lunedì 9 giugno 2014

Luca Canali, un ricordo

Canali, una vita in latino
Docente, poeta e scrittore si è spento ieri a 89 anni
l'Unità, 9 giugno 2014


ERA ALLA SOGLIA DEI NOVANT’ANNI, LUCA CANALI, MORTO IERI A ROMA DOPO UNA MALATTIA. È STATO UNO DEI MAGGIORI LATINISTI ITALIANI, SCRITTORE E POETA. Allievo di Ettore Paratore, con cui si era laureato su Lucrezio e di cui è stato assistente, Canali ha insegnato a lungo letteratura latina all’università di Pisa. Lasciò la cattedra all’inizio degli anni Ottanta, prima del tempo, per poi dedicarsi alla scrittura saggistica e narrativa. La sua opera, per mole, è impressionante: decine e decine di volumi, attraverso i quali - accanto al lavoro più accademico - ha messo a fuoco in una chiave divulgativa ma rigorosa la storia romana, con predilezione per le tinte fosche, gli intrighi, i vizi, gli scandali, il potere, l’eros, la follia. Vita, sesso, morte nella letteratura latina (1980) prepara il terreno a testi a metà fra saggistica e narrativa, su Cesare, su Augusto, sui potenti di Roma antica, o all’autobiografia immaginaria di Lucrezio, di cui tradusse splendidamente il De rerum natura. Ha tradotto l’Eneide di Virgilio, la Farsaglia di Lucano, le Odi di Orazio, gli Epigrammi di Seneca, ha tradotto Catullo e Petronio. Ha attraversato, da autore, generi diversi con disinvoltura, affidandosi - per guardare più da vicino i grandi dell’antichità - di volta in volta all’intervista immaginaria, al «diario segreto», alla riscrittura, come nel caso del Satyricon di Petronio. Fellini, per il suo Fellini Satyricon, gli chiese una consulenza, e Canali parecchi anni dopo inseguì l’idea di un suo Canali Satyricon (Manni lo pubblicò nel 2008).
La lunga vita di Canali è segnata da un’inquietudine senza posa, da un’attività quasi febbrile, che negli ultimi anni lo ha portato a pubblicare moltissimo anche da marchi editoriali minuscoli. Con Cavallo di Ferro ha pubblicato l’anno scorso un breve romanzo, Matchnullo, candidato allo Strega 2014 ma non incluso nella dozzina. Il protagonista, come l’autore, si chiama Luca, malinconico e burbero. In filigrana, dietro Luca c’è proprio Canali, la sua vita universitaria, la sua militanza politica nel comunismo. «La vita è una gara, e durissima, no? Tutto sta nell’imparare i metodi per vincerla ». Gli ultimi versi sono affidati alla plaquette Semplice cronaca (Ladolfi). Vi compaiono piccole figure solitarie, anzi ammalate di solitudine, come forse era pure l’autore, sempre più appartato e cupo, risentito. Canali era un nichilista? Forse sì, a un passo da lì, da quella posizione, da quel «senza scampo» che dà il titolo a una poesia su una pecora che arranca disperata sull’asfalto. Ma poi magari sapeva guardare gli oleandri nelle stazioni di servizio, «polverosi nell’ardore della canicola» e provare gratitudine «per quella floreale vocazione ad ornare luoghi disidratati». L’anno scorso era stato ripubblicato da Mondadori il suo romanzo maggiore, Autobiografia di un baro (1984), storia - anche questa molto vicina al vissuto - di un ragazzo che si butta a capofitto nella lotta politica e si trova infine a dover combattere con la propria stessa testa, con la nevrosi che la assedia, con la depressione. Così Canali è stato segnato da quest’ombra, da fobie e ossessioni che travasava nella cupezza del suo narrare. Ognuno soffre la sua ombra è un suo titolo bellissimo, che vale - quanto Autobiografia di un baro - da esergo a un’intera vita: Lucrezio, Catullo, Giovenale riletti narrativamente come «grandi nevrotici».
Dopo esserne stato lo studioso e il traduttore, era diventato l’analista dei suoi amati poeti e di sé stesso. C’è un Catullo ventottenne che confessa il proprio disagio psicologico; l’interlocutore lo incalza, lui si apre: «Ricordo di avere attraversato un periodo di profondo smarrimento. E Lesbia allora non c’era. Non mangiavo, non dormivo, vivevo di incubi… Già a quel tempo ero pieno di contraddizioni. A volte mi percepivo molto più capace e intelligente dei miei coetanei, altre volte vivevo complessi di inferiorità abissali. Sin da bambino ho sempre avuto la sensazione che qualcuno alle spalle mi scrutasse, mi giudicasse… Questa sensazione non mi ha mai abbandonato del tutto ».
La sua voce, nelle ultime telefonate, era stanca, ma ancora curiosa, sospesa tra la distanza dalle cose e dal mondo e una strana, ancora vitale voglia di partecipare, di esserci, di sapere, di scrivere, di sbraitare. Aveva collaborato a lungo con queste pagine. Il giorno in cui era uscita una recensione al suo ultimo libro di versi mi chiamò per ringraziare. Gli chiesi ingenuamente se fosse stato informato dall’editore. «L’Unità la leggo tutti i giorni» mi disse con quel tono secco e burbero, che era il suo, e non ammetteva repliche.

