venerdì 23 maggio 2014

La caduta di Silvio Berlusconi

Perry Anderson
The Italian Disaster 
London Review of Books, 22 May 2014

... In questo scenario, un paese è considerato diffusamente come il caso più acuto di malfunzionamento europeo. Dall’introduzione della moneta unica l’Italia ha segnato il dato economico peggiore di ogni altro stato dell’Unione: vent’anni di stagnazione virtualmente ininterrotta a un tasso di crescita ben inferiore a quello di Grecia o Spagna.  Il suo debito pubblico è superiore a 130 per cento del PIL. Tuttavia questo non è un paese di dimensione piccola o media della periferia recentemente acquisita dell’Unione. È uno dei sei membri fondatori, con una popolazione paragonabile a quella della Gran Bretagna e un’economia pari a metà di quella della Spagna. Dopo la Germania la sua base manifatturiera è la seconda maggiore d’Europa, dove è anche seconda in classifica nell’esportazione di beni capitali. Le emissioni del suo tesoro costituiscono il terzo maggiore mercato di titoli sovrani del mondo. Quasi metà del suo debito pubblico è detenuto all’estero: il dato paragonabile del Giappone è inferiore al 10 per cento. Nella sua combinazione di peso e di fragilità l’Italia è il vero anello debole della UE, dove questa potrebbe teoricamente spezzarsi.
Oggi è anche, non per caso, il solo paese in cui la delusione per lo svuotamento delle forme democratiche, non semplicemente un’indifferenza intorpidita ma una rivolta attiva ha scosso la dirigenza alle fondamenta, trasformando il panorama politico. Movimenti di protesta di un genere o dell’altro sono emersi in altri stati dell’Unione, ma finora nessuno approssima la novità o successo dell’ondata del Movimento Cinque Stelle in Italia come ribellione alle urne. E anche, a sua volta, l’Italia offre lo spettacolo più familiare di tutti i teatri di corruzione del continente e quello della sua più celebrata incarnazione nel miliardario che ha retto il paese per quasi metà della vita della Seconda Repubblica, a proposito del quale si sono spese più parole che riguardo a tutti i suoi avversari messi insieme. Le riflessioni sulla situazione propria dell’Italia partono inevitabilmente da Silvio Berlusconi. Che egli emerga tra i suoi pari per l’intreccio di potere e denaro è fuori discussione. Ma il modo in cui c’è riuscito può essere oscurato dal clamore della stampa estera al suo inseguimento, prime fra tutte le tonanti denunce dell’Economist e del Financial Times.
Due cose hanno reso straordinario Berlusconi. La prima che è egli ha invertito il percorso tipico dalla carica al profitto, ammassando una fortuna prima di arrivare al potere politico, che poi ha usato non tanto per accrescere la propria ricchezza, quanto per proteggerla, e proteggere sé stesso, da molteplici incriminazioni penali per il modo in cui l’aveva acquisita. La seconda è che la principale, anche se lungi dall’essere unica, fonte della sua ricchezza è un impero televisivo e pubblicitario che gli ha fornito un apparato di potere indipendente dalla carica e che, una volta entrato nell’arena elettorale, ha potuto essere convertito in una macchina di propaganda e in uno strumento di governo. Collegamenti politici – legami con il Partito Socialista a Milano e con il suo capo Craxi – sono stati cruciali per la sua ascesa economica, e in particolare per la costruzione della sua rete nazionale di canali televisivi. Ma anche se ha sviluppato considerevoli abilità, essenzialmente di comunicazione e manovra, da politico, in prospettiva è rimasto innanzitutto un uomo d’affari, per il quale il potere ha significato sicurezza e fascino, piuttosto che azione o progettualità. Anche se ha manifestato la sua ammirazione per la Thatcher e si è vantato di essere campione del mercato e della libertà economica, l’immobilismo delle sue coalizioni di centrodestra non si è mai differenziato molto da quello delle coalizioni di centrosinistra dello stesso periodo.
