giovedì 31 luglio 2014

Il Novecento di Giovanni Arrighi

Benedetto Vecchi
Novecento. La casa editrice il Saggiatore ripropone a venti anni dalla prima pubblicazione «Il lungo XX secolo» di Giovanni Arrighi. Un appassionante affresco sullo sviluppo del capitalismo storico che mantiene ancora intatta la sua forza analitica 
il manifesto,  31 luglio 2014


Uno dei più impor­tanti libri delle scienze sociali di fine Nove­cento. È cosi che Mario Pianta defi­ni­sce Il lungo XX secolo nella pre­fa­zione che accom­pa­gna la nuova edi­zione del libro di Gio­vanni Arri­ghi voluta da Sag­gia­tore nel ven­ten­nale della prima pub­bli­ca­zione ita­liana. Un giu­di­zio con­di­vi­si­bile, non per motivi «disci­pli­nari», bensì per la capa­cità del sag­gio di Arri­ghi di for­nire una let­tura «forte» del capi­ta­li­smo sto­rico, espres­sione mutuata dal com­pa­gno di strada Imma­nuel Wal­ler­stein, che l’economista ita­liano conobbe in Africa e con il quale, dopo il suo tra­sfe­ri­mento defi­ni­tivo negli Stati Uniti, con­di­vise le sorti del Fer­nand Brau­del Cen­ter. Come ogni let­tura «forte» che si rispetti, anche il Lungo XX secolo non è esente da limiti, ma ha comun­que rap­pre­sen­tato una ven­tata di aria nuova, con­tri­buendo a dira­dare la neb­bia che avvol­geva, negli anni Novanta del Nove­cento, il pen­siero cri­tico sta­tu­ni­tense.  Quello di Arri­ghi, assieme agli studi di Saskia Sas­sen sulla glo­ba­liz­za­zione e per altri versi Impero di Michael Hardt e Toni Negri hanno infatti rap­pre­sen­tato i ten­ta­tivi più impe­gnati, negli Stati Uniti, nella ripresa di una pun­tuale e ade­guata cri­tica mar­xiana del capi­ta­li­smo contemporaneo.

Una ten­denza di lunga durata

Il Lungo XX secolo arriva nelle libre­rie una man­ciata di anni dopo la pub­bli­ca­zione delle Con­se­guenze della moder­nità di David Har­vey e della Logica cul­tu­rale del tardo capi­ta­li­smo di Fre­dric Jame­son, inno­va­tive rico­gni­zioni del post­mo­derno, una pro­spet­tiva filo­so­fica che, a dif­fe­renza dell’Europa, costi­tuiva negli Stati Uniti un’elaborazione che l’establishment cul­tu­rale col­lo­cava alla sini­stra del pan­theon acca­de­mico. A dif­fe­renza di Har­vey e Jame­son, Arri­ghi era però inte­res­sato a rin­trac­ciare le inva­rianti dello svi­luppo capi­ta­li­stico, alla luce del ruolo sem­pre più rile­vante assunto dalla finanza nel ridi­se­gnare le gerar­chie sociali e poli­ti­che sia a livello «locale» che pla­ne­ta­rio. Da que­sto punto di vista, Il lungo XX secolo secolo è da con­si­de­rare un punto di svolta nella pro­du­zione teo­rica di Arri­ghi.
I libri che segui­ranno, a par­tire dal sag­gio scritto a quat­tro mani con Beverly Sil­ver sul caos deri­vato dalla crisi irre­ver­si­bile dell’egemonia sta­tu­ni­tense nel capi­ta­li­smo mon­diale (Caos e governo del mondo, Bruno Mon­da­dori) e Adam Smith a Pechino (Fel­tri­nelli) si con­cen­trano infatti sul mondo emerso dal venir meno della forza pro­pul­siva dell’egemonia sta­tu­ni­tense. E se il caos raf­forza il mili­ta­ri­smo del capi­tale, la Cina è inter­pre­tata come un modello sociale che ha le carte in regola per aspi­rare a diven­tare il cen­tro di un nuovo ciclo di espan­sione eco­no­mica, in virtù del fatto che non è più una società socia­li­sta, ma non è però diven­tata un paese capi­ta­li­sta. Dun­que, non un nuovo modello di capi­ta­li­smo, bensì una società di mer­cato che man­tiene alcune carat­te­ri­sti­che «socia­li­ste» del recente pas­sato, men­tre ne ha adot­tate alcune «capi­ta­li­ste». In chiu­sura del libro «cinese», l’autore annun­cia una ulte­riore tappa del suo nuovo per­corso teo­rico, che non sarà però resa pos­si­bile a causa della sua morte nel 2009.
Quel che emerge dalla rilet­tura del Lungo XX secolo è la scelta di Arri­ghi di un’analisi sulla lunga durata dello svi­luppo eco­no­mico, carat­te­riz­zato da un anda­mento ciclico, dove alla fase auro­rale, che pone le basi di un’egemonia eco­no­mica e poli­tica di una realtà locale, ne segue una espan­siva, che sta­bi­li­sce un rap­porto di inter­di­pen­denza tra il cen­tro dello svi­luppo e le zone di influenza, che ven­gono pla­smate in base ai vin­coli posti dalla cre­scita eco­no­mica. È all’azimut del ciclo, qua­li­fi­cato come siste­mico, che si mani­fe­stano le con­trad­di­zioni, i limiti di quel modo di pro­du­zione ege­mo­nico. Ed è in que­sta con­tin­genza che, mar­xia­na­mente, la finanza diviene momento di sta­bi­liz­za­zione, di gestione della crisi, senza che però possa arre­stare il declino del cen­tro del sistema-mondo che quel ciclo ha prodotto.

Il nuovo bari­cen­tro atlantico

La crisi non coin­cide mai, tut­ta­via, con la fine di un modo di pro­du­zione, bensì con una sua tra­sfor­ma­zione coin­ci­dente con uno spo­sta­mento «geo­gra­fico» del cen­tro dello svi­luppo eco­no­mico. Sono tutt’ora pagine belle da leg­gere quelle dove Arri­ghi descrive l’ascesa, nel XIV secolo, di Genova come una potenza eco­no­mica che arriva a con­di­zio­nare il regno impe­riale spa­gnolo, per poi pas­sare lo scet­tro a Vene­zia. E quando la Sere­nis­sima arriva al mas­simo del suo splen­dore, assi­stiamo alla prima crisi siste­mica. È in que­sta con­tin­genza che emerge l’Olanda come paese ege­mone del capi­ta­li­smo sto­rico, prima di cono­scere l’inevitabile declino a favore dell’Inghilterra. Con il Regno Unito, ini­zia il terzo ciclo siste­mico del regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stico, che si con­clu­derà solo negli ultimi anni del Nove­cento, con la crisi del 1973, anno tote­mico per indi­care l’inizio del declino sta­tu­ni­tense. Ogni ciclo siste­mico vede un’innovazione tec­nica: nella tec­ni­che di costru­zione delle navi per Genova e Vene­zia, che con­sen­tono alle due città ita­liane di con­se­guire un van­tag­gio com­pe­ti­tivo rispetto alle pos­si­bili con­cor­renti, ma anche nello sfrut­tare e sta­bi­lire rap­porti pri­vi­le­giati con realtà eco­no­mi­che emer­genti nella lavo­ra­zione del cotone (Lione), nello sfrut­tare tec­ni­che «finan­zia­rie» inno­va­tive (le let­tere di cam­bio e la con­ta­bi­lità svi­lup­pate a Firenze); nell’accedere alle riserve di argento e oro del Nuovo mondo. L’Olanda invece rie­sce, al tra­monto della Repub­blica di Vene­zia, a sfrut­tare il dina­mi­smo dell’industria tes­sile inglese e nelle nuove tec­ni­che di lavo­ra­zione dei metalli messe in campo nell’attuale Ger­ma­nia. L’Inghilterra si farà forte invece della sua rivo­lu­zione indu­striale.
Come testi­mo­niano le appas­sio­nate e appas­sio­nanti rico­stru­zioni sto­ri­che di Arri­ghi, nel ciclo siste­mico dell’accumulazione capi­ta­li­stica con­ver­gono ele­menti esterni (l’oro e l’argento pro­ve­niente dalle Ame­ri­che, ad esem­pio) che interne all’attività eco­no­mica, dove l’innovazione del pro­cesso lavo­ra­tivo e orga­niz­za­tiva hanno sem­pre una fun­zione pro­pul­siva e dina­mica. Fedele però alla gri­glia ana­li­tica di Fer­nand Brau­del, Arri­ghi intro­duce un altro fat­tore, il «ter­ri­to­ria­li­smo», cioè la posi­zione occu­pata da una città o da una nazione nei flussi di merci e mate­rie prime. Così, Genova e Vene­zia sono col­lo­cate in posi­zione stra­te­gica rispetto ai com­merci che met­tono in rela­zione l’«oriente» con l’Europa, men­tre l’Olanda è uno snodo nel tra­sporto dei metalli lavo­rati nel cen­tro Europa verso l’Inghilterra e il «Nuovo mondo». Lo stesso si può dire dell’Inghilterra nel periodo che vede una cen­tra­lità «atlan­tica» nello svi­luppo capi­ta­li­stico.
Non è certo una novità l’interesse di Arri­ghi verso la geo­gra­fia, intesa però come angolo di osser­va­zione dell’evoluzione del sistema-mondo. Lo testi­mo­nia il libro, da tempo intro­va­bile, sulla Geo­me­tria dell’imperialismo (Fel­tri­nelli), dove la geo­gra­fia è appunto intro­dotta come una varia­bile fon­da­men­tale per spie­gare le linee di ten­denza dello svi­luppo capi­ta­li­stico e gli assetti poli­tici che rego­lano il «sistema-mondo», espres­sione quest’ultima «presa in pre­stito» da Imma­nuel Wallerstein.

