sabato 21 dicembre 2013

Il capitalismo infinito: una lettura

Giuseppe De Rita 
Nella palude del lavoro liquido. Dal post-fordismo alla dispersione: una parabola discendente
Corriere della Sera, 20 dicembre 2013
a proposito di Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori nella crisi, Einaudi 2013


Da antico sodale nella ricerca sulla composizione sociale del Paese, ho ritrovato nel recente volume di Aldo Bonomi su Il capitalismo infinito tanti richiami alla mia storia intellettuale e professionale, con le tante scoperte e le tante delusioni che ci ha dato la straordinaria decennale dinamica della nostra struttura sociale.
All’inizio, negli anni 60 tutto sembrava chiaro e solidamente proiettato in avanti: stava contraendosi fortemente la componente agricola, che ancora al censimento del ‘51 contava sul 54% della popolazione; aumentava e si compattava come «classe operaia» la componente «fordista» dei lavoratori dipendenti dell’industria; cresceva con passo inarrestabile la componente impiegatizia, specialmente concentrata nel lavoro pubblico e nelle attività bancarie e assicurative. Sembrava un mondo destinato a durare per decenni, anche perché esso trovava la sua corrispondenza nella articolazione delle forze politiche, attraverso il tipico fenomeno del collateralismo categoriale (del mondo agricolo, della classe operaia, del ceto medio impiegatizio).
E invece con l’inizio degli anni 70 cambia tutto, e radicalmente, pur se non tutti allora se ne accorsero, impegnati com’erano su altre impressive ma sovrastrutturali tematiche. Succede che in quegli anni esplode l’economia sommersa (3-4 milioni di «spezzoni di lavoro» non riconducibili ad alcuna rappresentazione statistica come di rappresentanza); con l’economia sommersa matura ed esplode la piccola e piccolissima impresa (solo per il settore industriale ci fu il raddoppio del numero delle imprese create nei cento anni precedenti); esplode nel settore terziario non la grande organizzazione dei servizi, ma il lavoro autonomo e individuale (per esempio nei trasporti scomparve il grande Istituto Nazionale Trasporti e dilagò il popolo dei proprietari di camioncini e di camion); il pubblico impiego si dilata in maniera importante, ma perde compattezza e identità a vantaggio della moltiplicazione di nuove figure professionali e più ancora della corrosione operata da milioni di «secondi lavoristi»; si affermava un enorme processo di cetomedizzazione segnato più da una antropologica propensione alla soggettività dell’agiatezza che da una seria potenziale maturazione di classe borghese.
Noi ricercatori ci ritrovammo a lavorare in una realtà senza più confini e schemi certi; e dovemmo prendere atto che tutto era cambiato, e che vivevamo in una realtà di «post-fordismo», coscienti da un lato che la dimensione organizzativa non funzionava più come facitrice di composizione sociale; e dall’altro che tutto il nuovo (economia sommersa, piccola impresa, lavoro autonomo, ecc.) aveva un motore immobile e profondissimo: il valore della soggettività e della libertà di essere se stessi, contro ogni vincolo sovraordinato, e non è un caso che gli anni 70 furono anche gli anni, sul piano sociale e valoriale, dell’accettazione referendaria del divorzio e dell’aborto).
Cavalcammo allora, specialmente Bonomi e io, la tematica del post-fordismo, impegnati però ad uscire dall’indistinto tipico di ogni «post». E i lettori di quegli anni ritrovarono testi, anche nostri, su definizioni meno indistinte: si parlò di capitalismo molecolare, di capitalismo personale, di «piccolo è bello», di primato del fai da te, della centralità della creatività individuale. Cercando di incardinare questo panorama di scelte in alcuni processi più solidi e concreti (del territorio, con il localismo, ai mercati internazionali con il made in Italy). È stata, parlo almeno per me, una cavalcata fenomenologica di grande interesse, e anche di soddisfazione, visto che vedevamo cose che gli altri non capivano. Ma sapevamo che non potevamo restare a goderci lo studio del post-fordismo, della molecolarizzazione, del primato della soggettività. Sapevamo, anche perché lo constatavamo ogni giorno nelle nostre ricerche, che i meccanismi della articolazione molecolare del sistema continuavano a operare, sottotraccia, ma con estrema potenza. E così oggi ci ritroviamo in un mondo di totale varietà, dove l’economia dei servizi e la società della conoscenza producono non solo piccoli imprenditori, lavoratori sommersi e lavoratori in proprio ma una miriade di altre posizioni di lavoro, come (cito Bonomi) «classe creativa, capitalisti personali, lavoratori della conoscenza, professionisti metropolitani e globalizzati, imprenditori, cognitivi, giovani e adulti esodati, precari, quarto stato» e si potrebbe continuare nell’elencazione, in una quasi orgia di identità e figure professionali «liquide».
Mi viene, rileggendo, un po’ di vertigine. E ho la sensazione che una tale frastagliata fenomenologia non permetta più di esercitare quel riconoscimento collettivo che è necessario in ogni società (in termini di ricerca, di rappresentazione mediatica, di rappresentanza sociale e politica). Gli schemi, anche i nostri, non servono più, non bastano più; la realtà e la dinamica quotidiana sono soverchiati, dovremo solo aspettare che si sedimentino. Ci resta solo la soddisfazione, sempre gratificante per chi fa fenomenologia, che la realtà è più forte di ogni sforzo di programmazione e organizzazione, anche intellettuale .

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