Che questo sia il vero addebito mosso contro di lui dall’opinione neoliberista della sfera anglofona si può vedere dal trattamento che quest’ultima riserva a due emblemi simmetrici della corruzione a capo di stati a est e a ovest dell’Italia. Per anni Erdogan – un amico stretto di Berlusconi – è stato destinatario di interviste, profili e articoli smaccati sul Financial Times e altrove, che lo hanno presentato come l’architetto illuminato di una nuova democrazia turca e un ponte vitale tra l’Europa e l’Asia, da accogliere con tutta la dovuta rapidità nell’Unione. Diversamente da Berlusconi, tuttavia, il cui ruolo è stato anodino in materia di libertà civili, Erdogan è stato ed è una minaccia a esse. Tuttavia quando è decollato un boom turco con picchi di privatizzazioni, sono contate poco le incarcerazioni di giornalisti, gli assassinii di dimostranti, gli aggiustamenti di processi, le intimidazioni brutali contro l’opposizione – per non parlare dei peculati all’ingrosso – da parte del suo regime.   Persino quando la dimensione di questa violenza e corruzione non ha potuto più essere ignorata, i dettagli degli scandali che travolgevano il paese sono stati in generale mantenuti al minimo e il biasimo è stato rapidamente dirottato sulla UE per non aver esteso un abbraccio redentore con sufficiente solerzia. Una volta pubblicati i nastri di Erdogan la Frankfurter Allgemeine ha commentato che in qualsiasi democrazia funzionante normalmente quelle erano prove dieci volte sufficienti per costringere l’intero governo ad andarsene. Nemmeno un sussurro paragonabile sul Financial Times. Commenti in larga parte simili potevano essere formulati su Rajoy e i suoi complici in Spagna, dove la pistola fumante è in realtà più evidente che nel labirinto di malefatte di Berlusconi. Ma Rajoy, diversamente da Berlusconi, è un intendente affidabile del regime neoliberista: nessuna richiesta di supplementi speciali sull’Economist per dettagliare i suoi misfatti, a proposito dei quali il giornale ha cura di dire il minimo possibile, in compagnia di Bruxelles e Berlino. ‘I leader e i dirigenti della UE hanno tenuto la bocca insolitamente chiusa sullo scandalo, se si considera l’importanza della Spagna per l’eurozona’, commenta Gavin Hewitt, il redattore della BBC per l’Europa. ‘La cancelliera tedesca Angela Merkel e altri hanno riposto molta fiducia nel signor Rajoy, che è considerato come un braccio sicuro per riforme dolorose mirate a resuscitare l’economia della Spagna’. Berlusconi avrebbe pagato per tale assenza di fiducia.
Nell’ora del trionfo di Berlusconi nella primavera del 2008, quando ha conquistato la sua terza e più decisiva vittoria elettorale, le opinioni negative all’estero sul suo conto gli importavano poco. Il fronte di centrodestra che aveva organizzato e riorganizzato dal 1994 – a quel punto composto dal Popolo della Libertà, una fusione del suo precedente partito con quello del suo alleato di lungo corso, l’ex fascista Gianfranco Fini, più la Lega Nord di Umberto Bossi che manteneva la sua base e identità separata – deteneva una maggioranza egemone in entrambe le camere del parlamento. Nel suo primo mese in carica è stato compiuto un passo parallelo alla linea Thatcher/Blair, la fase iniziale di una serie di cambiamenti a partire dalle scuole elementari e per finire con le università che tagliava la spesa per l’istruzione di circa 8 miliardi di euro nell’interesse dell’economia e della competizione, riducendo il numero degli insegnanti, imponendo contratti a termine, introducendo le imprese nei consigli, quantificando la valutazione della ricerca. Ma la misura dello zelo riformatrice del governo è stata tutta qui. Al primo posto nella sua agenda politica erano le leggi ad personam per proteggere Berlusconi dalle incriminazioni penali ancora pendenti sul suo capo; molte erano state svuotate tirando in lungo per arrivare alla prescrizione, altre mediante la depenalizzazione. Nel 2003 il suo governo aveva approvato una legge che assicurava l’immunità dai processi alle cinque più alte cariche dello stato, cassata dalla Corte Costituzionale sei mesi dopo. Nell’estate del 2008 è tornato all’attacco con una legge presentata dal suo braccio destro al ministero della giustizia, l’avvocato siciliano Angelino Alfano, che sospendeva i processi per le quattro più alte cariche dello stato.