La cat­tiva transizione

Il ciclo siste­mico dell’accumulazione è così con­trad­di­stinto dalla tra­sfor­ma­zione di una inno­va­zione in un fat­tore pro­dut­tivo che con­sente un van­tag­gio com­pe­ti­tivo rispetto ai poten­ziali con­cor­renti; dalla posi­zione occu­pate nel flusso delle merci e delle mate­rie prime. Il terzo fat­tore è dovuto alla finanza. Quanto viene esa­mi­nato il suo ruolo nello svi­luppo eco­no­mico, Arri­ghi fa leva sulle tesi mar­xiane che vedono nella finanza una fun­zione rile­vante nella ripro­du­zione allar­gata del capi­tale. Diviene, e qui il Marx evo­cato è quello del terzo libro del Capi­tale, fun­zione paras­si­ta­ria quando la capa­cità inno­va­tiva viene meno e c’è con­tra­zione nella capa­cità di garan­tire inve­sti­menti pro­dut­tivi. È qui che comin­cia la fase discen­dente del ciclo siste­mico. Que­sto non signi­fica che si mani­fe­sti la crisi, ma che la finanza la dila­ziona nel tempo: ha cioè una fun­zione sta­bi­liz­za­trice del ciclo eco­no­mico, diven­tando però un osta­colo nel pro­durre nuove inno­va­zioni. È que­sta una fase di tran­si­zione tra un ciclo siste­mico di accu­mu­la­zione e un altro, che vedrà il suo cen­tro col­lo­cato altrove da quello in fase decli­nante.
La descri­zione che Arri­ghi for­ni­sce del pas­sag­gio che c’è tra un ciclo e l’altro ha le sue fonti in un paziente lavoro sto­rio­gra­fico che annulla le bar­riere disci­pli­nari. Il Lungo XX secolo non è infatti solo un libro di teo­ria eco­no­mica, ma anche e soprat­tutto un con­den­sato di sto­ria sociale, di antro­po­lo­gia. Per gli appas­sio­nati di una sto­ria delle idee, le radici teo­re­ti­che di Arri­ghi stanno certo in Marx, ma anche nelle teo­rie del ciclo eco­no­mico di Kon­dra­tieff, negli «Anna­les» fran­cesi, nell’antropologia strut­tu­ra­li­sta di Levi-Strauss, nella socio­lo­gia eco­no­mica di Joseph Shum­pe­ter, di Karl Polany e di Max Weber. Assenti sono però alcune varia­bili indi­pen­denti, come ad esem­pio la lotta di classe.

Il trit­tico del capitale

Gio­vanni Arri­ghi è stata una figura impor­tante nel Ses­san­totto mila­nese. For­ma­tosi alla Uni­ver­sità Boc­coni, già allora cuore delle teo­rie eco­no­mi­che libe­rali, si tra­sferì gio­va­nis­simo in Africa dove inse­gnò all’università dell’allora Rho­de­sia, l’attuale Zim­ba­bwe. È durante il periodo afri­cano che incon­tra Imma­nuel Wal­ler­stein, con il quale avvia un forte e dura­turo soda­li­zio intel­let­tuale. Tor­nato in Ita­lia par­te­cipa al Ses­san­totto e fonda, assieme a molti altri mili­tanti del movi­mento stu­den­te­sco, il gruppo Gram­sci, gruppo che si carat­te­rizza per la sua atti­vità poli­tica nelle fab­bri­che dell’hinterland mila­nese. E tut­ta­via negli scritti di Arri­ghi, la lotta di classe svolge un ruolo sem­pre secon­da­rio rispetto l’analisi delle ten­denze in atto nel capi­ta­li­smo. Alle cri­ti­che che sot­to­li­nea­vano que­sta assenza, Arri­ghi ha sem­pre rispo­sto che il ruolo del con­flitto di classe e dell’azione poli­tica del movi­mento ope­raio nella pos­si­bi­lità di con­di­zio­nare le dina­mi­che imma­nenti al ciclo eco­no­mico era dato per scon­tato. Lo ricorda anche nella post­fa­zione pre­sente nel volume, scritta nel 2009 pochi mesi prima della sua morte. Ma la lotta di classe è un «impre­vi­sto» che non mette in discus­sione il ciclo eco­no­mico, che ha quasi una sua «natu­rale ogget­ti­vità».
Nel tempo, poi, nell’analisi pro­po­sta da Arri­ghi il capi­ta­li­smo sto­rico è sovrap­po­sto all’economia di mer­cato, facendo così venire meno quella pecu­lia­rità messa in evi­denza da Marx, che è la com­parsa del lavoro sala­riato e il trit­tico di plu­sva­lore rela­tivo, asso­luto e plu­sla­voro che spiega lo sfrut­ta­mento del regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stico. Per Arri­ghi, invece, il capi­ta­li­smo è un regime sociale e eco­no­mico che si base su una distri­bu­zione ine­guale della ric­chezza, spie­gata però come l’esito di una appro­pria­zione pri­vata attra­verso l’uso della forza. Per que­sto, ad esem­pio, Adam Smith a Pechino si chiude con la denun­cia del mili­ta­ri­smo e delle pra­ti­che di espro­pria­zione delle mate­rie prime che ha carat­te­riz­zato il «lungo nove­cento», non­ché que­sto primo decen­nio del nuovo mil­len­nio. Non è quindi un caso che Arri­ghi si sia dimo­strato sem­pre restio a defi­nire la Cina con­tem­po­ra­nea come una società capi­ta­li­stica governa da un par­tito comu­ni­sta, pre­fe­rendo qua­li­fi­carla come una società di mer­cato.
Il valore della rifles­sione di Arri­ghi non sta però nelle fedeltà o meno ai testi mar­xiani, bensì sulla capa­cità di offrire uno sguardo d’insieme e un con­te­sto sto­rico allo svi­luppo capi­ta­li­stico. Un ordine sociale, poli­tico e eco­no­mico, cioè, che non ha nulla di natu­rale e che è desti­nato a lasciare il posto ad altre for­ma­zioni sociali e poli­ti­che. Sta dun­que alle azioni degli uomini e delle donne la pos­si­bi­lità di tra­sfor­mare la mise­ria del pre­sente attra­verso quella ric­chezza del pos­si­bile che la coo­pe­ra­zione pro­dut­tiva e sociale rie­sce ad esprimere.

