lunedì 31 marzo 2014

Francia, la delusione di un sogno

David Bidussa
Francia: un’angoscia comune
Linkiesta, 31 marzo 2014
 

Le reazioni al voto delle municipali francesi avvenute domenica scorsa non si sono fatte attendere.

Sostanzialmente le opinioni a confronto sono due: da una parte chi ritiene che quello di domenica scorsa sia un voto di protesta, e dunque un’uscita temporanea dalla casa madre; dall’altra chi ritiene, invece, che esso rappresenti l’ultima, per ora, tappa di un processo di lenta trasformazione e dunque abbia, o almeno alluda a, un aspetto più profondo. Personalmente sono più vicino ai secondi.

Certo si può dire che oggi il campo degli euroscettici è in crescita, e di sicuro una delle ragioni del successo del Front National (d’ora in poi FN) va ricercata sotto questo aspetto. Ma poi quel risultato ha un riscontro anche con la storia della Francia in età contemporanea, con la memoria di una Provincia che ha sempre guardato da lontano e spesso con rancore a Parigi (intendendo con queste due figure da una parte l’immagine della Francia autentica e nella seconda quella di una realtà in cui il dato essenziale era la presenza degli stranieri, dei “non francesi”). È la Francia del popolo variegato che riempie i racconti di Simenon, delle inchieste di Maigret, una Francia che attraverso il delitto di cronaca, a saperla leggere, racconta di sé moltissimo. Per capire dunque lo stato d’animo profondo, inquieto, risentito, a mio parere dobbiamo abbandonare una lettura che nasce dal contingente, dalle difficoltà in corso e scavare più a fondo, andando a indagare il “ventre profondo” di Francia.

Hervé Le Bras, demografo attento ai comportamenti, ed Emmanuel Todd, un antropologo che studia la trasformazione dei sentimenti e la loro interpretazione, hanno pubblicato a metà del 2013 un libro ricco di dati e di riflessioni su quella che è una crisi di lungo periodo della Francia attuale, dal titolo Le mystère français (Seuil). Su quel libro ho già scritto sul "Sole 24 ore" (quel testo è stato ospitato da Doppiozero con il titolo La Francia senza identità e non vi ritorno qui. Se non per riepilogare alcuni dati.

municipalei francesi 2014

In sintesi: la Francia degli ultimi venti anni registra un abbassamento verticale del PNL; aumenta la quota degli scolarizzati ma senza che questo indichi un avanzamento sociale; arretra il tasso di integrazione nelle grandi aree urbane; si mantiene uno spirito di villaggio nella “provincia”.

Un dato che esprime la rivincita del villaggio sulla città; dello spirito comunitarista su quello liberale e individualista. Diversamente si potrebbe dire: la famiglia-ceppo torna a prevalere su quella mononucleare.
La crisi sociale della Francia è prima di tutto crisi dei percorsi emancipativi individuali, fondati sul rifiuto della tradizione, propri delle rivolte giovanili degli ultimi cinquant’anni. Sentimenti che significano ricerca della “Vecchia Francia”.

Il FN vince perché è avvertito come espressione autentica della storia di Francia. Un aspetto che richiama il mito della Francia di Vichy, anch’esso fondato sul riscatto della tradizione e sul primato della provincia contro la città industriale. Una realtà in cui l’insediamento agrario e la divisione del campo per appezzamenti come ha rilevato Marc Bloch in uno studio classico (I caratteri originari della storia rurale francese, Einaudi 1973, ed. or. 1931), esigono una “grande coesione sociale, una mentalità comunitaria”.

Ma questa coesione è messa in discussione da almeno trent’anni.
Era il 3 dicembre 1983 quando a Parigi 100.000 figli d’immigrati (in gran parte algerini) partecipano alla “marcia per l’eguaglianza e contro il razzismo”. Quella marcia era la richiesta di esserci, di esistere e di integrarsi in una società che ancora stentava a riconoscerli.

La risposta di una parte della società francese di fronte alla possibilità dell’integrazione, alle politiche integrative avviate con la prima esperienza Mitterrand, fu la nascita del Front national di Jean-Marie Le Pen. La controreplica nel corso degli anni ’90 è stata la progressiva rivendicazione di un orgoglio delle origini che ha trasformato profondamente le periferie francesi e ne ha innalzato le conflittualità: quella degli integrati sociali, contro i marginalizzati; quella dell'occupazione a bassa professionalità contro la disoccupazione; quella della selezione scolastica per ceti; quella del maggior successo nella scuola delle ragazze nei confronti dei ragazzi. Soprattutto la fine del desiderio di integrarsi. Oggi la loro condizione è di essere al massimo francesi sulla carta (“Français de papier”) mentre cresce la nostalgia dell’origine. L’identità non è al futuro, è al passato. È il capostipite a tornare protagonista nell’identità di una società sempre più divisa e soprattutto distante. “Francesi di ceppo”, “Français de souche”, secondo il linguaggio di Le Pen. Fine del sogno di essere “Français comme les autres”, da parte dei nipoti degli immigrati.

I margini per un recupero del sogno del 1983 sono oggi molto stretti. Non solo perché l’opinione pubblica dei francesi di ceppo non sembra orientata in quella direzione, ma forse anche perché quegli altri l'integrazione non la chiedono più. E non la chiedono non solo, o non tanto, perché è una richiesta inutile, ma perché esiste un orgoglio di comunità, di origine, che è forte anche dentro e comunque fa ritenere che impegnarsi per integrarsi sia tempo perso.

Ma quest’aspetto ne implica un altro, anch’esso di natura strutturale, su cui non è improprio riflettere.
Venti anni fa, nel 1995, un rapporto sulla condizione minorile nelle periferie francesi evidenziava molti malesseri della società nel suo complesso.

In quel rapporto si metteva in guardia anche da un doppio fenomeno conseguente alla condizione d’incertezza: insorgenza dell’islamizzazione delle periferie; crescita del fenomeno lepenista. Nelle periferie del terzo anello contigue a quei quartieri cresceva la solitudine dei “beurs”, cioè dei nipoti della grande ondata maghrebina degli anni ’50 che non vedevano un futuro davanti a loro. Nei quartieri operai, un tempo roccaforti tradizionali della sinistra, il voto operaio già allora iniziava a rivolgersi verso Jean-Marie Le Pen. È la silhouette del malessere europeo postindustriale.

È significativo cosa risponde un operaio sindacalizzato a proposito della sua scelta di vita (siamo nel 2011, ovvero prima delle elezioni presidenziali che nel 2012 portano François Hollande all’Eliseo, questo per dire che chi oggi crede che la causa di tutto sia il grigio presidente attuale dice una cosa vera, ma non dice tutto, e soprattutto scarica su una sola persona un sintomo molto più profondo): “Votare FN è votare per il posto di lavoro. Votare socialista o UMP è votare per i padroni. Votare all’estrema sinistra significa difendere il lavoro degli immigrati. Io voto l’estrema destra” (Citato in Michel Wieviorka, Le Front National, Emsh, Paris 2013, p. 40).