Pochi mesi dopo la tempesta finanziaria oltre Atlantico ha colpito l’Europa, prima in Irlanda e poi in Grecia. In Italia la seconda repubblica era stata sin dall’inizio un flop economico, nonostante i migliori sforzi dei premier del centrosinistra per correggere la situazione (Giuliano Amato aveva tagliato e privatizzato, Romano Prodi aveva messo il paese nella camicia di forza del Patto di Stabilità). I tassi della crescita italiana sono precipitati nel corso degli anni ’90. Dopo il 2000 sono ristagnati in una media dello 0,25 del PIL l’anno. Nel giro di un anno dalla rielezione di Berlusconi nel 2008 gli spread avevano già cominciato ad allargarsi tra i rendimenti dei titoli tedeschi e italiani. Arrivati al 2009 la recessione era più grave che in qualsiasi altro paese dell’eurozona, con il PIL sceso di più di cinque punti percentuali. Per tenere a bada i mercati finanziari, pacchetti finanziari d’emergenza hanno ridotto il deficit di bilancio dell’Italia, ma con i tassi d’interesse in ascesa sul terzo debito pubblico maggiore del mondo, arrivate alla fine del 2010 il governo era arrivato economicamente alla canna del gas.
Politicamente se la passava poco meglio. Da marzo a ottobre del 2009 i titoli erano dominati da sensazionali rivelazioni sulle stravaganze sessuali di Berlusconi, dando un colore vistoso alla profetica descrizione di Giovanni Sartori del suo governo – mutuando un termine da Weber – come un sultanato.  Sempre dedito a vantare le sue prodezze in camera da letto, con l’arroganza che a quel punto lo incitava a sconfiggere anche l’età, ha abbandonato l’elementare prudenza, riempiendo le liste del partito di soubrettes e flirtando con minorenni, al punto di provocare una rottura pubblica con sua moglie, Veronica Lario. Presto ha cominciato a ricevere prostitute nella sua residenza romana. Amareggiata per non aver ottenuto un permesso di costruzione a Bari che le era stato promesso, una di loro ha raccontato le sue visite. Nella sua sfarzosa villa di Arcore, fuori Milano, erano messe in scena orge nello stile di fantasie aggiornate da diciottesimo secolo, donne vestite da suore – anche da infermiere e poliziotte – a danzare e a spogliarsi per la possessione collettiva. Quando una delle partecipanti, una giovane marocchina, è stata successivamente arrestata per furto a Milano, Berlusconi ha telefonato per assicurare il suo rilascio perché nipote di Mubarak. Poiché aveva meno di diciotto anni, ne è seguita una procedura legale a carico di Berlusconi. Anche se la vicenda non è stata tanto dannosa quanto il disastro in cui sarebbe presto incorso Dominique Strauss-Kahn, presidente del FMI e favorito nella corsa alla presidenza francese, Berlusconi è stato indebolito dallo svilimento della sua immagine. Ma per il momento è sopravvissuto.
Una minaccia più grave alla sua posizione è venuta da un’altra direzione. Per presunzione, alimentata dal successo elettorale, ha perso il senso del limite in politica, aveva umiliato Fini, che aveva pensato di essere suo successore ed era presidente della Camera. Nell’estate del 2010, rendendosi conto che non poteva più aspettarsi di essere l’erede naturale del centrodestra e cedendo alle lusinghe dell’opposizione che avrebbe potuto persino dimostrarsi il leader migliore di un centrosinistra responsabile, Fini ha disertato. Portando con sé un numero di deputati sufficiente a privare il governo di una maggioranza stabile, ha mancato di poco di provocarne la caduta in autunno. Nella primavera del 2011 anche gli elettori hanno abbandonato il governo con Berlusconi che ha perso il controllo anche di una roccaforte quale Milano.
Nel corso di quell’estate, con l’intensificarsi della crisi dell’eurozona, con la Grecia prossima all’insolvenza, è aumentata la pressione dei mercati obbligazionari sull’Italia. La Germania, affiancata dalla Francia e dalla Banca Centrale Europea, a quel punto non faceva un segreto della sua determinazione a spezzare ogni resistenza a misure draconiane d’austerità e a eliminare i leader che avessero esitato ad attuarle, ad Atene o a Roma. In agosto Trichet e Draghi – presidenti uscente ed entrante della BCE – hanno trasmesso a Berlusconi un virtuale ultimatum. Due mesi dopo Papandreou è stato costretto in un vertice della UE ad accettare altri tagli feroci alla spesa pubblica e a impegnarsi a privatizzazioni generalizzate. Nel panico per la marea di rabbia popolare contro di esse – il presidente della Grecia era stato costretto ad abbandonare il palco a Salonicco nel corso della Festa Nazionale – ha annunciato un referendum al riguardo ed è stato convocato a Cannes seduta stante dalla Merkel e da Sarkozy e gli è stato detto di cancellare una simile iniziativa. Una settimana dopo si è dimesso. Nel giro di tre giorni Berlusconi lo ha seguito.