martedì 29 luglio 2014

David Grossman, An Israel Without Illusions

New York Times
27 luglio 2014

JERUSALEM —  Israelis and Palestinians are imprisoned in what seems increasingly like a hermetically sealed bubble. Over the years, inside this bubble, each side has evolved sophisticated justifications for every act it commits.
Israel can rightly claim that no country in the world would abstain from responding to incessant attacks like those of Hamas, or to the threat posed by the tunnels dug from the Gaza Strip into Israel. Hamas, conversely, justifies its attacks on Israel by arguing that the Palestinians are still under occupation and that residents of Gaza are withering away under the blockade enforced by Israel.
Inside the bubble, who can fault Israelis for expecting their government to do everything it can to save children on the Nahal Oz kibbutz, or any of the other communities adjacent to the Gaza Strip, from a Hamas unit that might emerge from a hole in the ground? And what is the response to Gazans who say that the tunnels and rockets are their only remaining weapons against a powerful Israel? In this cruel and desperate bubble, both sides are right. They both obey the law of the bubble — the law of violence and war, revenge and hatred.
But the big question, as war rages on, is not about the horrors occurring every day inside the bubble, but rather it is this: How on earth can it be that we have been suffocating together inside this bubble for over a century? This question, for me, is the crux of the latest bloody cycle.
Since I cannot ask Hamas, nor do I purport to understand its way of thinking, I ask the leaders of my own country, Prime Minister Benjamin Netanyahu and his predecessors: How could you have wasted the years since the last conflict without initiating dialogue, without even making the slightest gesture toward dialogue with Hamas, without attempting to change our explosive reality? Why, for these past few years, has Israel avoided judicious negotiations with the moderate and more conversable sectors of the Palestinian people — an act that could also have served to pressure Hamas? Why have you ignored, for 12 years, the Arab League initiative that could have enlisted moderate Arab states with the power to impose, perhaps, a compromise on Hamas? In other words: Why is it that Israeli governments have been incapable, for decades, of thinking outside the bubble?
And yet the current round between Israel and Gaza is somehow different. Beyond the pugnacity of a few politicians fanning the flames of war, behind the great show of “unity” — in part authentic, mostly manipulative — something about this war is managing, I think, to direct many Israelis’ attention toward the mechanism that lies at the foundation of the vain and deadly repetitive “situation.” Many Israelis who have refused to acknowledge the state of affairs are now looking into the futile cycle of violence, revenge and counter-revenge, and they are seeing our reflection: a clear, unadorned image of Israel as a brilliantly creative, inventive, audacious state that for over a century has been circling the grindstone of a conflict that could have been resolved years ago.
If we put aside for a moment the rationales we use to buttress ourselves against simple human compassion toward the multitude of Palestinians whose lives have been shattered in this war, perhaps we will be able to see them, too, as they trudge around the grindstone right beside us, in tandem, in endless blind circles, in numbing despair.
I do not know what the Palestinians, including Gazans, really think at this moment. But I do have a sense that Israel is growing up. Sadly, painfully, gnashing its teeth, but nonetheless maturing — or, rather, being forced to. Despite the belligerent declarations of hotheaded politicians and pundits, beyond the violent onslaught of right-wing thugs against anyone whose opinion differs from theirs, the main artery of the Israeli public is gaining sobriety.
The left is increasingly aware of the potent hatred against Israel — a hatred that arises not just from the occupation — and of the Islamic fundamentalist volcano that threatens the country. It also recognizes the fragility of any agreement that might be reached here. More people on the left understand now that the right wing’s fears are not mere paranoia, that they address a real and crucial threat.
I would hope that on the right, too, there is now greater recognition — even if it is accompanied by anger and frustration — of the limits of force; of the fact that even a powerful country like ours cannot simply act as it wishes; and that in the age we live in there are no unequivocal victories, only an illusory “image of victory” through which we can easily see the truth: that in war there are only losers. There is no military solution to the real anguish of the Palestinian people, and as long as the suffocation felt in Gaza is not alleviated, we in Israel will not be able to breathe freely either.
Here in Israel, as soon as the war is over, we must begin the process of creating a new partnership, an internal alliance that will alter the array of narrow interest groups that controls us. An alliance of those who comprehend the fatal risk of continuing to circle the grindstone; those who understand that our borderlines no longer separate Jews from Arabs, but people who long to live in peace from those who feed, ideologically and emotionally, on continued violence.
I believe that Israel still contains a critical mass of people, both left-wing and right-wing, religious and secular, Jews and Arabs, who are capable of uniting — with sobriety, with no illusions — around a few points of agreement to resolve the conflict with our neighbors.
There are many who still “remember the future” (an odd phrase, but an accurate one in this context) — the future they want for Israel, and for Palestine. There are still — but who knows for how much longer — people in Israel who understand that if we sink into apathy again we will be leaving the arena to those who would drag us fervently into the next war, igniting every possible locus of conflict in Israeli society as they go.
If we do not do this, we will all — Israelis and Palestinians, blindfolded, our heads bowed in stupor, collaborating with hopelessness — continue to turn the grindstone of this conflict, which crushes and erodes our lives, our hopes and our humanity.

domenica 27 luglio 2014

Michael Walzer sulla guerra tra Israele e Hamas


intervista di Alix Van Buren
"Un conflitto folle per Israele, Hamas ne uscirà più forte"

la Repubblica, 26 luglio 2014

... Se c'è uno studioso acuto, in grado di misurarsi con le grandi questioni etiche e morali, quello è proprio Michael Walzer: il suo contributo forse più illustre di un'intera vita da filosofo, è l'aver ripescato il concetto di "guerra giusta" (Guerre giuste e ingiuste, [1977], 2006, trad. ital. di Fabio Armao 2009) senza cedere al pacifismo. Eppure stavolta Walzer, al telefono da Harvard, riguardo alla guerra di Gaza esita.

Professor Walzer, quali sono le sue perplessità? Perché, come altri intellettuali, lei finora non s'era espresso?
"Beh, io avrei preferito scrivere a guerra conclusa, quando il quadro si fosse chiarito. Ma per rispondere alla sua domanda, dietro all'esitazione c'è un insieme di sentimenti: ci sono lo sbigottimento di fronte a quel che accade, forse l'assuefazione all'infinito ripetersi del conflitto, l'imbarazzo nell'affrontare delicate questioni morali. Quanto a me, io sono terribilmente depresso. Il preludio della guerra resta fumoso, le spiegazioni offerte da Israele e da Hamas sono contrastanti. E poi, la condotta della guerra resta molto problematica".

A cosa si riferisce in particolare?
"Penso al quesito fondamentale: come si combatte un nemico che ha le caratteristiche di Hamas? Come si conduce una guerra che miete tante vittime civili, e nella quale ogni singola vittima civile si trasforma in una vittoria per Hamas e in una sconfitta per Israele? Un conflitto folle in cui più infliggi perdite al nemico, e più perdi? La soluzione non è facile. Israele deve rispondere a queste domande. Però, anche i critici di Israele devono indicare un'alternativa, ma la maggior parte di essi si sottrae".

Lei appunta delle responsabilità?
 "Le appunto a entrambe le parti, sia a Hamas sia a Israele. A Hamas in primo luogo e gli addosso la colpa d'aver causato la morte di civili usati come scudi umani, d'aver lanciato razzi nei dintorni delle scuole. Ma tanti altri palestinesi sono rimasti uccisi nei combattimenti, senza che siano serviti da scudo. Perciò attribuisco la responsabilità in secondo luogo a Israele, che ha l'obbligo di ridurre al minimo le perdite fra i civili".