Hollande, municipali 2014

Dagli anni ’80 e, soprattutto, nel corso degli anni ’90, la risposta messa in atto nella realtà francese è stata da una parte l’apertura di una campagna volta genericamente a una riaffermazione della lotta al razzismo e alle intolleranze, dall’altra la presentazione di un modello di crescita sociale e di emancipazione, comunque di benessere, che si prometteva “per tutti”, ma poi non aveva le coperture per garantirlo. Fine dello sviluppo e crisi del sistema di protezione sociale, dello Stato-provvidenza, sono i due segni di questa crisi.

Per poter rispondere a quella crisi si trattava di andare oltre la campagna sulle condizioni generali e affrontare le questioni specifiche, scomporre i dati generali del malessere, mettere in atto una politica concreta in grado di affrontare i percorsi specifici e personali del disagio. Più precisamente: da una parte constatare e considerare il dato che il razzismo oggi sia un fenomeno multifattoriale, ovvero plurale, basato su motivazioni locali, sociali, nazionali e globali; dall’altro considerare proprio in relazione a questa pluralità le risposte da attivare.

Ciò che era già evidente allora e che ora credo sia manifesto platealmente è la delusione di un sogno emancipativo che molti pensano che non sia per loro. Con quella delusione, ciò che si mette a nudo è anche la crisi di una repubblica inquieta e tormentata intorno ai suoi fondamenti. Tra questi particolarmente rilevante è la dimensione della laicità. Anche se difficilmente da questa crisi si uscirà riscoprendo l’esaltazione del vincolo sociale del religioso, ovvero delle strutture di tutela e di “carità” o di assistenza, è certo che oggi la Repubblica laica deve ripensare il suo stesso modello ideale, a partire da quella legge che circa nel 1905 sanciva la separazione tra sfera del religioso e sfera pubblica.

Da tempo lo “stato di salute” della laicità costituisce il tema all’ordine del giorno. La questione è, preliminarmente, se la strada intrapresa due anni fa con i lavori della Commissione Stasi – il cui primo effetto è stato la legge che interdice l’ostentazione dei simboli di appartenenza di fede nei luoghi pubblici e soprattutto nella scuola – rappresenti un percorso condiviso e se quell’agenda debba essere ripensata.
Qui si misura la domanda all’Europa come ipotesi politica, ma anche la crisi evidenziata dalle risposte arrivate da un ventennio su questo versante. Per questo se all’inizio l’Europa era una scommessa oggi a molti appare un incubo, comunque una realtà da cui fuggire a gambe levate.

Dunque per riepilogare.

Il voto al FN esprime sia un sentimento locale sia una condizione collettiva.
Quel voto denuncia l’angoscia delle periferie terrorizzate dall’eventualità che il legame sociale della comunità si spezzi, attraversate dalle paure di ciò che può arrivare da “fuori”. La sua geografia è collocata nell’estremo Est della Francia e nella zona mediterranea sud; ha una barriera di contenimento nella Francia occidentale, che il FN conquista solo al primo turno delle presidenziali del 2012. Nella stessa occasione il FN conquista il voto operaio nelle roccaforti comuniste di un tempo – Alta Normandia, Pas de Calais, Picardia – con percentuali intorno al 40% (27% su tutto il territorio nazionale).

Non solo. Quel voto esprime anche: preoccupazione per la perdita di competitività internazionale; percezione del crollo della propria “potenza”; timore del “declassamento”. Sentimenti che agiscono sulle convinzioni, più che sulla realtà. Infatti: lo stato sociale ancora funziona e la capacità d’innovazione culturale è tuttora rilevante. Ma non basta: ciò che manca è un’idea di futuro. Una condizione che, peraltro, si rispecchia nella crisi di progetto dell’UE, un dato che non è solo francese.

Per questo la crisi odierna della Francia parla alle altre democrazie europee e le interroga riguardo al deficit di progetto di cui anch’esse soffrono. In questo senso non è un voto di protesta, ma un segnalatore d’incendio che agisce nel profondo e parla anche a noi, alle nostre incertezze e, soprattutto al nostro malessere.


domenica 30 marzo 2014

Simone Weil sul rapporto tra Dio e il mondo

Pietro Citati  


Sotto il tallone della forza. Così l'Iliade parla di oggi
Il viaggio di Simone Weil alle fonti della violenza 
Il paradosso. Da un lato Dio è lacerato, perduto, diviso tra bene e necessità, assente dal mondo che Lui stesso ha creato, ma allo stesso tempo è onnipresente come nei Salmi