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Paolo Mauri
Luca Canali il baro amante del latino
Lo scrittore è morto ieri a Roma a 89 anni. Studioso dell’antichità, fu nel Pci e raccontò la Resistenza

la Repubblica, 9 giugno 2014

Ettore Paratore faceva lezione, alla Facoltà di Lettere di Roma, nell’aula prima, affollatissima, anche perché la frequenza era in quegli anni obbligatoria. Montava materialmente in cattedra, una cattedra molto alta, non prima d’aver controllato che attorno al tavolo che stava proprio sotto la cattedra sedessero i suoi assistenti, di cui era maestro e anche un po’ tiranno. Luca Canali, scomparso ieri a Roma quasi novantenne, era tra loro, latinista, ma non solo. All’epoca trovavo bellissimo il suo ritratto di Cesare, che non ho più riletto e bellissime erano anche le sue traduzioni.
Intanto, nel ‘65 era uscito un suo libro di riflessioni più o meno storico- filosofiche, con una lettera di Montale che il Corriere della sera aveva pubblicato come elzeviro: “La Resistenza impura”. Canali, allora quarantenne, era un uomo molto bello (le ragazze di Lettere non avevano dubbi) e in più era comunista. Un comunista alla corte del rigido conservatore Paratore che avrebbe presto proposto ai suoi studenti “rivoluzionari” per la traduzione in latino un brano di Mao, suggerendo di volgere «comunisti » con «omnia qui communia censent». Canali ne avrebbe comunque conservato un buon ricordo: il suo mestiere lo sapeva ed era coltissimo, aveva solo il torto di scrivere terribili romanzi, come raccontò nella recente e lucidissima intervista a tutto campo di Antonio Gnoli ( Repubblica, 29 settembre 2013), dove rivelava di avere una figlia segreta e concludeva un ragionamento durato, credo, una vita intera: «La storia insegna che il mondo è un incubo senza risveglio». “La Resistenza impura” insinuava molti dubbi sui risultati raggiunti da una generazione che aveva conosciuto l’azione diretta contro i nazifascisti (Canali era entrato nelle formazioni di Giustizia e Libertà e solo in seguito aveva aderito al Pci) ed ora assisteva alla caduta di tanti ideali. Nel ‘58, dopo i fatti d’Ungheria, il compagno Canali che aveva diretto diverse sezioni del Pci, ma aveva manifestato dei dubbi su quanto andava accadendo era stato buttato fuori dal Partito con diversi altri e vi sarebbe rientrato solo molto più tardi. La sua storia si incamminava ad essere quella di uno studioso di letteratura latina che presto avrebbe avuto i suoi successi lavorando su Lucrezio, Virgilio, Giovenale (divenne anche consulente per il Satyricon di Federico Fellini) e che avrebbe continuato a suo modo nella militanza politica. Nel ‘77 pubblicò Quel punto di luce (Vangelista editore), un libro sulla Resistenza a Roma, con i ritratti di alcuni partigiani torturati e uccisi dove ribatteva ad una affermazione di De Felice che dichiarava di non credere alle rivoluzioni tradite, alle resistenze tradite. «Io invece ci credo», scriveva Canali, «per dirla con la stessa rozzezza, e penso anzi sia una legge storica che tutte le rivoluzioni siano tradite». In qualche modo il tradimento diventa più propriamente un assestamento e poco oltre Canali ritorna sul concetto di Resistenza impura: «tutte le rivoluzioni coinvolgono in sé l’“impuro”, il reale imperfetto, il tornaconto personale, il casuale, e perfino la viltà e la delazione ».