Israele ha lanciato tre operazioni, dal 2008 a oggi, per "spazzare via" Hamas, ognuna con un pesante costo in vite umane. Però nessuna è stata risolutiva. Lei vede una differenza nel conflitto in corso?
"È vero, Hamas resta al suo posto. L'unica differenza notevole è che a ogni cessate il fuoco Hamas si dota di nuovi tunnel, di razzi più numerosi e dalla gittata più lunga. Non resta quasi più angolo di Israele al riparo dai tiri. D'accordo, i razzi non sono particolarmente efficaci in termini balistici, ma se parliamo di tattica, sono estremamente efficienti nel terrorizzare un'intera popolazione, quella israeliana, costretta a correre verso i rifugi. Ma se parliamo di "spazzare via" Hamas, io non sono tanto sicuro che Netanyahu voglia davvero farlo".
 

Vale a dire?
"La presenza di Hamas regala a Netanyahu una scusa per non procedere alla creazione di uno Stato palestinese. La vera intenzione del primo ministro israeliano è quella di indebolire Hamas, non di sostituirlo. Infatti, chi governerebbe al suo posto a Gaza? Un movimento ancora più radicale? La Jihad islamica? o magari l'Isis (il gruppo jihadista Stato islamico in Iraq e Siria, ndr )? L'obiettivo di Netanyahu è più limitato: fiaccare Hamas quanto basta per ottenere un paio di anni di quiete".

Fino a due settimane fa Hamas s'era messo da sé alle corde. Isolato, già indebolito, privo di fondi, i suoi appelli ai palestinesi in vista di una terza intifada erano rimasti inascoltati. E adesso invece la sua popolarità aumenta, i palestinesi di Cisgiordania insorgono. Secondo lei, l'operazione di Netanyahu rischia di rivelarsi un boomerang?
"È proprio così: il premier israeliano sta ottenendo il contrario rispetto a quanto si era prefissato. Ora Hamas si è rafforzato, oltre a Gaza, anche in Cisgiordania. Mentre Fatah, che dovrebbe essere il primo interlocutore di Netanyahu, ne esce indebolito. In più, Israele sta perdendo la battaglia nell'arena dell'opinione pubblica internazionale. Fino a poco fa contava su un sostegno molto ampio. A ogni nuova vittima civile, quell'appoggio evapora".

Lei teme una nuova ondata di antisemitismo?
"In America, dove io mi trovo, questo rischio non c'è. Il sostegno a Israele è forte, per molti motivi. Il pericolo è invece più verosimile da voi, in Europa, dove resistono radici del passato. Nelle manifestazioni di questi giorni l'antisemitismo di vecchio stampo a volte si sovrappone alle proteste indirizzate a Israele. Già si vedono riemergere tracce di nazionalismi nazi-fascisti, o di antiche origini cristiane. Però, malgrado il rischio, io non generalizzerei. Ogni Paese in Europa è diverso dall'altro".

Che cosa teme, allora?
"Piuttosto, in cima alle mie preoccupazioni c'è qualcos'altro: la situazione immediata in Medio Oriente. Lì l'orizzonte è cupissimo, davvero, da qualsiasi angolo lo si osservi".


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su Michael Walzer 
Tonino Cassarà 
l'Unità, 2 giugno 2004

Al filosofo americano Michael Walzer è stato affidato il compito di iniziare le Lezioni Bobbio che andranno avanti per tutto l'autunno con gli interventi di Umberto Eco, Giovanni Sartori, Amartya Sen, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Oscar Luigi Scalfaro e Giuliano Pontara. Che la conferenza di Walzer fosse considerata un evento da non perdere, lo dimostra il fatto che alcune centinaia di persone sono rimaste fuori dal Regio di Torino, perché i 1800 posti del teatro non sono bastati ad accogliere tutti coloro i quali avrebbero voluto assistere alla sua lezione su «I diritti dell'uomo. Oltre l'intervento umanitario: i diritti umani nella società globale». Il filosofo americano ha incrociato a più riprese i motivi dell'opera di Bobbio, proponendo un'articolata analisi sul futuro dei diritti dell'uomo e sulle condizioni di legittimità della guerra, sull'intervento umanitario e la sua possibile coerenza con una strategia universale di tutela dei diritti dell'uomo. Alla luce dei più recenti avvenimenti, l'autore di Guerre giuste e ingiuste [Laterza Bari 2009], nella sua lezione ha affrontato i problemi connessi all'intervento umanitario, inteso come modalità per l'affermazione dei diritti umani su scala globale che chiama in causa prima di tutto la protezione dallo sterminio di massa e dalla pulizia etnica. Secondo Walzer, «quando ci si trova di fronte ad atti che vanno ben oltre il concetto di barbarie ed inumanità, come la creazione di campi di lavoro coatto, gli omicidi di massa, o la pulizia etnica, se tutte le altre strade sono fallite, è possibile immaginare un intervento militare da parte di una forza internazionale che assicuri ad una corte internazionale chi perpetra tali crimini, che altro non sono se non violazioni dei diritti umani». Di fronte a questa considerazione preliminare è evidente che non possono essere perseguiti o giustificati interventi unilaterali che finiscono con l'indebolire il ruolo degli organismi internazionali il cui compito è quello di tutelare i diritti umani. Ma secondo Walzer, quando si parla di diritti umani, si corre il rischio di fare, come successe nel 1948, una lista troppo lunga. Per questo è necessario puntare sul «diritto ad avere diritti effettivi». Attraverso una concezione minimale dei diritti, fra i quali figurano «la vita, la libertà e pochi altri» è possibile anche stabilire «una descrizione approssimativa degli agenti responsabili della loro garanzia e della punizione e, infine, la disponibilità ad usare la forza come mezzo di coercizione». Fra gli agenti responsabili della garanzia vi è lo stato, e di conseguenza fra i diritti fondamentali vi è anche quello ad avere uno stato che dei diritti si faccia carico. Gli interventi internazionali, però, per poter avere una maggiore efficacia «dovrebbero anticipare il disastro e partire dalla prevenzione garantendo sì sicurezza, ma anche cibo, scuole, salute». Questa è una delle basi per «rendere i disastri meno frequenti e meno disastrosi», e partendo da questa base è anche possibile facilitare le relazioni fra gli stati che devono farsi garanti dei diritti dei propri cittadini, che non sono «solo contro massacri, fame e altri mali associati. Nell'ipotesi migliore, gli stati, provvedono ad una gamma di protezione e garanzia molto più ampia», che idealmente potrebbe coincidere con quella dei più convinti attivisti dei diritti umani. Secondo Walzer, il concetto di intervento umanitario, dopo l'Olocausto, parte da un patto universale che deve impedire il ripetersi di una cosa di quel genere, è per tale motivo che non si deve escludere a priori la possibilità degli interventi militari quando ci si trova di fronte a palesi e comprovate violazioni dei diritti umani, «perché esistono responsabilità morali che impongono l'intervento umanitario, volto però a difendere i diritti fondamentali: la vita, e le libertà individuali di pensiero, di parola, di religione». Il successo di questa prima Lezione Bobbio, è la conferma che vi sia ancora spazio e voglia di per esprimere valori che comportano indipendenza di giudizio e assunzione di responsabilità e anche per questo che il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ha espresso l'auspicio che questa iniziativa si ripeta con cadenza periodica «perché la città possa continuare a riflettere sulle idee di Norberto Bobbio».