Corriere della Sera, 14 gennaio 2014

La rivelazione greca di Simone Weil (pubblicata dalla Adelphi, con eccellente traduzione e commento di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta) è un libro senza paragoni. La parola Grecia ha un'estensione quale non aveva mai avuto nella storia, assai più che nell'Umanesimo e nel Rinascimento. Comprende l'Iliade, i testi orfici, pitagorici, Eschilo, Sofocle, Platone, i platonici; e Cristo e i Vangeli e la tradizione cristiana dove è più pura. Una frase di Platone risuona sulle labbra di Cristo; un detto di Cristo spiega una pagina o un dialogo di Platone; l'Iliade avvolge tutte le cose come una grande coltre materna; un tessuto fittissimo di risonanze e di echi colma secoli di vita, che a Simone Weil appaiono miracolosi. Questa vita non è scomparsa: la Grecia non è una civiltà meravigliosa e irrimediabilmente finita, come appare anche ai più appassionati studiosi. La Grecia è viva, attuale: è il nostro irradiante presente; se immaginiamo una tragedia che parli al nostro cuore, dobbiamo pensare all'Antigone o all'Edipo re di Sofocle; se sogniamo un poema che comprenda la vita e la morte, il destino di chi vince e di chi è sconfitto, solo l'Iliade soddisfa i nostri desideri. Il primo e centrale di questi scritti, composti tra il 1936 e il 1943, è l'Iliade, poema della forza. Il 4 dicembre 1934 Simone Weil era entrata in fabbrica, come ouvrière sur presses. Non vi era entrata per ragioni umanitarie o politiche: ma per provare sulla sua carne, con quel coraggio furibondo che non l'abbandonò mai, cosa fosse la mossa ferrea della necessità. Là dominava la macchina, senza rivali: come nei versi di Baudelaire, regnava la sventura moderna, dei grandi occhi muti; lei voleva fissare lo sguardo in quella orribile apparizione. Conobbe la costrizione assoluta, la sinistra ripetizione, l'umiliazione profonda. Qualcuno le diceva all'orecchio, di minuto in minuto, senza che lei potesse rispondere: «Tu non sei nulla qui. Tu non conti. Tu sei qui per piegarti, subire tutto e tacere». Imparò cosa significa ciò che aveva letto nei libri: diventare una cosa, un pezzo di legno o di ferro. Quelle esperienze di fabbrica diventarono, grandiosamente trasformate, l'esperienza di lettura dell'Iliade, dove scoprì la prima apparizione scritta della forza nel mondo. Nell'Iliade, la forza ha due aspetti, secondo che la si veda con gli occhi di chi la subisce o di chi la impone. La forza fa di chiunque le sia sottomesso una cosa: cadavere e oggetto. Se egli è vivo, ha l'anima; e tuttavia è una cosa. Ci sono esseri sventurati che, senza morire, sono diventati cose per tutta la vita. Nelle loro giornate, non c'è alcun margine, alcun vuoto, alcun campo libero, per un soffio che venga da loro stessi. Non sono uomini che vivono più duramente di altri: si tratta di una diversa specie umana, un compromesso tra l'uomo e il cadavere. Chi ferisce, violenta, uccide, comanda, impone non è più libero dalla forza di chi ne è distrutto. Egli non la possiede: vi fa troppo affidamento e ne è inebriato, travolto dalla propria hybris. Va al di là di ciò di cui dispone. Va inevitabilmente al di là, perché ignora cosa è limitazione e misura: viene abbandonato senza rimedio al caso, e le vicende non gli obbediscono più. La storia greca aveva avuto inizio con un crimine atroce: Troia era stata distrutta e arsa; nella notte i guerrieri troiani erano stati massacrati, i bambini sfracellati contro le rocce; le donne prese prigioniere e portate in esilio. Allora, era nato un immenso rimorso, che aveva pesato su tutta la civiltà greca e, come suggerisce la Weil, su tutta la storia che gli uomini fabbricarono dopo di allora. Le lacrime di Andromaca dopo la morte di Ettore sono le lacrime che piangiamo su noi stessi come attori e vittime della storia.
La creazione del mondo non è stata, secondo la Weil, un atto di pienezza, di espansione e dilatazione di Dio, come racconta la Genesi. È stata una follia. Per darci spazio, Dio ha rinunciato a se stesso; si è limitato; si è nascosto negli abissi più remoti; si è ritirato dall'universo, come diceva Itzhak Luria. Nel luogo vuoto, che prima della creazione occupava, egli ha lasciato lo schermo tremendo della necessità: le leggi meccaniche dell'universo, il male, la miseria, l'angoscia, il lavoro, la guerra e la forza dell'Iliade, la morte violenta, la malattia, l'oggettività mostruosa della fabbrica moderna. Come uno schiavo, Dio si è incatenato con le catene della necessità, sulla quale non interviene. Ora, nel mondo, non c'è alcuna traccia di misericordia divina; e questa assenza è il segno di Dio. A causa di questa rinuncia, egli non è più l'Uno, come i filosofi troppo ottimisti avevano creduto. È lacerato tra i suoi due volti opposti e contradditori, che tuttavia costituiscono il suo unico volto: diviso tra bene e necessità, come noi siamo. Nessuno, mai, nemmeno uno gnostico, aveva portato la lacerazione e la follia, che sono cose proprie dell'uomo, così addentro il volto segreto di Dio. Il mondo è la conseguenza di questo paradosso divino. Da un lato Dio perduto, lontano, assente dalla sua creazione, dove possiamo rintracciare soltanto qualche lievissimo barlume di lui. Ma, d'altro lato, egli è onnipresente nella creazione, come nei Salmi. Tutte le cose sono una metafora e un riflesso multicolore della sua presenza. Egli è dovunque: nella bellezza, nell'ordine e nell'armonia del mondo, schiave della necessità, che la Weil celebra con gli accenti di una stoica o di una cristiana del quarto secolo. Egli è presente in ogni cosa che avviene nell'universo: nei fatti mostruosi che sono accaduti, nei fatti orribili che stanno per compiersi, i quali per l'uomo sono tutti carezze delicate e discrete della mano di Dio. L'incarnazione e la passione rappresentano il culmine della follia e dello strazio di Dio. Appena parla di Cristo, ogni traccia gnostica e manichea scompare dalla mente della Weil: Cristo è colui che si è incarnato e ha patito con un reale corpo umano. Ma in lei non c'è nemmeno una traccia del Cristo salvatore e trionfatore della tradizione cristiana: Cristo non salva nessuno. Come Osiride, è il Dio fatto a pezzi, simbolo «dello spirito disperso attraverso lo spazio e la materia». Sulla croce, egli viene abbandonato da Dio, che verso di lui diventa gelido come la necessità; non c'è parola nei Vangeli che abbia tanto colpito la Weil quanto il grido di disperazione del Dio abbandonato. Come diceva Eschilo, «mediante la sofferenza e la conoscenza». «La croce del Cristo ribadisce la Weil è l'unica forza della conoscenza». Il solo pensiero umano degno di questo nome è lacerato, contradditorio, aguzzo, aforistico, come i due pezzi di legno levati inutilmente contro il cielo. La tragedia della croce si ripete nella sventura, l'esperienza essenziale che ogni uomo fa di se stesso. Non c'è nessuna sensazione o sentimento che la Weil abbia espresso con tanta lucidità e intensità, con tanta appassionata partecipazione e orrore e riconoscenza come se per tutta la vita, malgrado le dolcezze discese dal cielo e gli sguardi innamorati alla natura, non fosse stata che «un poco di carne nuda, inerte e sanguinante, abbandonata senza nome sull'orlo di un fossato». La sventura è una di quelle presse che la Weil aveva conosciuto in fabbrica: un meccanismo freddo, metallico e implacabile che domina il corpo, ostacola l'immaginazione, incatena il pensiero, ghiaccia tutti coloro che tocca. Come con un ferro rosso, imprime nello sventurato il disprezzo, il disgusto, la repulsione di sé, una sensazione di colpa e di lordura più grave di quella che suscita il delitto. Lo rende succube e complice, inietta un veleno di inerzia, si fa amare e desiderare, uccide le parole che potrebbero esprimerla; martella l'anima, la degrada, la riduce a una cosa, l'annienta. In quei momenti di desolazione, Dio abbandona chi soffre, come aveva abbandonato Giobbe e Cristo: «Egli è più assente di un morto, più assente della luce in un carcere completamente tenebroso». Ma, subito dopo aver descritto con parole terrificanti la sventura, grazie a uno di quei capovolgimenti totali che costituiscono la chiave del suo pensiero, la Weil intona l'elogio della sventura. Con una specie di empietà nella voce, afferma che a causa della sofferenza «l'uomo è superiore agli dei». «Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire per non essere inferiore all'uomo». «Se in questo mondo non ci fosse sventura, potremmo crederci in paradiso, orribile possibilità». Se sappiamo scendere in fondo alla sventura, come Omero e Sofocle, senza cercare consolazioni o illusioni, senza parole vane e bugiarde, lì, proprio in fondo all'abisso, in quelle profondità dove stanno le cose supreme, ritroveremo la sofferenza redentrice, la verità, la bellezza, la misericordia e l'amore di Dio.

