sabato 7 giugno 2014

Ipazia


Luciano Canfora
Ipazia, il coraggio della filosofia
Corriere della Sera, 11 aprile 2010

La vicenda di Ipazia, scienziata tra le maggiori della tarda antichità, massacrata ad Alessandria su istigazione del vescovo Cirillo (poi santo e dottore della Chiesa) nel marzo del 415 d.C. divide ancora. Incombe come ineludibile testimonianza del modo in cui il cristianesimo si impadronì dell’ impero romano. Nell’autorevole Dizionario ecclesiastico diretto da Angelo Mercati e Augusto Pelzer, due pilastri della dottrina vaticana, si legge ancora che Ipazia «fu uccisa in una dimostrazione popolare perché avversa al cristianesimo», si precisa non senza improntitudine che il vescovo Cirillo fu estraneo alla cosa, e si squalificano gli storici antichi che lo inchiodano, tra cui lo storico cristiano Socrate scolastico (circa 380-440 d.C.), con l’ argomento che sarebbe vissuto «un secolo più tardi» laddove fu palesemente coevo dei fatti! Se tali dotti si abbassano alla più grossolana delle falsificazioni, ciò significa che quel crimine – con tutto il clima di intolleranza e di folle esaltazione dell’ ignoranza, creato dai cristiani padroni ormai della più grande metropoli del Mediterraneo – brucia ancora.

Un’altra fonte contemporanea, su cui gli storici clericali sorvolano, Eunapio di Sardi, così descrive le squadracce di monaci ignoranti, i cosiddetti «parabolani», che torturarono e massacrarono Ipazia dopo averla, da bravi stupratori, denudata: «Monaci li hanno chiamati, ma non erano neppure uomini se non in apparenza, poiché conducevano vita da porci e apertamente compivano e assecondavano crimini innumerevoli e innominabili». Il determinismo storiografico filocristiano che ha cercato di minimizzare «incidenti» del genere come scotto da pagarsi al maestoso incedere progressivo della storia (di cui il cristianesimo sarebbe protagonista positivo) è ormai al capolinea. Ormai per fortuna la storiografia si riappropria del diritto di riaprire tutte le questioni sopite e relegate ai margini come «prezzi» dolorosi ma inevitabili. Il film di Amenábar Agora, che ricostruisce con filologica e ammirevole perizia l’ intera vicenda della vita e della morte di Ipazia di Alessandria, ha innanzi tutto il merito di restituire alla più ampia fruizione quella vicenda così rilevante e ancora oggi così traumatica. Incontra e incontrerà censure, ma questo dimostra soltanto quanto sia stato giusto e necessario concepirlo e produrlo. Esso ha inoltre il merito di porre al centro della vicenda i libri, cioè la biblioteca del Serapeo piena di tesori della cultura antica e perciò invisa ai cristiani e da loro annientata. Le scene della distruzione della biblioteca sono di ottima fattura e di esattezza impeccabile.

La battaglia intorno ai libri, nella quale si erano illustrate le bande al servizio di Teofilo, zio e predecessore nonché mentore di Cirillo, non ha nulla da invidiare alle gesta delle orde di Pol Pot. Un altro merito della ricostruzione storica contenuta in questo film è di mostrare l’ asservimento progressivo del potere politico a quello della Chiesa e dei vescovi, in specie dei più violenti e oscurantisti. In tempi di fondamentalismi che si affrontano, in pieno XXI secolo, nel nome di contrapposti repugnanti pregiudizi, questo monumento a Ipazia è un ammonimento per tutti. Quel che ci affascina è che, nonostante tutto, la notizia di lei e della sua opera sopravvisse. Cosa c’è di più sorprendente e di più ammirevole che ritrovare dentro una enciclopedia dell’ XI secolo (Suidas) una galleria di ritratti entusiastici e commossi di filosofi neoplatonici (e pagani) come Ipazia e Olimpio? La fonte in quel caso è il neoplatonico Damascio. Contro la scuola neoplatonica di Atene si accanì Giustiniano (529 d.C.) che cacciò quei filosofi dall’ impero. Alcuni furono uccisi, altri si rifugiarono presso l’imperatore persiano Cosroe, che li accolse e ne protesse l’opera. Più tardi, contro i loro eredi si abbatterà ancora una volta la persecuzione del clero bizantino: in particolare nei confronti di Gemisto Pletone, con grave danno dei suoi scritti e della «setta» di Mistrà.

E però saranno proprio questi uomini che conquisteranno la mente di umanisti come Ficino e costituiranno l’ alimento dell’ Umanesimo e della Rinascita. Insomma quel filo conduttore di alternativa filosofica all’ imbarbarimento cristiano non si è mai smarrito. Per converso la parabola del cristianesimo come potenza politica è stata segnata dall’ accoglimento del peggio dell’eredità pagana: la superstizione. «I vescovi più rispettabili – scrive Gibbon con la consueta serenità e finezza – si erano persuasi che il popolo ignorante avrebbe più volentieri rinunziato al paganesimo, se avesse trovato qualche somiglianza, o qualche compenso, nel seno del cristianesimo» (cap. 28). E così accadde. Distanti 800 anni l’ uno dall’ altro l’ uccisione di Socrate e il massacro di Ipazia sono frutto della stessa «infamia», per usare l’ espressione cara a Voltaire. Écrasez l’infâme, resta il solo imperativo, più che mai attuale.

I libri: su Ipazia il libro da leggere è quello di Gemma Beretta, Ipazia d’Alessandria, Editori Riuniti, Roma 1993, purtroppo esaurito: perché non lo ristampano? Di buona qualità scientifica ma rese difficili dalla densità della scrittura, le pagine di Silvia Ronchey, Ipazia l’intellettuale in A. Fraschetti (a cura di), Roma al femminile, Laterza, Roma-Bari 1994.  redazione@giudiziouniversale.it

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