Le dinamiche della caduta di Berlusconi, tuttavia non sono state le stesse. In Grecia Papandreou presiedeva a un diffuso immiserimento su ordini di Berlino, Parigi e Francoforte che aveva scatenato massicce proteste sociali. Fino alla sua improvvisa idea di un referendum era stato uno strumento perfettamente accettabile della volontà dell’Unione, un atteggiamento confermato dalla velocità con cui aveva obbedito alla Merkel e a Sarkozy e aveva prontamente ritirato la sua proposta. Si è dimesso perché la sua posizione era diventata insostenibile all’interno. In Italia non era in corso né un impoverimento né una mobilitazione popolare. La maggioranza di Berlusconi alla Camera era a quel punto limitatissima e alcuni dei suoi deputati si stavano impaurendo per l’aumento degli spread. Me egli resta in pieno controllo del Senato e doveva ancora essere messo al tappeto in tribunale. La sua posizione interna era sostanzialmente più forte di quella di Papandreou. Nella UE in generale, tuttavia, l’ostilità nei suoi confronti era molto maggiore poiché rappresentava un imbarazzo di lungo corso per la sua classe politica; e la decisione di Berlino e Francoforte di liberarsene, in quanto ostacolo alla necessaria purga dell’economia italiana e all’ordine sociale, più inesorabile.
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Per la sua cacciata, tuttavia, era necessario un meccanismo per collegare l’erosione della sua posizione in patria, non ancora completa, con l’assoluta avversione nei suoi confronti all’estero. Per sua sfortuna esso era già pronto e adatto. Meno notata di altri mutamenti prodotti dalla Seconda Repubblica, c’era stata una forte crescita del ruolo della presidenza negli affari politici dell’Italia. Durante il regno della Democrazia Cristiana nella Prima Repubblica, quando un solo partito dominava sempre la legislatura, questa carica in larga misura cerimoniale raramente aveva avuto qualche importanza. Ma quando coalizioni politiche rivali hanno cominciato a confrontarsi per il potere nella Seconda Repubblica, si è aperto un nuovo spazio di manovra per la presidenza. Scalfaro – in carica al Quirinale tra il 1992 e il 1999 – è stato il primo a utilizzarlo, rifiutandosi di sciogliere il parlamento quando Berlusconi aveva perso la sua prima maggioranza nel 1994, agevolando  invece al potere un mosaico di centrosinistra, per dargli tempo di mettere insieme le proprie forze per una vittoria alle urne con Prodi l’anno successivo.
Ora il presidente era, come Scalfaro, un ex ministro dell’interno, Giorgio Napolitano. Berlusconi aveva sostenuto l’elezione di Napolitano nel 2006 e aveva motivo di ritenere di aver fatto una scelta sensata nell’aiutare a salire al Quirinale questo veterano della classe politica tradizionale. Un ‘Vicario di Bray’ italiano, nella sua lunga carriera aveva esibito un principio fisso, l’adesione a qualsiasi tendenza politica mondiale apparisse vincente al momento. L’inizio di una lunga sequenza c’era stato nei suoi anni da studente, quando aveva aderito al Gruppo Universitario Fascista, in un periodo in cui l’Italia inviava truppe a unirsi ai nazisti nell’attacco contro la Russia. Una volta caduto il fascismo Napolitano ha optato per la forza in arrivo del comunismo. Iscrivendosi al PCI alla fine del 1945 ne ha poi rapidamente scalato i ranghi, arrivando al Comitato Centrale in poco più di un decennio. Quando le truppe e i carri armati sovietici hanno represso la Rivolta Ungherese nel 1956, egli ha applaudito. ‘L’intervento sovietico è stato il contributo decisivo non solo per impedire che l’Ungheria finisse nel caso e nella controrivoluzione, e difendendo gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma anche salvando la pace nel mondo’, ha dichiarato al Congresso del Partito in quel novembre. Salutando l’espulsione di Solzhenitsyn dalla Russia nel 1964 ha dichiarato: “Solo commentatori sciocchi e faziosi possono evocare lo spettro dello stalinismo, trascurando il modo in cui Solzhenitsyn ha portato le cose a un punto di rottura’. A quel punto era il braccio destro di Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, la figura più formidabile del PCI. Come il suo patrono, era un inflessibile disciplinatore del dissenso nel partito, votando senza esitazioni la cacciata dal partito del gruppo del Manifesto per aver parlato fuori luogo contro l’invasione della Cecoslovacchia. Con gettoni sia nella segreteria sia nell’ufficio politico, era diffusamente visto come il successivo leader del PCI.