mercoledì 26 marzo 2014

La forma romanzata del terrorismo

Bruno Pischedda
Terrorismo senza romanzo
Il Sole 24 ore, 17 marzo 2014

È un giovane studioso proveniente dall'università di Trento, Gabriele Vitello; e non si può dire che il suo Album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana scansi taluni fraseggi acerbi e riduzionismi parapolitici. Tuttavia l'indagine che egli conduce ha un sicuro valore storiografico; si esercita su un corpo di testi singolarmente vasto, compone riflessioni psicosociali con una serrata analisi tematica e figurale. Soprattutto dispone la materia su un doppio versante cronologico: da un lato i precursori del romanzo a sfondo terroristico (la Ginzburg di Caro Michele, Sciascia del Contesto, Moravia con La vita interiore, Parise per L'odore del sangue). Dall'altro, facendo data agli anni Novanta, una profluvie di opere che rendono la violenza settaria un pimento quasi obbligato nel quadro delle patrie lettere: Consolo, Tabucchi, Ortese, Carlotto, Genna, e ancora Givone, Sartori, fino a Culicchia, Lidia Ravera, Walter Veltroni e altri molti.
Validamente introdotto da Raffaele Donnarumma, il volume insiste invero su un particolare e frequentatissimo sottotipo, il romanzo terroristico di angolatura familiare. Nonostante l'argomento trascelto, esso sarebbe caratterizzato da un moto a ritroso, che procede dagli istituti di convivenza collettiva verso un'angusta intimità borghese e piccolo borghese. Un rinculo valido senz'altro a occultare le inquietudini seminate dai gruppi combattenti tra il popolo e settori non infimi di classe operaia. Ma che in ogni caso favorisce alcune costanti compositive: il primato drammaturgico accordato ai terroristi anziché alle vittime; l'ellissi o la trasfigurazione nel ricordo delle loro gesta cruente, ovviando agli estremi di un "realismo traumatico" più consono al noir; l'aggirarsi in queste storie di tanti intellettuali-scrittori, costantemente alle prese con difficoltà cognitive e crisi di ruolo; la sovrabbondanza delle figure femminili, infine, latrici di un perturbante che ha nel sesso la sua metafora maggiore (un sesso concepito dapprima come liberazione, Marcuse, Reich, e ora veicolo di fantasie mortuarie, autodistruttive, in sintonia con il rapido declinare dei movimenti di protesta).
Sono molte le questioni sollevate da Vitello, inteso a vagliare il ricco immaginario che in questi romanzi si esprime. Tra di esse, una ha però valore strategico, e riguarda l'obsolescenza dello schema edipico che per lungo tempo ha sovrinteso alla chiarificazione di simili fenomeni. Le scelte dei terroristi, se esaminate in prospettiva parentale, non valgono più come rivolta contro un padre autoritario e castratore; si presentano anzi come reagente alla sua "evaporazione", alla sua assenza o fondamentale inettitudine. È insomma su una pista lacaniana, ravvivata dalle ricerche di Luigi Zoja e Massimo Recalcati, che il giovane autore s'incammina con maggior convinzione. Edipo – spiega – poteva ben fungere da grimaldello per autori modernisti come Kafka, Pirandello, Tozzi o Svevo; la cui aggressione nei confronti dell'imago paterna consentiva un'efficace sintesi di "contenuto" e "forma del contenuto".
Ora una simile opportunità espressiva sembra perduta, e ci restano dozzine di testi impegnati a ricucire con una buona dose di nostalgia i legami infranti. Eccettuando i lavori di Parise* o di Sartori**, per i quali è spesa qui qualche parola di apprezzamento, ne viene una visione di tipo consolatorio, quando non decisamente regressivo.
D'accordo, nessuno dei romanzi in esame, familista o noir, si è poi affermato come il romanzo del terrorismo. E mancando un capostipite prestigioso, la galassia dei testi affini non ha poi dato luogo a un vero e riconosciuto genere. Andrebbe tuttavia segnalato un più ricco plesso di problemi: affinché si stabilisca un genere, non basta la presenza di un tema potentemente sentito, di grande importo simbolico; e neppure è prefigurabile in alcun modo l'insorgere di un capolavoro che funga da elemento catalizzatore. Necessita allo scopo un talento d'eccezione, quindi l'apporto non secondario del pubblico leggente, della critica; occorre che sia fausto il contesto in cui esso si inscrive. Nel secondo Ottocento mancò a questo obiettivo il romanzo cosiddetto parlamentare; lo stesso si può osservare negli anni Settanta del Novecento per il romanzo apocalittico, pure di lì in poi prediletto dai nostri scrittori. Vitello porta ad esempio positivo il tema della lotta antifascista, che certamente parve suscitare la costituzione di un genere, perché implicava collettività, epos. Tuttavia i manuali preposti prendono in considerazione la letteratura resistenziale, non il romanzo resistenziale.
I moti che nell'universo del romanzo conducono a sottospecie ben identificabili e dotate di prestigio restano in realtà per buona parte oscuri: conosciamo le leggi generali della gravitazione letteraria, non le dinamiche minute da cui emergono o non emergono singoli agglomerati planetari. Ci manca, per così dire, una teoria unificata, e nemmeno sembra che oggi siano in molti a cercarla.
D'altronde – ultima questione degna di nota –, Vitello chiede molto al romanzo terrorista. Vuole che abbia un significato analitico, conoscitivo, così da «influire sulla nostra percezione del passato». A indisporlo non è soltanto il tragicismo degradato, o la «figuralità nebulosa e narcisisticamente autoreferenziale» a cui tanto spesso si concede. Il punto è il travisamento sistematico di ciò che il terrorismo è stato in termini storici. Vuole insomma il romanzo realista, nella fattispecie del romanzo sociale: ahimè, uno tra i sottotipi più misconosciuti della nostra tradizione recente; ma unico, a suo avviso, in grado di preservare il retaggio letterario dall'invadenza mediatica, filmica, televisiva. È un'ipotesi diffusa, e gravata di alquanto massimalismo deprecatorio. Occorreva in ogni caso articolarla più nitidamente, per discuterne meglio, se non altro.

--------------------------------------------------------------------------------------------------
(*) Qui il riferimento è a L'odore del sangue, su cui si può vedere http://www.italialibri.net/opere/odoredelsangue.html
(**) 
La “guerra” è la protagonista del romanzo di Giacomo Sartori (Anatomia della battaglia), incarnata dalla figura di un nonno forse colpevole di deportazioni di prigionieri e forse anche di ebrei, un padre fascista, “soldato” in battaglia contro gli altri e contro se stesso per tutta la sua vita, e un figlio che all’età di quindici anni entra a far parte di un gruppo di estrema sinistra e partecipa alla lotta armata.
Il figlio ormai quarantenne racconta la storia della sua famiglia, racconta la sua esperienza di terrorista che si inserisce tra le tante esperienze vissute nel corso della vita nel tentativo di costruire la sua identità, di formarsi come individuo che vuole sradicare l’odio tramandatogli dal padre e dal nonno.
Solo il desiderio di scrivere, vivo in lui fin da bambino, e la sua realizzazione in età adulta riesce, in parte, a farlo uscire da quella sorta di torpore e di passività che lo hanno caratterizzato nelle sue scelte di vita anche quella di partecipare alla lotta armata. Il racconto si costruisce su una continua alternanza di passato e presente, spiazzando a volte il lettore che non capisce bene dove si trova. (Sabina Gola)

 ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------
 l’Unità 4.4.14
Che cosa è successo veramente durante gli «anni di piombo»?
risponde Luigi Cancrini


Ripropongo alcune domande sugli «anni di piombo». Com’è possibile che, in un mondo dominato da Gladio, Cia, P2 etc, si siano potuto costituire organizzazioni tipo Brigate rosse e Prima linea? I pentiti muoiono in carcere. E gli irriducibili dove sono sistemati? MICHELE SCHIAVINO
Un romanzo di Alberto Garlini, La legge dell’odio, ricostruisce in modo a mio avviso molto efficace quello che accadde in quel periodo. Brigate Rosse e Prima Linea erano organizzazioni di estrema sinistra infiltrate e manovrate, come i loro avversari dell’estrema destra, dai servizi segreti. Che usavano le loro follie per organizzare attentati e rapimenti utili ad alimentare un clima di tensione e a eliminare o intimidire i protagonisti di un cambiamento politico in atto nel tempo in cui i successi elettorali del Pci facevano paura all’ortodossia della guerra fredda e dei blocchi contrapposti. Il caso Moro in cui il fanatismo di un gruppo di pazzi venne utilizzato per evitare che i comunisti partecipassero al governo del Paese è esemplare da questo punto di vista. I gruppi eversivi erano tutti infiltrati da agenti dei servizi segreti, d’altra parte, come confessò a me l’ufficiale della Digos che mi avvertiva di un possibile attentato contro la mia persona nel ’79. Senza spiegarmi perché i componenti del gruppo che mi aveva «messo in lista» insieme ad altri (giudici ed esponenti politici) non venivano semplicemente arrestati e solo «sorvegliati». Come accadeva allora in modo sistematico con tutti gli utili idioti dell’estremismo. Viene da qui il «perdonismo» del dopo? Probabilmente sì. A non capirlo o a non volerlo capire sono stati solo gli «irriducibili» che stanno ancora in carcere o che non hanno comunque mai patteggiato con chi li aveva usati e condannati.

domenica 23 marzo 2014

Marco Travaglio. Un ritratto

Marianna Rizzini
Il signor Manette
Il Foglio, 26 aprile 2010


... Se non ci fossero gli aerei, la memoria di Travaglio, a suo agio negli archivi, non troverebbe il pane che trova persino nel tempo libero - obbligato tra una presentazione e l’altra, perché è in aereo che Travaglio stuzzica vecchi colleghi e vecchi amici alla gara dell’aneddoto - Alba Parietti, ex compagna di asilo ed elementari nella natìa Torino, dice di aver riportato alla mente episodi dimenticati grazie a Marco che un giorno in volo le ha “ricordato tutto” (sorge il dubbio che Travaglio si sia ispirato al Nanni Moretti di “Bianca”, munito di schedario su vicini e conoscenti). La piccola Alba e il piccolo Marco erano entrambi allievi delle suore, entrambi “infatuati della meravigliosa suor Nazarena”, dice Parietti, e frequentavano gli stessi giardinetti. Marco, di qualche anno più giovane di Alba, appariva a quell’epoca “uguale a ora, con qualche capello in più”, ed era molto dispettoso. I due, passati dall’asilo alle elementari “Gaspare Gozzi”, frequentavano “una zona elegante della città, nei pressi di Corso Quintino Sella”, e il pomeriggio si ritrovavano “nel parco al centro della grande piazza”. Appena passava Alba Parietti, già appariscente, già un po’ ragazza, Marco Travaglio e i suoi amici – tutti più piccoli di lei – tiravano pallonate. Marco era “magro e riservato”. Alba “se la tirava un po’”. Alba oggi pensa che Marco “indossi la maschera da cattivo, ma in realtà sia un caro amico e un vero torinese: impenetrabile e aristocratico”. Di sicuro c’è che Marco, crescendo, non ha abbandonato due tipiche abitudini da giardinetto: lo sfottò sui difetti fisici (da Al Tappone-Berlusconi in giù) e la mania di appioppare appellativi di non sempre sicuro effetto comico. E insomma non si capisce come mai nel mondo di Marco Travaglio la gente, i luoghi e i gruppi politici non compaiano quasi mai col proprio nome. Ecco allora James Bondi, Anna La Garofana, Lucky Luciano (Luciano Moggi), Polito Margherito, Zebra nel Pugno, Angelo Panegrigio, Viale Pizzini, “quello con le méches” (il giornalista Filippo Facci).
Va detto che non ci si salva neppure quando Travaglio fa i nomi per esteso – ne sanno qualcosa Walter Veltroni (uno che secondo Travaglio era “in coma vigile” agli albori del Pd), Gianni Cuperlo (definito “uno sfigato”), Giovanni Floris (a lungo chiamato “Vespino”, con somma disapprovazione per Vespa) e Fausto Bertinotti (a lungo additato per la partecipazione a feste nobiliari e per l’amicizia della moglie con Valeria Marini). Lui, invece, Marco Travaglio, appare pressoché intoccabile, sebbene non ancora intoccabile quanto Roberto Saviano – persino i nemici di Travaglio, interpellati, premettono “sia chiaro che nutro una grande stima professionale per lui” (un osservatore burlone nota: "Ti credo, quelli magari pensano: ‘Chissà che cosa tira fuori dall’archivio, con o senza montaggio creativo"). L’intoccabile Travaglio arriva nello studio di Annozero con il quadernino degli appunti in mano, serissimo, e il pubblico esplode in boati di puro amore – a Michele Santoro arrivano caldi ma più contenuti applausi. L’intoccabile Travaglio si rende spesso impermeabile all’ironia (non la sua, profusa in ogni direzione con mannaia pignola, bensì quella proveniente dai suoi detrattori, considerata il più delle volte vile offesa o balla tra le balle). Pochi, ma degni di nota, i cedimenti di umana vanità: Travaglio mette cravatte enormi, compra giacche spallute e taglia i capelli che un giorno Maria Laura Rodotà definì con orrore “lunghi dietro”. A volte Travaglio è colto da impeto hollywoodiano. Dice: “Nel tempo libero se voglio cazzeggiare cazzeggio” e infatti quando va nello studio di Victoria Cabello bacia tutti, si fa truccare come un attore, si guarda nello specchio senza sorridere, controlla lo stato del fondotinta, si traveste da Robespierre o da russo col colbacco e balla con contorsioni rigide e piegamenti ingessati nel video-parodia di “Cerco un centro di gravità permanente” – forse perché è amico di Franco Battiato. Franco Battiato comunque ha ricambiato (pare infatti che un giorno abbia detto: “Sono un Marco Travaglio un po’ più bastardo”).

