserva di consenso filo-europeo.
Sulle due sponde del Reno, come si sa, storicamente la costruzione dell’edificio europeo non è stata vissuta allo stesso modo: approccio intergovernativo quello francese, spinte verso la dimensione comunitaria e sovranazionale da parte tedesca. Maggiore attenzione verso la tutela delle sovranità nazionali nel primo caso, e invece più slancio verso nuove forme di sovranità condivisa nell’altro. Nonostante le differenze, però, le classi dirigenti dell’Esagono e della Repubblica federale, sia di (centro)destra che di sinistra, si sono sempre spese a favore del processo di integrazione, a differenza dello storico “partner-avversario” britannico. L’impegno pro-europeo ha sempre potuto contare su opinioni pubbliche che, fatte salve le differenze, non hanno mai osteggiato il progetto di integrazione continentale. Il rischio che corrono ora Francia e Germania è che un’ostilità di tal genere possa invece, sulla base di esperienze diverse, crescere.
Nel caso francese, l’assenza di tangibili risultati nella politica economico-sociale del presidente socialista François Hollande potrebbe tradursi in una sorta di risentimento anti-europeo: l’UE (a egemonia tedesca) rischia di essere vista come quel fattore “esterno” che impedisce il pieno utilizzo delle prerogative che uno Stato sovrano ha per farsi carico dei problemi che vivono i propri cittadini. A soffiare sul fuoco di questo malcontento sono già la destra del Front National e la sinistra più radicale unita nel Front de Gauche, assai critiche non da oggi – con le dovute fondamentali distinzioni – sull’unificazione europea. E anche all’interno del Partito Socialista (PS) potrebbero riemergere quelle differenze che risalgono almeno al referendum sulla costituzione europea del 2005, che vide l’attuale ministro degli Esteri Laurent Fabius schierarsi per il no al trattato: recenti dichiarazioni del ministro “protezionista” Arnaud Montebourg, che ha lamentato le “pressioni dell’UE sui governi democraticamente eletti”, evidenziano turbolenze nei rapporti di una parte del PS con Bruxelles.
È concreta la possibilità che le prossime elezioni europee della primavera 2014 si trasformino in una manifestazione di sfiducia nei confronti di Hollande, e cioè soprattutto della mancata rinegoziazione del fiscal compact e dell’intera governance economica europea. Gli euroscettici di destra, dal FN a formazioni minori come il tradizionalista Mouvement pour la France dell’eurodeputato vandeano Philippe De Villiers o Debout la République del deputato gollista dissidente Nicolas Dupont-Aignan, non si lasceranno sfuggire l’occasione di mettere in relazione la perdita di sovranità con la crisi economica. Rispetto al rifiuto dell’Europa per ragioni di puro e semplice nazionalismo, questo tipo di euroscetticismo ha indubbiamente più frecce (e più pericolose) al proprio arco.
Anche la sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon insiste, pur con accenti diversi, sullo stesso nesso sovranità-crisi economica, aggiungendovi però la necessità che tutti i popoli colpiti dall’austerità si uniscano nella stessa lotta contro l’indirizzo sin qui prevalente della Commissione e del Consiglio europeo. Una sorta di “neo-sovranismo internazionalista”, per così dire, potrebbe trovare ascolto nell’elettorato che alle presidenziali premiò Hollande. In questo quadro, i gollisti dell’UMP si candidano a tornare primo partito e guadagnare una posizione utile nel cammino della reconquête alla quale stanno già lavorando, nonostante pesi su di loro lo stigma di un’eccessiva (e storicamente paradossale) germanofilia, retaggio dell’epoca non lontana della diarchia (a trazione tedesca) Merkozy.
In Germania, il sentimento esplicitamente euroscettico trova ancora scarsa espressione nel sistema politico. Non c’è nulla di paragonabile al Front National, mentre la sinistra della Linke è lontana da pulsioni nazionalistiche di qualunque sorta, anche solo in forma di souveranisme. Ciononostante, la nascita del partito anti-euro Alternative für Deutschland è un segnale da non sottovalutare, così come il dibattito nella sinistra radicale sull’uscita dalla moneta unica inaugurato da Oskar Lafontaine. Fra i democristiani, le voci critiche sono isolate, anche se rumorose, come quelle del deputato bavarese Peter Gauweiler, uno dei promotori del ricorso alla Corte costituzionale contro il Meccanismo europeo di Stabilità e il piano di acquisti dei titoli di debito da parte della BCE.
Più che di euroscetticismo in senso proprio, nel caso tedesco si può parlare di una sorta di “euro-raffreddamento”, tanto nell’opinione pubblica quanto nelle classi dirigenti. Qualcosa di meno minaccioso per l’UE di quanto si muova invece in Francia, ma in grado di conoscere evoluzioni ulteriori. Il “programma di governo 2013-2017” della CDU\CSU rappresenta in maniera emblematica tale posizione. Per l’UE la Germania non è disposta a far pagare troppo i propri contribuenti: Keine Leistung ohne Gegenleistung, ossia “nessuna prestazione senza controprestazione”, recita il documento. E quindi, no agli eurobond e altre forme di condivisione del debito con i paesi ritenuti spendaccioni, perché, se venissero adottati, il rischio sarebbe quello di perdonare (e dunque tollerare) i comportamenti non virtuosi.
Visti gli indici di gradimento della Cancelliera Merkel, la maggioranza dei tedeschi sembra indiscutibilmente condividere questo punto di vista: l’UE va bene, ma non – quasi letteralmente – a qualunque prezzo. Una crisi di legittimità non è poi così lontana.