Nell’occasione il posto è andato a Enrico Berlinguer, come figura meno divisiva. Ma Napolitano è rimasto come ornamento di spicco del partito mentre passava all’eurocomunismo. Nei tardi anni ’70 è stato scelto come primo inviato del PCI per rassicurare gli Stati Uniti sulla sua affidabilità atlantica, diventando a tempo debito il ‘comunista preferito di Kissinger’, per usare le parole soddisfatte del New York Times. Arrivati agli anni ’80 il trasferimento dell’alleanza a un nuovo feudatario era completo. Il Terzo Reich un brutto ricordo, l’URSS in declino, gli USA erano a quel punto la potenza da coltivare. Responsabile dei rapporti con l’estero del PCI si sarebbe preso cura di ammorbidire le relazioni con Washington molto dopo che il partito era scomparso. Una volta presidente ha fatto di tutto per ingraziarsi sia Bush sia Obama.
In patria il fallimento della scommessa del PCI di raggiungere un ‘compromesso storico’ con la Democrazia Cristiana che gli avrebbe consentito l’ingresso nel governo e l’ascesa, invece – in mezzo una corruzione sempre più sfacciata – del Partito Socialista di Craxi come alleato chiave della DC ha indotto Berlinguer a fare una svolta a sinistra. Denunciando la degenerazione venale del sistema politico, ha diffuso un sonoro appello a far pulizia nella vita politica. Napolitano ha reagito rabbiosamente, accusandolo di isolazionismo settario e di ‘vuote invettive’. I rapporti erano sempre stati freddi tra i due uomini. Ma era in gioco qualcosa di più che una mera rivalità personale. Napolitano guidava la corrente più a destra nel PCI dell’epoca, i miglioristi che avvertivano una certa affinità con Craxi e non volevano ostilità con lui. La loro base principale era a Milano, dove la macchina di Craxi dominava la città. Lì, a metà degli anni ’80, pubblicavano un giornale, Il Moderno, non solo finanziato da Berlusconi ma che plaudiva ai suoi rivoluzionari successi nel modernizzare i media e nel fare di Milano la capitale televisiva d’Italia. Si era nel 1986, quando Craxi era primo ministro. Un tribunale avrebbe poi giudicato la holding Fininvest di Berlusconi colpevoli di finanziare illegalmente i miglioristi. In febbraio, durante i preparativi per un referendum contro il nucleare in Italia, il giornale del PCI ha rifiutato un articolo a favore del nucleare di Giovanni Battista Zorzoli, uno dei seguaci di Napolitano. Furioso, Napolitano ha preteso la testa del direttore. Nel 1993 Zorzoli è finito in manette, condannato a quattro anni e mezzo di carcere per corruzione quando era alto dirigente della compagnia statale italiana dell’elettricità.  
Non molto tempo dopo, Napolitano è diventato ministro dell’interno nel governo di centrosinistra del 1996. Era la prima volta che qualcuno di sinistra fosse mai stato alla guida di tale ministero. Il coinvolgimento della polizia e degli apparati dei servizi segreti italiani nella cosiddetta ‘strategia della tensione’ [in italiano nel testo – n.d.t.] – una serie di attentati dal massacro di Piazza Fontana a Milano nel 1969 a quello alla stazione ferroviaria di Bologna nel 1980 -  era ormai confermato da molto tempo, ma non era mai stato indagato. Ogni nervosismo riguardo al fatto che l’arrivo al ministero del comunista di un tempo è stato presto acquietato. Napolitano ha assicurato i suoi subordinati che non avrebbe ‘cercato scheletri negli armadi’. Nessuna rivelazione deplorevole ha macchiato il suo periodo in carica. E’ stato nominato senatore a vita nel 2005. Diventato presidente della repubblica un anno dopo ha lamentato pubblicamente che Craxi – che era morto in esilio in Tunisia dopo essere stato condannato in contumacia a 27 anni di carcere per una corruzione colossale – era stato trattato scorrettamente, prendendosi il disturbo di elogiare il suo ruolo costruttivo di statista.