A monte dell’intoccabilità, Travaglio ha attraversato
un’infanzia studiosa e devota con papà ingegnere e mamma dell’Azione cattolica che guardavano con disapprovazione i “ladroni”, anzi i “latroni” (con accento torinese) che “cominciavano a vedersi in Italia”. Questo almeno racconta un amico di famiglia (e dunque pare di famiglia l’ossessione in scala industriale per i veri o presunti lestofanti che popolano l’universo travagliesco). D’inverno si andava in parrocchia e d’agosto, in cerca di frescura, si trascorreva qualche giorno nella frazione di San Martino di Castiglione Torinese, in una casa non appariscente e non distante dalla tenuta di un cognato degli Agnelli. Il piccolo Marco e suo fratello Franco cantavano, leggevano e suonavano in chiesa, “composti e gentilissimi”. Marco ha portato avanti l’impegno parrocchiale facendo talvolta il catechista, Franco ha continuato a suonare anche in età adulta, non per la chiesa ma per il teatro – sul suo curriculum c’è scritto “compositore e creatore di liriche per musical” (dal “Fantasma dell’Opera” a “Jesus Christ Superstar”), “regista di pop-opere dedicate a Marilyn Monroe” e “assistente alla regia” con Dario Fo. Tutto si tiene, ché pure Marco, come il fratello, adora la coppia Dario Fo-Franca Rame e pure Franco, come il fratello, ha collaborato a Repubblica.

Troppo grande per continuare a tirare pallonate ad Alba
Parietti, il Marco Travaglio dei giardinetti divenne, al liceo, il Marco Travaglio ossessionato dai fatti (non sono bravo io, dice oggi, sono gli altri che si fermano alle opinioni). All’istituto salesiano Valsalice, infatti, il giovane Marco, ragazzo dinoccolato che vestiva senza troppe concessioni alla moda, era noto per la memoria formidabile sulle date in storia e sui dati in geografia, cosa che gli tornò utile nei primi anni di carriera giornalistica al settimanale cattolico il Nostro Tempo, quando al momento opportuno se ne usciva con tabelle aggiornatissime paese per paese. Nel mastodontico edificio Valsalice, arroccato in cima a una collina, in un’ala del palazzo a ferro di cavallo circondato dagli alberi, Travaglio aveva studiato il latino e il greco e si era preparato con sforzo matto e disperatissimo alla doppia laurea storico-letteraria (ma a voler interpellare gli ex professori sui trascorsi scolastici dell’ex alunno ci si imbatte in una sequela di amabili e prudenti “niet”: “Il professore non c’è”, “ho lasciato detto ma il professore forse non ha visto l’appunto”, “la farò richiamare se il professore decide che è il caso di parlare”). Poi Marco incontrò (tramite ambienti catechistici) la futura moglie Isabella, ragazza gentile e sobria – anche il matrimonio fu gentile, sobrio e poco alcolico, su un colle ai margini della città. Ai tempi in cui Marco cominciava a collaborare al Nostro Tempo, sotto la direzione di Domenico Agasso e Maria Pia Bonanate, la giovane Isabella era impiegata in un’agenzia viaggi nel centro di Torino. Marco scendeva a rotta di collo con una Panda rossa piena di carte e borsoni giù dalla collina di Chieri, andava a prendere Isabella o si industriava per qualche articolo. A turno con altri giovani redattori, faceva il ragazzo di bottega che assembla pagine, scrive pezzi, mette titoli, compila didascalie. Nello stesso palazzo, in Corso Matteotti 11, aveva sede Telesubalpina. Uno degli intervistati abituali della piccola tv, Massimo Introvigne, si ritrovò un giorno in studio un Marco Travaglio che faceva domande sulla musica satanica, oggetto di una ricerca dello stesso Introvigne – il quale tempo dopo, durante una tavola rotonda, fu colpito da quella che oggi chiama “metamorfosi di Travaglio da ragazzo semplice a simil-aristocratico che disprezza ‘er Pecora’”.

Negli anni degli esordi torinesi Travaglio, allora amico di Mario Giordano, si occupava soprattutto di esteri. Poi, con il passaggio al Giornale, di calcio – Giordano, che all’epoca era il “secondo” di Travaglio, ricorda le domeniche di spogliatoio al seguito della squadra minore, con Travaglio a tallonare la squadra maggiore. Fu in quegli anni che Travaglio cominciò a collezionare le “fanfaluche dei cronisti sportivi poi oggetto di due suoi libri”, ricorda l’ex collega Beppe Fossati, allora corrispondente da Torino (con Travaglio vicecorrispondente). In anni più recenti, lo juventino Travaglio è stato visto allo stadio a “gufare” la Juve in segno di protesta contro la  triade Moggi-Bettega-Giraudo – ed è stato in chiave anti Moggi che, due giorni fa, Travaglio ha scritto sulla sua personale lavagna dei cattivi i nomi di Piero Ostellino, Beppe Severgnini e Pierluigi Battista, con il giudizio seguente: “Come se un giornalista, solo perché parla di calcio, potesse ridursi a trombetta della squadra del cuore, a prescindere dai fatti”.
Travaglio e Giordano a Torino erano amici, Travaglio e Fossati pure – poi Travaglio ha paragonato il Giornale diretto da Giordano a Topolino, e ha descritto il Fossati d’antan come “un bravo e simpatico” scansafatiche che lo faceva scrivere al posto suo dandogli cinquantamila lire. C’è da dire che Fossati, interpellato in proposito, ci ride su: “Nonostante quella battuta, io lo stimo molto. E’ un bravo inquisitore. Me lo ricordo come un ragazzo sveglio, volenteroso, spiritoso. Per me era come un fratello minore. L’ho perso di vista quando è diventato professionista, e negli anni ci siamo incontrati poco. ‘Ciao Beppone’ mi diceva ogni volta che ci si incrociava”.