In realtà Canali pensava molto anche a se stesso, alla sua storia personale, alla famiglia da cui proveniva, al suo modo di stare al mondo. Il padre faceva il carbonaio e con lui non c’era stata praticamente mai una vera confidenza. Da un certo punto in poi Canali diventa dunque un acuto narratore di se stesso e delle vicende che lo riguardano sul piano personale e persino su quello sessuale che dopo l’apprendistato nelle case chiuse si rivela problematico o semplicemente predatorio (molto poco invece racconta sul piano professionale che sembra appartenere ad un’altra persona). Nel 1980 esce Il sorriso di Giulia, (Editori Riuniti). Giulia è la figlia di Luca. Alla fine del romanzo c’è un capitolo intitolato «Come vorrei essere ricordato». Parla di una fotografia scattata nel ‘73: «È forse l’unica foto della mia vita in cui sembro soddisfatto di me, padre correttamente seduto sul divano con la figlia treenne». La normalità era già un rimpianto. Nel frattempo Canali aveva vinto una cattedra a Pisa e faceva su e giù da Roma con la sua velocissima Porsche. È più o meno in questo periodo che matura ed esplode una fortissima depressione accompagnata da una psiconevrosi piuttosto grave. Canali si guarda ora soffrire, ancora una volta con spietata acutezza e scrive l’ Autobiografia di un baro (Bompiani, 1983). Mi capitò di leggerla proprio su un treno che mi portava a Pisa. Mi turbò. Non ne volevo scrivere. Poi invece pensai che scriverne era doveroso e dichiarai subito che la mia non era una recensione nel senso classico del termine. Si può recensire la sconfitta, la sofferenza? Canali, che resta comunque un eccellente scrittore, comunica al lettore il dolore per una vita distrutta, nella quale (a torto) pensa di avere avuto la parte di un baro. Ma un baro, obiettavo, può perdere sempre? Non sono l’unico a pensare che questo suo libro, ristampato anche in anni recenti (negli Oscar Mondadori), sia quello che meglio lo rappresenta, anche se su se stesso sarebbe tornato molte volte e citiamo almeno Spezzare l’assedio (Bompiani, 1984) dove però i fatti sono in qualche modo romanzati.
Autobiografia di un baro si chiude con un capitolo scritto da Maria, la ragazza spagnola che era venuta in Italia e che sarebbe diventata sua moglie. È un’altra pagina di delusione e di dolore dove si vede Luca indifferente conquistatore, poco incline al sentimento. «Ho conosciuto un giovane uomo pieno di dubbi e di ragioni, bello come una statua greca…». Così comincia il capitolo firmato da Maria ora da tempo scomparsa. Invecchiando in solitudine Canali era diventato l’ombra di se stesso. La sua bibliografia, tra saggi, traduzioni, narrativa e poesia, è infinita (Giunti ha pubblicato proprio in questi giorni Pax alla romana. Gli eterni vizi del potere , scritto a quattro mani con Lorenzo Perilli), ma lui stesso ammise che spesso scriveva per terapia. Se nella scrittura e nella letteratura cerchiamo qualcosa che ci faccia conoscere meglio gli uomini e la loro sorte, Canali resta un autore di singolare e (posso dirlo?) perverso fascino. Suo malgrado, un testimone protagonista del nostro recente passato.

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