Togliatti nelle foto di Life



venerdì 25 luglio 2014

Claudio Magris, vanità e illusione dell'egocentrismo

L’egoista e l’egocentrico

Nietzsche apprezzava la volontà di potenza che sa ghermire, ma sapeva che, anche per essere veramente forte, ogni io deve rendersi conto di essere un’entità trascurabile

Corriere della Sera, 24 luglio 2014

Condannato dalle filosofie e dalle religioni che affermano l’altruismo e l’amore del prossimo, l’egoismo è stato pure celebrato da chi vi ha visto una fonte di competitiva energia individuale che, nel perseguimento dei propri interessi, concorre senza volere alla vitalità di una società in generale. Che una dose di egoismo sia necessaria per la sopravvivenza è ovvio ed è altrettanto ovvio che essa va contenuta, altrimenti diventa distruttiva e autodistruttiva. L’io non dovrebbe mai dimenticare ciò che lo trascende e dà senso alla sua stessa vita; le nostre contingenze, scriveva Biagio Marin al suo traduttore cinese, colorano l’eternità di Dio, rispetto alla quale esse sono solo colori, effimere apparenze, delle lunghezze e frequenze d’onda della luce. Ma non è l’egoismo ad avvelenare l’esistenza, propria e altrui. È un suo parente, stretto ma degenere, a guastare più gravemente la vita di un individuo e il suo rapporto con quella degli altri: l’egocentrismo, rispetto al quale un ragionevole e autocritico egoismo può essere quasi un rimedio, una cura omeopatica, una piccola virtù.
Sino a certi limiti, l’egoismo è non solo inevitabile, ma più che comprensibile. È ovvio che, se giocassi all’Enalotto, spererei di essere io il vincitore piuttosto che un altro; se pubblico un libro, il suo destino e il suo successo mi stanno a cuore più di quelli dei libri scritti da altri. Ma l’egoista non ebbro di se stesso, non egocentrico, sa benissimo che ciò vale per tutti e che ognuno legittimamente persegue come lui il proprio bene, anche se è una persona generosa che, quando può, aiuta gli altri. L’egocentrico invece ritiene che il suo problema – il suo lavoro, il suo libro, il suo progetto, le sue idee, la sua situazione sentimentale – sia in assoluto il più importante, anzi l’unico veramente importante e sotto sotto pensa che pure gli altri, pure i suoi concorrenti, pure Dio dovrebbero preoccuparsi soprattutto di ciò che sta a cuore a lui, del suo bisogno e del suo desiderio – perché il suo libro è più creativamente sofferto di quelli degli altri, la sua pena è umanamente più profonda e la sua sensibilità più dolorosamente vulnerabile di quelle degli altri.
Ricevo ogni giorno quattro o cinque libri e manoscritti che mi si chiede di leggere e quando rispondo spiegando che mi è impossibile leggere, nelle ore che mi restano dopo aver svolto il mio lavoro, venti libri alla settimana, ottanta al mese, alcuni – pochi – capiscono, mentre altri – più numerosi – reagiscono con acredine, pretendendo che io legga solo il loro testo e lasci perdere quelli degli altri. La richiesta è legittima, ma non la pretesa. Gli esempi potrebbero continuare indefinitamente, in ogni campo.
L’egoista spera di essere felice o almeno non troppo infelice; l’egocentrico lo pretende come un privilegio speciale, un diritto divino concesso soltanto a lui e rovescia sugli altri – non lasciandoli neanche respirare - le sue pene, le sue delusioni, le sue speranze. Nel lavoro come in una relazione sentimentale, l’egocentrico tende a sentirsi incompreso, mal ripagato e pone al centro del mondo la sua stizza, la sua malinconia, la sua infelicità e soprattutto la sua convinzione che l’altro, l’altra, gli altri non capiscono l’ineffabile ricchezza del suo cuore. Nietzsche apprezzava, almeno in teoria, la volontà di potenza che sa ghermire, ma sapeva che, anche per essere veramente forte, ogni io deve rendersi conto di essere un’entità trascurabile. Pure la felicità ha bisogno di un certo oblio di se stessi e di dire, con Nietzsche, «che cosa importa di me!».

giovedì 24 luglio 2014

La vergine Camilla in battaglia

 

 

CAMILLA (lat. Camilla). - La storia della vergine Camilla è raccontata da Diana nell'Eneide (XI, 532 segg.). Suo padre era Metabo, re della volsca Privernum, che, costretto a fuggire dalla città, si prese in collo la figlioletta. Giunto alla sponda dell'Amaseno e temendo di passarlo a nuoto con la bimba, la legò, chiusa in una corteccia di sughero, alla sua grande asta, la consacrò a Diana (e di qui gli antichi spiegavano il suo nome; v. camillo) e la scagliò sopra la corrente. Passò quindi il fiume a nuoto e trovò sull'altra riva C. salva per opera di Diana. Metabo nutrì la figlia di latte di cavalla selvaggia, e appena poté l'armò di giavellotto, d'arco e di frecce; vestita di pelli di tigre, essa cacciava, invano desiderata come nuora dalle madri tirrene. Alleata dei Latini e di Turno contro i Troiani di Enea, l'Amazzone italica compare alla testa d'uno squadrone di cavalieri nella rassegna del libro VII (v. 803 segg.), compie prodigi di valore nella grande battaglia del libro XI (v. 648 segg.), finché viene uccisa dall'etrusco Arunte.
Alcuni ritengono che Virgilio abbia dato veste poetica a una antica leggenda locale volsco-latina o ne abbia preso alcuni elementi; altri invece ritengono la storia di C. composta da Virgilio stesso, che solo ne parla, specie sul modello del mito greco di Arpalice; anche la figura di Pentesilea sarebbe stata presente al poeta. (Plinio Fraccaro, Treccani 1930)

Dopo questi giunse Camilla di stirpe volsca guidando
una schiera di cavalieri e squadre fulgenti di bronzo, guerriera,
lei non avvezza alla conocchia ed ai cestelli di Minerva 805
con le mani femminee, ma a sopportare da ragazza i duri
scontri e con la corsa a piedi precedere i venti.
Ella volerebbe anche sulle cime degli steli di una messe
intatta né avrebbe sfiorato con la corsa le tenere spighe,
pure sospesa nel mezzo del mare su flutto rigonfio 810
correrebbe la rotta né bagnerebbe con l'acqua le celeri piante.
La ammira tutta la gioventù riversata dalle case e dai campi
e la folla delle madri e la contempla mentre avanza,
con gli animi attoniti, a bocca aperta, come il regale onore
veli le spalle graziose, come la fibbia d'oro intrecci 815
la chioma, come lei porti la licia faretra
e il pastorale mirto con in cima una punta.

