martedì 4 marzo 2014

Restare se stessi, la lezione di Montaigne

Franco Marcoaldi
Coscienza e libertà l’eterna giovinezza del saggio Montaigne
Il pensiero del maestro riletto da Zweig in fuga dal nazismo

la Repubblica, 4 marzo 2014 

È proprio vero: i classici, sotto vesti ogni volta rinnovate, si offrono nelle modalità più diverse alle generazioni di lettori che si succedono nel corso del tempo. Prendete il Montaigne riletto con straordinario acume e passione da Stefan Zweig (Castelvecchi, traduzione di Ilenia Gradante). Il grande scrittore viennese di origine ebraica lo elegge a nume tutelare giusto nel pieno della furia nazista e del conflitto mondiale. Quello e solo quello, sostiene, è il momento giusto per riaprire le pagine degli Essais, perché il parallelo storico con la catastrofe in atto è immediato, evidente. Anche l’adolescente di Bordeaux era circondato dalla morte e dalla bestialità: persone torturate, impalate, bruciate vive. Poi era arrivata la guerra civile francese, e con essa il fanatismo religioso: ogni certezza dissolta, ogni ragionevolezza scomparsa.
Ebbene, di fronte a questo insensato furore, che fa Michel de Montaigne? Si ritira nella sua torre e si concentra su un unico problema: come mantenere intatta, malgrado tutto, la propria dignità e purezza di spirito. «La più grande arte: restare se stessi», scriverà nei Saggi.
Non c’è nulla di roboante o di eroico nel suo pensiero, e tantomeno nella sua azione. Il Nostro corre semmai il rischio di apparire «indeciso e codardo», giacché in un tempo che reclama l’aut aut, lui fa di tutto per mimetizzarsi con discrezione. Epperò l’onestà e la forza con cui difende la propria essence, quella “cittadella” di cui parlava Goethe, è, agli occhi di Zweig, «la lotta più consapevole e tenace che l’uomo abbia mai condotto ». Utilizzando formule novecentesche, potremmo dire che Montaigne è agli antipodi dell’intellettuale engagé. Quello schema concettuale è ribaltato. Non si tratta di liberare l’umanità liberando di conseguenza i singoli individui, ma al contrario di invitare ciascuno a salvaguardare la propria libertà interiore: sarà questo il volano migliore per una socialità improntata finalmente alla tolleranza, all’equilibrio, alla decenza. D’altronde Montaigne è troppo scettico, e anche troppo “egoista”, per accollarsi compiti superiori alle sue forze. Si prefigge così un unico obiettivo: «Vivere la propria vita, invece di una vita qualsiasi». Solo che questo obiettivo - a ben vedere - è di portata incomparabile: perché «conservando e descrivendo se stesso», Montaigne «conservò a sua volta l’uomo in nuce, l’uomo nudo e atemporale. E mentre tutto il resto, i trattati teologici e le digressioni filosofiche del suo secolo ci sembrano estranei e obsoleti, lui è un nostro contemporaneo, l’uomo di oggi e di sempre, e la sua battaglia è la più attuale sulla terra».
Questo scriveva Stefan Zweig negli anni del ferro e del fuoco. Oggi le condizioni, quantomeno nella nostra bistrattata Europa, sono radicalmente mutate. Ovviamente in meglio: sarebbe bene non dimenticarselo mai. Eppure la parola di Montaigne non ha perso una briciola del suo valore, anzi. Se Dio vuole non ci circonda più il frastuono delle armi, ma soltanto quello delle parole. Non trionfano più le tirannie delle Chiese e degli Stati, ma la Doxa. Eppure è altrettanto difficile sottrarsi al conformismo, non aderire alla servitù volontaria delle coscienze indotta dalla caciara di un sistema mediatico onnipervasivo. Per questo Montaigne rimane il faro di sempre. Perché è il guardiano della nostra intimità, oggi particolarmente a rischio, e perché non propone ricette precotte, rifugge dalle ideologie e non inneggia a nessuna escatologia salvifica. Solo una cosa ci chiede: di tenere gli occhi aperti, di non essere animati da pregiudizi e di confidare nella ragione critica. Senza farsi tentare dalle sirene del potere, del denaro, di un’ambizione smaniosa, smodata; e senza farsi affliggere dalle difficoltà del mondo esterno, che hanno comunque un valore relativo, perché «l’uomo saggio non ha niente da perdere».
Giustamente Stefan Zweig ricorda che in questa inesausta ricerca di sé, Montaigne non assume mai le parti del misantropo o dell’anacoreta. Al contrario, è un uomo che ama la convivialità, i viaggi, le donne, le discussioni cordiali, la vita buona e bella. La sua curiosità verso l’altro è infinita, la lotta contro ogni fanatismo irriducibile. Montaigne è sempre disposto a “prestarsi”, mai “a darsi per intero”. Vuole e riesce a mantenere la giusta distanza, nella convinzione che “la cittadella” debba restare inaccessibile. «Perché solo chi rimane libero, contro tutto e contro tutti», chiosa ancora Zweig, «incrementa e protegge la libertà sulla terra».
L’unica bussola a cui affidarsi, dunque, resta la coscienza individuale: valeva nella Francia del ‘500 e vale ancor oggi.

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