Qualcuno a Torino ricorda un Travaglio che si occupa di economia anche nel pieno della partita Berlusconi-De Benedetti, con toni non teneri verso Carlo De Benedetti (Travaglio però su De Benedetti ha pronta la frase: ha avuto i suoi guai con la giustizia ma ha ammesso quel che doveva ammettere). La fissazione giudiziaria, per Travaglio, si sedimentò dopo l’incontro con Marcello Maddalena e si nutrì delle conversazioni tra colleghi alla redazione locale di Repubblica – si mangiava alla stessa tavola, si faceva sport (“affittavamo un campo al Circolo della stampa, e Marco arrivava trafelato, spesso in ritardo”, racconta l’ex collega Davide Banfo) e si confrontavano dati sul processo Fiat, oggetto di un libro di Marco Travaglio e Paolo Griseri.
Soltanto al Giornale di Indro Montanelli Travaglio si fece notare anche come riepilogatore di fatti e recuperatore di citazioni. L’allora vicedirettore Paolo Granzotto fornisce l’esempio pratico: “Crollava una diga e Travaglio in men che non si dica scriveva un pezzo su tutte le dighe crollate negli ultimi vent’anni. Saliva agli onori delle cronache un politico e Travaglio aveva pronte tutte le frasi dette dal politico nel decennio appena trascorso. Montanelli era molto soddisfatto”. Sia Paolo Granzotto che Mario Cervi ricordano un Travaglio “talentuoso”, “ambizioso” e già propenso ad autoeleggersi se non allievo di Montanelli – guai a dirlo: Travaglio dice che nessuno può essere allievo di Montanelli – quantomeno uno dei pochi e forse l’unico fedele esegeta e seguace di Montanelli. Sul rapporto Montanelli-Berlusconi Travaglio ha scritto un libro di quattrocento e passa pagine (“Montanelli e il Cavaliere”) con citazioni iniziali di Leonardo Sciascia, Giorgio Gaber e Alexis de Tocqueville e con introduzione autobiografica e nostalgica sul primo incontro con Indro: lo scrittore Giovanni Arpino portò il giovane Travaglio a Milano in treno a conoscere “il Vecchio”, mangiarono al ristorante, il Vecchio quando si vide davanti Travaglio lo chiamò immediatamente “mammòzio” e Travaglio, già grato di quell’attenzione burbera e affettuosa, ammutolì e quasi ebbe un mancamento di fronte a un simile esempio di giornalismo (fu sentendo parlare il Vecchio, dice un amico di Travaglio, che Travaglio prese il vezzo di adoperare il termine dimenticato “strologare”). Il resto, si legge nel volume, è grande onore e ancora grande onore di collaborare con il Vecchio, è il Vecchio nel suo ufficio con il merlo regalatogli da Angelo Rizzoli, è “mobbing” dal Cavaliere, è lacrime e melodramma dei redattori di fronte al Vecchio che lascia la direzione e gioia immensa quando il Vecchio porta con sé il giovane Travaglio alla Voce. Esistono altre versioni, compresa quella dell’allora vicedirettore Granzotto, sulla fine dell’esperienza montanelliana al Giornale (una versione che diverge dalla tesi del “mobbing”, con cronaca dell’assemblea dell’8 gennaio 1994, giorno in cui Berlusconi intervenne davanti alla redazione). Esiste un filmato santoriano in cui Montanelli telefona alla trasmissione “Il Raggio Verde” e dà ragione a Travaglio. Esiste un’intervista fatta da Laura Laurenzi a Montanelli nel 2001, in cui Montanelli si riferisce alla versione di Granzotto e dice: “Paolo Granzotto scrisse un resoconto di come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca, coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io”. Esiste la contestazione di Travaglio a Granzotto nella riedizione di “Montanelli e il Cavaliere”: Granzotto non fu “testimone oculare esclusivo”, scrive Travaglio; Montanelli quel giorno non voleva far salire in redazione il Cavaliere, aggiunge Travaglio citando l’ex capo del comitato di redazione Novarro Montanari.

Sia come sia, esiste soprattutto un Travaglio che dalla morte di Montanelli in poi parla da erede spirituale dell’unico “vero liberale” – a una commemorazione montanelliana a Perugia, ricorda Mario Cervi, Travaglio prese la parola e raccontò di quando Montanelli, accompagnato dal Berlusconi nel “mausoleo” di Arcore, si produsse “in scongiuri piuttosto plateali di fronte al Cavaliere che proponeva di riservargli una tomba accanto ai suoi cari”. “Travaglio non è da sottovalutare né come talento né come spregiudicatezza”, dice Cervi. Quanto alle prefazioni (due) che Montanelli scrisse per Travaglio, c’è chi dice, tra i vecchi colleghi, che “Montanelli era troppo buono e non sapeva dire no” e chi invece assicura che “Montanelli voleva un bene dell’anima a Travaglio e lo stimava moltissimo”. A ogni modo, nella prefazione del 1995 al travagliesco “Il Pollaio delle Libertà”, ripubblicata dallo stesso Travaglio, Montanelli prende in giro l’ex cronista tuttofare, definito scherzosamente un “grande inquisitore da far impallidireVishinsky”, e si diverte attorno al suo misterioso archivio: sarà per non doverlo trasferire che Travaglio, “ragazzo allegro, disposto a qualsiasi servizio di cronaca”, si è sempre rifiutato di traslocare da Torino a Milano?

Federico Orlando, ora condirettore di Europa
e allora condirettore del Giornale e della Voce, ricorda un Travaglio “che da Torino inviava ottime corrispondenze sulla Fiat, tanto che ricevemmo sollecitazioni a calmarlo”. Travaglio dice sempre che Montanelli non si piegò neppure alla Fiat e, con somma soddisfazione, si definisce un giornalista che non ha avuto paura di parlare di Fininvest, di Fiat e di Massimo D’Alema (sottinteso: l’unico o quasi l’unico). Ci fu un giorno in cui Travaglio, collaboratore dell’Unità, salì su un palco girotondino e, parlando di governo D’Alema, disse (con poco piemontese sfoggio di parolaccia): “Sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo e ne sono usciti ricchi”. Il Corriere della Sera corse a intervistare i colleghi di Travaglio all’Unità (non il direttore Furio Colombo che intanto aveva messo in pagina un’intervista di D’Alema), con il risultato di riportare questo commento del caporedattore esperto Nuccio Ciconte, ora caporedattore al travagliesco Fatto: “Se Travaglio dice che D’Alema e i suoi furono dei disonesti deve spiegarci come e perché. Deve fare il giornalista, se no…”.
Vecchie storie, comunque. Oggi Ciconte e Travaglio convivono senza problemi al Fatto, dove Travaglio, fiero di stare nell’open space, giunge il giovedì, prima di Annozero. Con la mente invece è presente tutti i giorni e più che altro nottetempo, quando ingolfa la casella mail dei redattori con note di commento ai pezzi o con suggerimenti divisi per competenza (Travaglio di pomeriggio presenta libri, fino alle cinque del mattino lavora e fino a mezzogiorno dorme). Chi frequenta il Fatto descrive un Travaglio ansioso “di far lavorare i giovani” e desideroso di parlare di cinema con i giovani – soprattutto di Woody Allen.