VII, 803-817, traduzione di Luca Canali


In mezzo agli eccidi Amazzone esulta, scoperto
un solo lato del petto per combattere, la faretrata Camilla;
e ora raccoglie nella mano flessibili dardi saettandoli,
ora con la destra, instancabile, impugna la valida scure;
aureo le risuona sulle spalle l'arco, e le armi di Diana.
Inoltre ella, se talvolta respinta indietreggia,
volgendosi scocca con l'arco frecce durante la fuga.
Le sono intorno elette compagne, la fanciulla Larina
e Tulla, e Tarpea che brandisce la scure di bronzo,
Italidi, che la ninfa Camilla scelse, onore a sé,
e valide ancelle di pace e di guerra:
come le tracie Amazzoni quando percuotono le rive
del Termodonte e combattono con armi dipinte,
o intorno a Ippolita, o quando la marzia Pentesilea
ritorna sul carro, e con grande tumulto ululante
le schiere femminee esultano con gli scudi lunati.
Chi abbatti per primo col dardo, o vergine fiera,
chi per ultimo? o quanti corpi morti rovesci in terra?
Per primo Euneo, figlio di Clizio: a lui che le si oppone
apre e attraversa il petto con la lunga asta;
egli cade vomitando fiotti di sangue, e morde
la terra cruenta, e morendo si rotola sulla ferita.
Poi Liri, e su lui Pagaso; di essi, Luno
mentre rovesciato dal cavallo trafitto raccoglie le redini,
L'altro mentre accorre e tende la destra inerme al caduto:
crollano insieme. Ad essi aggiunge Amastro
Ippotade, e insegue incalzando da lontano con l'asta
Tereo e Arpalico e Demofoonte e Cromi;
quanti furono i dardi che la vergine scagliò con la mano,
tanti caddero guerrieri frigi. Lontano trascorre
Ornito cacciatore con armi ignote e su un cavallo iapige:
gli copre le larghe spalle mentre combatte la pelle strappata
a un torello, gli proteggono il capo lenorme bocca
spalancata e le mascelle d'un lupo dai bianchi denti,
e gli arma la mano un rustico spiedo; saggìra
in mezzo alle torme e di tutto il capo le sovrasta.
Ella lo sorprese (non le fu difficile per il volgersi
della schiera), e lo trafisse, e ostilmente parlò:
"Pensavi, o etrusco, di cacciare fiere nei boschi?
Venne il giorno che confuta le vostre parole
con armi muliebri; tuttavia riporterai ai Mani dei padri
una gloria non piccola: cadesti per il dardo di Camilla".
Di seguito Orsiloco e Bute, due corpi giganti
fra i Teucri: ma trafisse Bute con l'asta da tergo
tra l'elmo e la corazza, dove traluce il collo di chi siede
in arcione, e lo scudo pende dal braccio sinistro;
invece fuggendo in un grande cerchio inganna
Orsiloco con un giro più stretto, e insegue l'inseguitore;
alta levandosi, replica il colpo della robusta scure
sull'armi e sulle ossa dell'uomo che implora e molto prega;
lo squarcio riga il volto di caldo cervello.
Si imbatté in lei. e atterrito dalla vista improvvisa
ristette, il figlio guerriero di Auno abitatore dell'Appennino,
non ultimo dei Liguri, finché il fato gli permise
di tramare insidie. Appena vide che ormai con nessuna fuga
poteva evitare lo scontro o sviare la regina incalzante
cominciando a tendere tranelli con ingegno ed astuzia,
insinua: "Che c'è di tanto glorioso se, donna,
confidi in un forte cavallo? Smetti di fuggire, e discendi
con me su un terreno piano, e accingiti a un duello a piedi:
saprai a quale rovina conduca una gloria vana".
Disse; quella, furente, e accesa da aspro dolore
affida il cavallo a una compagna, e si pianta con armi pari,
a piedi, con la nuda spada, impavida con lo scudo senza fregi.
Ma il giovane, credendo di avere vinto con l'inganno, si invola,
e d'un tratto, voltate le briglie, s'allontana in fuga
e tormenta lo spronato cavallo coi talloni ferrati.
Ligure bugiardo, e invano esaltato con animo
superbo, inutilmente tentasti insidioso i patrii artifici:
la frode non ti ricondurrà incolume al fallace Auno.
Così parla la vergine, e fulminea coi rapidi piedi
sorpassa il cavallo, e di fronte, afferrato il morso
lo assale, e prende vendetta dal sangue nemico:
così facilmente lo sparviero, volatile sacro, dal sommo
di una rupe, raggiunge a volo un'altissima colomba
in una nube e lafferra e la tiene, e la sventra con gli artigli;
allora sangue e penne strappate cadono dal cielo.
Ma l'alto genitore degli uomini e degli dei siede in vetta
all'Olimpo, con occhi attenti osservando queste vicende:
il padre sprona il tirreno Tarconte a crudele
battaglia, e gli infonde con aspri stimoli lira.
Dunque, tra eccidi e schiere vacillanti, Tarconte
avanza a cavallo, e incita con varie grida le squadre,
chiamando ciascuno per nome, e rincuora a battaglia i vinti.
"Quale terrore vi prese, o voi che tutto sopportate,
o sempre inerti Tirreni? Quale grande viltà invase gli animi?
Una femmina vi mette in fuga e travolge queste schiere!
Perché impugniamo il ferro e gli inutili dardi?
Ma non indolenti nelle notturne battaglie di Venere,
o quando il ricurvo flauto invita alle danze di Bacco,
aspettate le vivande e le coppe sulla mensa ricolma
(questa è la passione, questo è lo zelo), finché l'aruspice
propizio annunzia il sacrificio, e una pingue vittima vi chiama
nei boschi profondi!". Detto così, sprona il cavallo nel folto.
pronto a morire, e torvo si scaglia su Venulo,
e strappa il nemico da cavallo e lo avvinghia con la destra,
e lo porta davanti a sé in grembo a galoppo sfrenato.
Si leva al cielo un clamore, e tutti i Latini
volgono gli occhi. Vola fulmineo sul piano
Tarconte, portando le armi e l'uomo; spezza il ferro
dalla punta dell'asta di Venulo, e cerca le parti scoperte
dove colpire a morte; ma l'altro lottando trattiene
la destra lontano dal collo e schiva la forza con la forza.
Come in alto volando una fulva aquila porta
un serpente ghermito, e vi avvinghia le zampe e lo artiglia,
mentre il serpente ferito si snoda in anelli sinuosi,
e drizza irto le squame e sibila con la bocca
protendendosi in alto; ma l'aquila incalza col rostro
adunco il ribelle, e insieme flagella con le ali il cielo:
così Tarconte rapisce trionfante la preda dalla schiera
tiburte; seguendo l'esempio e il successo del capo,
i Meonidi assalgono. Allora il predestinato Arrunte,
con la lancia e con molta maggiore astuzia, insidia la veloce
Camilla, e tenta la via più agevole della fortuna.
Dovunque la vergine furente si porta in mezzo alla schiera,
là Arrunte s'insinua, e silenzioso ne scruta i passi;
dovunque quella ritorna vittoriosa e si ritrae dal nemico,
là di nascosto il giovane volge le celeri briglie,
e già percorre questi e quei passaggi e perfido scuote l'asta sicura.
Per caso Cloreo, un tempo sacerdote consacrato
al Cibelo, riluceva lontano nell'armi frigie,
e spronava uno schiumante cavallo, coperto di una pelle
con squame di bronzo simili a pinne e con fibbie doro.
Splendente di esotica porpora ferrigna,
egli scagliava frecce gortinie con l'arco licio,
aureo l'arco gli pendeva dalle spalle, aureo il veggente
aveva l'elmo; aveva raccolto in un nodo la crocea clamide
e le pieghe di mussola fruscianti di fulvo oro,
aveva la tunica ricamata e barbarici schinieri alle gambe.
La vergine cacciatrice, sia per appendere al tempio
armi troiane, sia per incedere adorna d'oro predato,
inseguiva cieca lui solamente di tutta
la mischia della battaglia, e incauta per tutta la schiera
ardeva di femmineo amore della preda e delle spoglie:
quando infine dallagguato, còlto listante,
Arrunte scaglia la lancia, e prega così i celesti:
Sommo degli dei, Apollo custode del santo Soratte,
tu che primi tra tutti veneriamo, a cui alimentiamo le
fiamme con cataste di pino, e, fidando nella pietà, camminiamo,
noi tuoi adoratori, tra il fuoco e su molta brace,
concedi, o Padre, di cancellare codesta vergogna
con le nostre armi, tu che puoi tutto. Non chiedo
le spoglie e il trofeo della vergine sconfitta; le altre
imprese mi daranno fama: purché la crudele rovina
cada per il mio colpo, ritornerò oscuro nella città patria.
Febo udì, e diede che si avverasse una parte
del voto, L'altra parte disperse nelle alate brezze:
consentì al supplice di abbattere con una subitanea morte
Camilla accecata; non permise che lo vedesse reduce
lalta patria, e le tempeste rapirono la voce tra i venti.
Dunque, appena l'asta scagliata sibilò nell'aria,
tutti i Volsci protesero i fervidi animi e posarono
lo sguardo sulla regina. Ella non s'avvide di nulla,
dell'aria, del sibilo, o del dardo che veniva dal cielo,
finché l'asta, arrivata sotto la nuda mammella
vi rimase confitta e bevve profondamenre il virgineo sangue.
Le compagne accorrono trepidanti, e sostengono la regina
che cade. Fugge atterrito prima di tutti Arrunte,
diviso tra giubilo e timore, e non osa più
affidarsi alla lancia, né esporsi ai colpi della vergine.
E prima che lo raggiungano i colpi nemici,
torbido Arrunte si sottrasse alla vista
e contento della fuga si mischiò in mezzo alle armi:
come un lupo, ucciso il pastore o un grande giovenco,
si cela subito sugli alti monti, lontano da ogni sentiero,
consapevole dell'impresa temeraria, e ripiega strisciando
la coda tremante al di sotto del ventre, e cerca le selve.
Quella, morente, tenta di strappare la lancia,
ma la punta di ferro sta con profonda ferita tra le ossa
del costato. Cade esangue; cadono fredde di morte
le palpebre; il colore prima purpureo lasciò il volto.
Allora spirando parla così ad Acca,
una delle coetanee, tra tutte la più fedele a Camilla,
con cui divideva gli affanni, e le dice così:
"Fin qui, sorella Acca, potei; ora un'acerba
ferita mi spegne, e tutto mi si oscura di tenebre.
Corri, e riferisci a Turno questo estremo messaggio:
entri in battaglia e difenda la città dai Troiani.
E ora addio". Insieme con queste parole abbandonava
le redini, scivolando involontariamente a terra; a gradi
si sciolse fredda da tutto il corpo e posò il languido
collo e il capo preso dalla morte; le armi la lasciano,
e la vita con un gemito fugge dolente tra le ombre.
Allora un immenso grido sorgendo ferisce le auree
stelle; la battaglia si fa più crudele, abbattuta Camilla;
assalgono folti, insieme, tutto l'esercito dei Teucri
e i capi tirreni e le arcadi squadre di Evandro.
Ma la scolta di Trivia, Opi, da tempo siede
alta sulla vetta dei monti, e osserva imperterrita la battaglia;
e come scorse lontano, tra il clamore dei giovani
furenti, Camilla colpita da triste morte,
gemette, e dal profondo del cuore espresse queste parole:
"Ahi troppo, o fanciulla, troppo crudele pena
hai pagato, tentando di provocare a guerra i Troiani!.
A te, solitaria nei boschi, non giovò avere onorato
Diana, o aver recato sospesa alla spalla la nostra faretra.
Ma non senza onore la tua regina ti lasciò
nell'estremo momento della morte; la tua fìne non sarà
senza nome tra i popoli, e non soffrirai fama di invendicata.
Infatti chiunque abbia violato il tuo corpo di ferita,
pagherà con giusta morte". Ai piedi di un alto monte
v'era su un terrapieno il grande sepolcro del re Dercenno,
antico laurente, protetto da un ombroso elce;
qui prima la bellissima dea si posa con rapido
balzo, e spia Arrunte dall'alto del tumulo.
Come lo vide esultante e vanamente orgoglioso:
"Perché - esclamò - ti allontani? Dirigi qui il passo,
qui, o morituro, vieni per ricevere un premio degno
di Camilla. E tu non cadrai per i dardi di Diana?".
Disse, e la tracia cavò dalla faretra d'oro un'alata
saetta, e la tese minacciosa nellarco,
e la trasse indietro finché le ricurve estremità
si congiunsero tra loro, e le mani toccarono, a pari altezza,
la sinistra la punta del ferro, la destra e il nervo il seno.
D'un tratto Arrunte udì lo stridere del dardo
e il sibilo dell'aria e insieme il ferro gli s'infisse nel corpo.
I compagni dimentichi lasciano nell'ignota polvere
dei campi lui che spirava e dava gli estremi singulti;
Opi sallontana a volo verso l'etereo Olimpo.
Fugge per prima, perduta la sovrana, la lieve
squadra di Camilla; sconvolti fuggono i Rutuli, fugge
l'aspro Atina, e i capi dispersi e i manipoli abbandonati
cercano luoghi sicuri e galoppano in rotta alle mura.
Nessuno vale a trattenere con le armi i Teucri
che incalzano e seminano strage, o a resistere allurto;
riportano sulle spalle languenti gli archi allentati,
e lo zoccolo dei cavalli scuote nella corsa il molle terreno.
Si volge alle mura una polvere torbida di nera
caligine, e le madri dalle rocche, battendosi il petto,
levano un femmineo clamore alle stelle del cielo.
Quelli che irruppero per primi di corsa nelle porte dischiuse,
la turba nemica li incalza, mischiate le schiere;
non sfuggono a una misera morte, e proprio sulla soglia,
dentro le patrie mura e tra le case sicure,
trafitti esalano la vita. Altri chiudono le porte;
e non osano aprire la via ai compagni, né accogliere
tra le mura gli imploranti; nasce una miserevole strage
di chi difende laccesso con le armi, e di chi sulle armi si getta.
Gli esclusi, davanti agli occhi e al volto dei genitori
piangenti, parte sospinti dalla ressa precipitano nei fossati,
parte, ciechi al galoppo sfrenato, cozzano con furia
contro le porte e i battenti serrati da spranghe.
Anche le madri dalle mura, nell'estremo cimento
(come il vero amore di patria insegna), emulando Camilla,
trepidanti gettano dardi, e con rami di dura quercia
e pali aguzzati al fuoco imitano il ferro e savventano;
ardono di morire per prime in difesa delle mura.
Frattanto il crudele annunzio investe Turno nei boschi
e Acca riferisce al giovane il grande disastro:
disfatte le schiere dei Volsci, caduta Camilla,
i nemici assalgono minacciosi; col favore di Marte
invadono tutto, il terrore dilaga alle mura.
Egli furente (così richiede il crudele volere di Giove)
abbandona i colli occupati, lascia i boschi selvaggi.
Appena uscito dal luogo di vedetta, teneva il carnpo
quando il padre Enea, penetrato nelle libere gole,
supera il giogo e sbocca dall'ombrosa selva.
Così ambedue si dirigono rapidi alle mura
con tutta la schiera, e distano poco tra loro;
e insieme Enea scorse lontano la pianura
fumare di polvere e vide le schiere laurenti
e Turno riconobbe Enea terribile nell'armi
e udì l'avanzare dei passi e l'ansito dei cavalli;
subito entrerebbero in battaglia e tenterebbero lo scontro,
se il purpureo Febo non bagnasse già i cavalli stanchi
nell'onda iberica e, cadendo il giorno, non riportasse la notte.
Si accampano davanti alla città e trincerano le mura.