Non ha avuto lo stesso riguardo per Berlusconi, considerandolo con condiscendenza benevola – anche con una certa giustizia – come in realtà per nulla un politico, nel senso in cui lo erano stati gli uomini eminenti della Prima Repubblica. I due uomini comunque non potevano essere più opposti quanto a stile. La correttezza cerimoniale di Napolitano era in studiato contrasto con la spudorata spacconeria di Berlusconi. Ma condividevano un passato comune nello snodo di legami e simpatie che circondava Craxi a Milano, e un comune interesse a stabilizzare quelli che entrambi consideravano i potenziali vantaggi della Seconda Repubblica: un sistema politico bipolare in stile anglosassone, confinato a un centrodestra e un centrosinistra, liberato dall’ostilità nei confronti del mercato del suo guardiano transatlantico. Per ragioni proprie ciascuno, inoltre, temeva la perseveranza dei pubblici ministeri nello scovare accuse contro il leader più popolare del paese e il risentimento di minoranze irresponsabili nell’insistere su di esse.
Per Berlusconi si trattava, naturalmente, di minacce esistenziali. Per Napolitano erano semplicemente divisive, proprio come lo era stato il moralismo di Berlinguer, compromettendo sconsideratamente l’equilibrio del consenso moderato di cui il paese aveva bisogno. E’ stato più che disposto ad aiutare Berlusconi a proteggersi da questi problemi, firmando senza esitazione la legge del Lodo Alfano del 2008 che garantiva a Berlusconi, come primo ministro, e a sé stesso, da presidente, l’immunità dai processi; e quando la legge è stata dichiarata incostituzionale, apponendo il suo timbro con uguale velocità sulla legge sostitutiva approvata nel 2010, sul ‘legittimo impedimento’ [in italiano nel testo – n.d.t.] che consentiva ai ministri di evitare i processi invocando i loro pressanti doveri di pubblico servizio, legge a sua volta dichiarata incostituzionale nel 2011. Napolitano è stato criticato pubblicamente per la sua inopportuna approvazione della prima da parte di Ciampi, il suo predecessore alla presidenza, e non era tenuto neppure a lasciar passare la seconda; piuttosto era vero il contrario come doveva dimostrare il seguito legale di entrambe. Le azioni di Napolitano, tuttavia, si sono accordate con le aspettative di Berlusconi di un modus vivendi tra loro, sulle cui basi quest’ultimo lo aveva appoggiato per la presidenza. Un’altra espressione pregnante di tale accordo si è avuta quando la diserzione di Fini ha privato il governo Berlusconi della maggioranza alla Camera e l’opposizione ha discusso un voto di sfiducia, con i voti in mano per far cadere il governo. Nel 2008 Prodi era stato in una situazione simile dopo che Berlusconi aveva comprato voti al Senato sufficienti a farlo cadere, un episodio per cui è attualmente incriminato per aver pagato a un solo senatore tre milioni di euro per cambiare cappotto, una mazzetta che il beneficiario ha confessato. Allora Napolitano aveva perso poco tempo – meno di due settimane – per usare la sua prerogativa presidenziale di sciogliere il parlamento e convocare nuove elezioni, che avevano prodotto una valanga a favore di Berlusconi. Questa volta, comunque, Napolitano ha persuaso Fini a fermarsi per più di un mese mentre veniva approvata una legge di bilancio, garantendo a Berlusconi il tempo necessario per comprare il pugno di deputati necessario per ripristinare la sua maggioranza. 
***
Questo è stato, comunque, l’ultimo favore che Napolitano ha potuto accordare. Si stava preparando a prendere le cose nelle proprie mani. Nella primavera del 2011 il governo ha annunciato che si stava unendo all’attacco alla Libia guidato dagli statunitensi, al quale la Lega Nord si opponeva assolutamente, minacciando di farlo cadere se lo avesse fatto. Napolitano la sapeva più lunga: le aspettative di Washington erano più importanti delle sottigliezze della costituzione. Senza alcun voto in parlamento, e nemmeno un dibattito al suo interno, ha mandato l’Italia in guerra strappando il sostegno degli ex comunisti all’invio dell’aviazione del paese a bombardare un vicino con il quale aveva firmato un Trattato di Amicizia, Cooperazione e Alleanza Militare, ratificato da una schiacciante maggioranza alla Camera – ex comunisti compresi – solo due anni prima.