Fatto salvo l’episodio delle “pezze al culo”, Travaglio all’Unità di Colombo e Padellaro si trovò benissimo, talmente bene che alla nomina di Concita De Gregorio scrisse un’invettiva contro Renato Soru: “L’editore dovrebbe spiegare in maniera chiara e trasparente, ai lettori e alla redazione dell’Unità, i motivi per i quali Antonio Padellaro lascia la direzione del quotidiano… di solito i direttori vengono mandati via se hanno fatto male, per la linea editoriale o per i conti. Sui conti, nulla si può rimproverare a Padellaro, costretto a fare un giornale con quattro soldi, le classiche nozze con i fichi secchi. Non riesco a capire quali siano le ragioni per le quali Padellaro debba andar via. La parola multimedialità non mi dice niente e, anzi, mi fa venire l’orticaria”. Travaglio aggiunse anche la frase “il problema non riguarda Concita De Gregorio, ottima giornalista”, fosse mai che qualcuno potesse alambiccare su una sua riserva sulla medesima.
Nella vita di Marco Travaglio ci sono due costanti: il tennis e le vacanze con il pm Antonino Ingroia. A volte può comparire, come variante, una piscina; a volte Travaglio si adombra a sentir parlare delle sue vacanze (anzi di “ferie”, come le chiama lui forse in omaggio alla Torino delle fabbriche chiuse d’agosto). Passi per la vacanza di Travaglio con moglie e figli e Ingroia nella località turca di Bodrum, l’antica Alicarnasso, oggi meta di aspiranti passeggeri di caicchi, tedeschi in cerca di sole e visitatori di caravanserragli in pantaloncini corti. A quella vacanza fece accenno Filippo Facci su Libero, in risposta a una lettrice che, avendo notato Ingroia e Travaglio seduti allo stesso tavolo di un ristorante in corso D’Azeglio a Torino, aveva pensato “che i due, alla faccia dell’imparzialità della magistratura”, potessero, tra una portata e l’altra, discorrere degli argomenti dei libri di Travaglio. Sulla vacanza in Sicilia, però, Marco Travaglio non tollera. Il tutto ebbe origine non da un articolo di Facci bensì da un articolo del 2008 di Giuseppe D’Avanzo, vicedirettore di Repubblica (giornale con cui Travaglio allora collaborava). Travaglio era stato in tv da Fabio Fazio e aveva parlato di Renato Schifani e di presunte amicizie in odor di mafia. A quel punto D’Avanzo tirò fuori la vacanza sicula per contestare a Travaglio un “metodo di lavoro” da “agenzia del risentimento” (“Travaglio declina la conoscenza di Schifani con un tizio, quattro anni dopo indagato per mafia, come prossimità alla mafia”, scrisse). Il problema della vacanza non stava nelle località scelte da Travaglio e Ingroia nel 2002 e nel 2003 – trattavasi di due ridenti stazioni frequentate, dice un locale, “soprattutto dagli impiegati di Bagherìa”: Altavilla Milicia, zona di agrumeti, spiagge sabbiose e colline lussureggianti, e Trabìa, zona di produzione intensiva di spaghetti. Il problema stava bensì nel terzo villeggiante, il maresciallo della Finanza Pippo Ciuro, compagno di stanza di Ingroia al palazzo di giustizia di Palermo, successivamente condannato per aver favorito un prestanome di Bernardo Provenzano.

Ad Altavilla e Trabìa, nelle sere d’agosto, si andava a cena insieme, si chiacchierava a bordo piscina e ci si scambiava, all’occorrenza, macchinette del caffè e cuscini – merce rara in un residence dove già erano passate orde di vacanzieri selvaggi. Travaglio ignorava che Ciuro fosse già oggetto di indagine, Ingroia, si è poi scritto, doveva far finta di nulla per non compromettere le indagini (e Ciuro, in un recente colloquio palermitano riportato da Facci su Libero, ha detto che a quei tempi neppure Ingroia sapeva). Travaglio, dopo la pubblicazione dell’articolo di D’Avanzo, dimostrò online, con tanto di numero di assegno e di transazione Diners, che, al contrario di quanto era stato ventilato, il favoreggiatore di Provenzano non gli aveva mai offerto il soggiorno siciliano (pagato da Travaglio fino all’ultimo centesimo e persino, scrisse Travaglio, in una cifra superiore a quella pattuita). D’Avanzo disse di aver tirato fuori la storia in omaggio al principio del “tu quoque” (dopo aver appunto sentito Travaglio parlare di Schifani):  “Aver trascorso una vacanza con un tipo che poi si è rivelato un criminale, e dunque in piena innocenza e senza alcuna consapevolezza, vuol dire davvero essere per riflesso un criminale?”, scrisse il vicedirettore di Repubblica.

Più di un lettore, nel frattempo, fu catturato da futili dettagli
: la vacanza in quel residence isolano costava pochissimo, circa mille euro per quattro persone, roba da fiondarsi in massa, mentre l’albergo a cinque stelle era veramente troppo esoso, come assicurava Travaglio. Tutto pareva in teoria sistemato (persino Ciuro, nel suddetto colloquio con Facci, oggi dice che la faccenda delle ferie pagate a Travaglio dal favoreggiatore di Provenzano “è una minchiata di quelle grosse”). In pratica, però, a Travaglio non piace sentire la frase “dai, sarà capitato anche a te di frequentare persone che non si sarebbero dovute frequentare”. Nicola Porro, del Giornale, l’ha detta durante una puntata di Annozero in cui Travaglio contestava a Guido Bertolaso il non aver vigilato su chi sedeva nella stanza a fianco. Senza rimedio, l’arrabbiatura di Travaglio contro Porro e contro Maurizio Belpietro si è estesa quasi quasi pure a Michele Santoro che, smussando e smitizzando, non aveva difeso il suo opinionista a spada tratta (seguiva scambio di lettere aperte Travaglio-Santoro sul Fatto).
Cose che non succedono, queste, a bordo campo (da tennis). Perché il tennis per Travaglio è terreno idilliaco, fatto di rare pause al circolo e partite in doppio con l’amico Claudio Sabelli Fioretti contro Giancarlo Caselli e Salvatore Bragantini. Travaglio e Sabelli si conoscono da quando Sabelli dirigeva Cuore, si presentano reciprocamente i libri e restano in contatto a distanza (vivono in città diverse). Sabelli dice che i libri di Travaglio “uscivano nel silenzio generale delle sezioni politiche e culturali dei quotidiani. Scalavano le classifiche senza che nessuno ne parlasse. Marco girava come una trottola facendo anche tre o quattro presentazioni al giorno. Il suo successo se l’è conquistato da solo e non deve ringraziare nessuno. Avrebbe potuto montarsi la testa ma non l’ha fatto”. La prima intervista di Sabelli a Travaglio (per il Magazine del Corriere) si svolse, racconta Sabelli, “il giorno di Ferragosto, a casa mia in montagna sotto una grande betulla”. La seconda intervista, per il libro “Il rompiballe”, a casa di Travaglio “sulle colline di Superga”. Visto dal lato Sabelli, Travaglio è “sempre stato amichevole, sereno, tranquillo, sicuro di sé, forte di una memoria di ferro. Si vede che è felice del lavoro che fa, contento del successo e anche della visibilità che ottiene. Ha un grande senso del ritmo e dei tempi comici”.

Tra mille lodi, giunge a Travaglio da Sabelli un unico mite appunto: “Ultimamente appare più opinionista che cronista. Io lo preferisco quando riporta, registra, ricorda. Quando non consente alla gente di raccontare bugie grazie alla sua incredibile memoria”.
Chi non ha la memoria di Travaglio ricorda a spanne che Travaglio, oggi estimatore di Gianfranco Fini, anni fa parlò di una metamorfosi di Fini da “camerata a cameriere” e che Travaglio, un tempo elettore della Lega, ha più volte scelto nell’urna Antonio Di Pietro – adesso però preferisce Beppe Grillo e Luigi De Magistris. Soprattutto, oggi Travaglio si sente “ospite” della sinistra extra Pd. “E come fa?”, si chiede un vecchio conoscente, sottolineando “la deliziosa tortura cui si sottopone Travaglio trascorrendo le sue giornate in mezzo a schiere di neo gruppettari post sessantottardi modello Sabina Guzzanti. Come fa a reggere, lì, lui che è una specie di signor Veneranda, di destra in senso piemontese, tutto legge, ordine, rigore, guardie, ladri e frugalità?”.