XI, 648-915, traduzione di Luca Canali

mercoledì 23 luglio 2014

Fofi, l'Italia di Arbasino


Alberto Arbasino, Ritratti italiani
Adelphi, 552 pagine, 28 euro
recensione di Goffredo Fofi

“Meglio di un romanzo”. Scrittore finissimo, Arbasino ci regala una delle sue auto-antologizzazioni più istruttive: una storia d’Italia sregolata, più culturale e “centrale” che eterodossa e più giornalistica che saggistica, che ci conferma nell’ammirazione come nelle riserve per questo imprescindibile scrittore e personaggio. Ci sono tutti, in questi ritratti?
Mancano quelli di chi apparteneva a un mondo diverso da quello frequentato da uno scrittore sempre troppo “in” e “nel vento”, e che alla distanza risultano i rappresentanti di una diversità fortemente etica, studiosi e uomini d’azione che egli avrebbe ben potuto conoscere e ritrarre: da Parri a Olivetti (ma ci sono, molto timorati, gli incontri con Agnelli, Moro, Pertini, Umberto di Savoia), da Mazzolari a Milani (invece c’è Siri), da Salvemini a E. De Martino (ma per fortuna c’è Bobbio), da Morante e Ortese a Sereni e Giudici a Zanzotto e Rosselli. Non c’è, tra i boss, Eugenio Scalfari, che il monumento se lo fa da sé.
L’indice è rivelatore di logiche, curiosità, affinità. Consoliamoci: ci sono i grandi e gli ovvi e grandi marginali della cultura, che l’autore ha tutto il diritto di aver scelto di conoscere. Questi ritratti non bastano a “fare storia”, ma danno il quadro di un’epoca ricca di personaggi memorabili e di artisti, quella del boom e della progressiva italica decadenza.