Arrivati all’estate, incoraggiato dalla crescente adulazione sui media nei suoi confronti come rocca della repubblica, e con l’incoraggiamento di Berlino, Bruxelles e Francoforte, aveva deciso di disfarsi di Berlusconi. La chiave per rimuoverlo agevolmente consisteva nel trovare un sostituto che soddisfacesse questi partner decisivi e la dirigenza del mondo degli affari in Italia. Fortunatamente la figura ideale era a portata di mano: Mario Monti, ex commissario UE, membro del Gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale, consigliere anziano della Goldman Sachs e allora presidente dell’Università Bocconi. Monti aveva per qualche tempo atteso proprio la situazione che a quel punto si presentava. ‘I governi italiani sono in grado di prendere decisioni dure’, aveva confidato all’Economist nel 2005, ‘solo se sono soddisfatte due condizioni: devono esserci sia un’emergenza visibile sia una forte pressione dall’esterno’. All’epoca, lamentava, ‘tale momento della verità non c’è’. Ora era arrivato.
Già da giugno o luglio, in completa segretezza, Napolitano aveva preparato Monti ad assumere il governo. Nello stesso periodo aveva commissionato al capo del maggior gruppo bancario italiano, Corrado Passera, l’elaborazione di un piano economico confidenziale per il paese. Passera era un ex assistente dell’arcinemico politico di Berlusconi e rivale in affari Carlo De Benedetti, proprietario di La Repubblica e di L’Espresso, che era al corrente delle mosse di Napolitano. In urgente corsivo il documento di 196 pagine di Passera proponeva una terapia shock: cento miliardi di euro di privatizzazioni, tassa sulla casa, imposte sui capitali, un’impennata dell’IVA. Napolitano, al telefono con la Merkel e indubbiamente con Draghi, aveva a quel punto pronti il piano e l’uomo per cacciare Berlusconi. Monti non si era mai candidato alle elezioni e anche se un seggio in parlamento non è indispensabile per l’investitura a primo ministro, sarebbe stato d’aiuto averne uno.
Non c’era tempo da perdere: il 9 novembre, prelevandolo dalla Bocconi, Napolitano ha nominato Monti senatore a vita, con l’applauso della stampa finanziaria mondiale. Sotto minaccia della distruzione da parte dei mercati obbligazionari nel caso si fosse opposto, Berlusconi ha capitolato e nel giro di una settimana Monti ha giurato da nuovo governante del paese, alla guida di un governo non eletto di banchieri, uomini d’affari e tecnocrati. L’operazione che lo ha installato è un’illustrazione espressiva di che cosa possono significare oggi in Europa le procedure democratiche e il primato della legge. E’ stato tutto assolutamente incostituzionale. Il presidente dell’Italia dovrebbe essere il guardiano imparziale di un ordine parlamentare, che non interferisce con le decisioni di quest’ultimo salvo quando violano la costituzione, come questo presidente ha segnatamente mancato di fare. Non ha il potere di cospirare, alle spalle di un premier eletto, con persone di sua scelta, nemmeno in parlamento, per formare un governo di suo piacimento. La corruzione del mondo degli affari, della burocrazia e della politica è stata a quel punto aggravata dalla corruzione della costituzione.
All’epoca ciò che era accaduto quell’estate dietro gli arazzi presidenziali era rimasto celato. Sarebbe venuto alla luce solo quest’anno per bocca dello stesso Monti, un ingenuo in queste faccende, provocando balbettanti smentite di Napolitano. Contemporaneamente la reazione del sistema al nuovo governo spaziava dal sollievo all’esultanza. Finalmente – nella visione diffusa dei commentatori dentro e fuori dal paese – c’era per l’Italia una seconda occasione per voltar pagina, occasione mancata dopo il crollo della Prima Repubblica. Finalmente era al timone un governo onesto e competente, impegnato non solo a serie riforme del tanto che era sbagliato in Italia – mercati del lavoro rigidi, pensioni insostenibili, università nepotiste, restrizioni corporative ai servizi, assenza di competizione industriale, privatizzazioni insufficienti, ingorgo della giustizia, evasione fiscale – ma anche in grado di dominare le tempeste finanziarie che aggredivano il paese. Una nuova Seconda Repubblica, quella vera, poteva ora sorgere dopo vent’anni di messinscene. Tagli profondi alla spesa pubblica, dure misure fiscali e l’inizio di cambiamenti alla disastrosa legge sul lavoro degli anni ’70 sono stati i primi, apprezzati passi per ripristinare la fiducia nel paese.
Viste da un’altra angolazione c’erano in effetti somiglianze tra la congiuntura dei primi anni ’90 quando Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, era stato chiamato a difendere il forte da premier nel pieno della crisi di Tangentopoli. Ma non erano per nulla rassicuranti. Il governo Monti somigliava al governo Ciampi nella composizione e nelle intenzioni. Ma molto era cambiato nel frattempo, non ultimo l’ambiente da cui provenivano le figure di spicco del nuovo ordine: Monti e il suo garante a Francoforte, Draghi. Nel 1994 Berlusconi si era presentato da innovatore da un passato imprenditoriale e la cui vittoria avrebbe sepolto la corruzione e il disordine della classe politica della Prima Repubblica, mentre egli in realtà doveva la sua fortuna prevalentemente a essi.  Nel 2011 la crisi che strozzava l’Italia e l’Eurozona era stata scatenata da una massiccia ondata di speculazioni finanziarie e di manipolazioni di derivati su entrambe le sponde dell’Atlantico. Nessun operatore era più famigerato per la sua parte in ciò che la stessa società sul cui libro paga avevano figurato Monti e Draghi. La Goldman Sachs, che si era guadagnata negli Stati Uniti il nomignolo di ‘piovra vampiro’, aveva assecondato la falsificazione dei conti pubblici greci e poi era stata accusata di frode dalla Commissione Titoli e Scambi (SEC) versando mezzo miliardo di dollari per transare la causa extragiudizialmente.  Attendersi un taglio netto con il passato da simili funzionari era poco più realistico che credere che il patrocinio di Craxi non avrebbe lasciato nessun segno su Berlusconi.
Altri ricordi del passato erano non meno impressionanti. Nell’estate del 2012 è emerso che Napolitano era intervenuto per bloccare il potenziale interrogatorio di Nicola Mancino, ministro democristiano dell’interno nel 1992 quando il magistrato di Palermo Paolo Borsellino era stato assassinato dalla mafia. Mancino era uno dei quattro ministri dell’interno – Scalfaro era stato un altro – che ricevevano mensilmente fondi neri dal servizio segreto SISDE. La negazione di Mancino di aver incontrato Borsellino poco prima della sua morte, nonostante prove del contrario, non era mai stata chiarita ed era in corso una nuova indagine ufficiale sui collegamenti tra stato e mafia, che minacciava di metterlo a confronto con due altri ministri del periodo che lo avevano smentito. In grande agitazione ha telefonato al Quirinale e ha implorato protezione dal braccio destro di Napolitano per gli affari legali, Loris D’Ambrosio. Lungi dall’essere respinto gli è stato che il presidente era molto preoccupato per lui. A tempo debito lo stesso Napolitano ha telefonato a Mancino, inconsapevole che il telefono di quest’ultimo erano intercettato come parte dell’indagine.
Quando le trascrizioni degli scambi tra Mancino di D’Ambrosio sono state pubblicate sulla stampa, assieme alla notizia che i nastri delle conversazioni dello stesso presidente con Mancino erano in possesso del magistrato inquirente, Napolitano ha invocato l’assoluta immunità per la sua carica e, in stile Nixon, ha preteso che i nastri fossero distrutti. Il fratello di Borsellino, Salvatore, ha chiesto la sua messa in stato d’accusa; poiché era implicata chiaramente un’ostruzione alla giustizia, negli Stati Uniti ci sarebbero state basi per essa. In Italia un esito simile era impensabile. La classe politica e i media hanno immediatamente serrato i ranghi a difesa del presidente, come era stato fatto quando Scalfaro aveva usato il suo maggiordomo per soffocare lo scandalo del SISDE. L’assistente di Napolitano, l’Ehrlichman dell’affare, è morto di attacco cardiaco nel bel mezzo del putiferio. Come accade spesso Marco Travaglio, probabilmente il più grande giornalista d’Europa, è stato l’unico a chiamare i fatti con il loro nome; nel suo libro ‘Viva il Re!’, pubblicato l’anno scorso, ha tracciato un’esauriente atto d’accusa circa i precedenti di Napolitano in carica, in seicento pagine di documentazione incriminatrice. Altrove, di fronte al pericolo per la sua posizione, il coro dei sicofanti attorno al presidente – il cui volume andava crescendo da un certo tempo – ha raggiunto un crescendo isterico.

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