Internazionale, numero 1060, 18 luglio 2014

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Questo libro di Alberto Arbasino è così straordinariamente bello e ricco che da ogni frase si può ricavare un intero romanzo. Non ci credete? Ecco le prove (a volte, ma di rado, mi sono permesso minimi aggiustamenti).
1) «Il Goffredo che avevo conosciuto a Milano negli anni Cinquanta era un giovanotto di successo…». Titolo: Parise, a noi due.
2) «Un’aura vedovile e scolastica sta avvolgendo la letteratura più originale e più autentica del nostro Novecento…». Titolo: Il lutto si addice alle Lettere.
3) «In un Balenciaga rosso squillante e magari una toque di scimmia, Mimì Pecci si accendeva sigarini e sigarette attraverso la veletta di pizzo…». Titolo: Mimì Marlene.
4) «L’ultima volta che ho visto Pertini, stavo conversando a un ricevimento del Quirinale, quando mi sono sentito due dita improvvisamente nel colletto. Era il Presidente, che andava in giro a controllare i cravattini, e ne aveva già trovato diversi col nodo già confezionato. Li trovava deplorevoli, e li redarguiva parecchio…». Il farfallino di Dinard.
5) «Nei tardi anni Cinquanta abitavo sui tetti di Via Frattina, con una scrivania monumentale senza cassetti (erano serviti a un trasloco di camicie di Franco Zeffirelli)…». Il gatto sul tetto che scotta.
6) «Da ragazzo, Moravia era seccante e antipatico. Raccontava un famoso clinico che quando loro giovanotti andavano a prendere le due sorelle maggiori per qualche thé dansant, e la mamma De Marsanich li accoglieva amabilmente, il giovane autore degli Indifferenti si divertiva a tagliare e cucire le loro maniche e tasche in anticamera…». Albertino disparu.
7) «Nel romanzo Roma, il 24 marzo 1944, Pio XII non è ancora il cadavere male imbalsamato dagli archiatri che esplode durante la veglia notturna a San Pietro, con le guardie svizzere che crollano per la gran puzza sotto il baldacchino del Bernini…». I sotterranei del Vaticano, un horror.
Non c’è una parola di più, una di meno. Solo le parole giuste. Magister.

Antonio D'Orrico
Corriere della Sera, La Lettura, sd 

martedì 22 luglio 2014

Flaubert, la rivoluzione trionfante

Gustave Flaubert
L'éducation sentimentale
parte terza, capitolo primo


    I tamburi battevano la carica; s'alzavano grida acute, urli di trionfo. La folla ondeggiava di continuo in una sorta di risucchio. Federico non avrebbe potuto muoversi, stretto com'era fra due massicce moltitudini; e poi era affascinato, si divertiva un mondo. I feriti che cadevano a terra, i morti lunghi distesi noti avevan l'aria di veri feriti, di veri morti. Gli sembrava d'assistere a uno spettacolo.
            Più alto di quel mareggiare di teste si vide, a un tratto, un vecchio vestito di nero sopra un cavallo bianco. La sella era di velluto; e l'uomo teneva in una mano un ramoscello verde, nell'altra un foglio di carta, e li agitava con ostinazione. Alla fine, disperando che lo ascoltassero, si tirò da parte.
            La fanteria era scomparsa è le guardie municipali eran rimaste sole a tenere la posizione. Come un colpo d'onda più forte, un gruppetto d'intrepidi raggiunse d'impeto la scalinata; furono abbattuti, altri sopraggiunsero; la porta risuonava sotto le sbarre di ferro che la scuotevano. I municipali tenevano duro. Ma una carretta stipata di fieno, che bruciava come una torcia gigantesca, fu trascinata contro le mura. Poi, in fretta, aggiunsero fascine, paglia, un bariletto di alcool. Il fuoco prese a serpeggiare lungo le pietre, l'edificio fumava da ogni parte come una zolfatara; in alto, fra le colonnine della terrazza, larghe fiamme esplodevano sibilando. Il primo piano del Palazzo Reale s'era popolato di guardie nazionali. Sparavano sulla piazza da tutte le finestre; le pallottole fischiavano, dalla fontana bucherellata l'acqua scendeva a mescolarsi col sangue in fangose pozzanghere frammezzo alle quali si scivolava su armi abbandonate, caschi, vestiti. Federico s'era sentito sotto il piede qualcosa di cedevole: era la mano d'un sergente in pastrano grigio, caduto a faccia in giù nel rigagnolo. Arrivavano in continuazione nuove bande popolari, sospingendo gli attaccanti verso l'edificio assediato. Le scariche di fucilate diventavan più fitte. Le osterie erano aperte: ci si andava ogni tanto a fumare una pipa, a bere un boccale di birra, poi si tornava a combattere. Un cane che s'era perso uggiolava; la gente, intorno, rideva.
            Federico fu investito in pieno da un uomo che gli cadde addosso rantolando con una palla nelle reni. Quel colpo, che forse era diretto a lui, lo rese a un tratto furioso; e stava per slanciarsi in avanti quando una guardia nazionale lo trattenne.
            «È inutile: il Re se n'è bell'e andato. Vada lei a vedere, se non ci crede.»
            Quella notizia restituì la calma a Federico. Place du Carrousel aveva un aspetto tranquillo. L'Hôtel de Nantes era sempre lì, alto e solitario, e le case di dietro, e la cupola del Louvre di fronte, la lunga galleria di legno stilla destra, il grande spazio incolto e ondulato che si stendeva sino alle baracche del mercato all'aperto era come se galleggiassero nel grigiore dell'aria, dove lontani murmuri sembravano sciogliersi nella bruma; mentre all'altra estremità della piazza una luce cruda, piombando netta da uno squarcio della nuvolaglia, ritagliava il profilo bianco di tutte le finestre sulla facciata delle Tuileries. Vicino all'Arco di Trionfo,
steso a terra, c'era un cavallo morto. Dietro le cancellate gruppetti di persone erano fermi a conversare. Le porte del castello erano aperte; i domestici, sulla soglia, lasciavano entrare.

...
  Tutt'a un tratto risuonarono le note della Marsigliese. Hussonnet e Federico si sporsero sulla rampa: era il popolo. Si precipitò su per la scalinata agitandosi in ondate vertiginose di teste scoperte, copricapi di cuoio, berretti rossi, spalle e baionette, con un impeto tale che alcuni erano come inghiottiti dentro quella massa brulicante che saliva, saliva sempre, simile a un fiume compresso dall'alta marea, spinta da un irresistibile impulso cui faceva da sfondo sonoro un lungo, sordo muggito. In alto la fiumana si disperdeva; il canto cadde.
            Ormai si sentiva solo lo stropicciare di tutte quelle scarpe, lo sciacquio sommesso delle voci. Inoffensiva, la folla s'accontentava di guardare. Ogni tanto, però, un gomito troppo pressato sfondava qualche vetro; da una console rotolava a terra un vaso, una statuetta. I rivestimenti di legno scricchiolavano. Le facce di tutti eran rosse, il sudore ne colava copioso.
            «Gli eroi non sanno di buono,» fu l'osservazione di Hussonnet.
            «E tu sei terribilmente irritante,» replicò Federico.
            Sotto la spinta della folla, entrarono senza volerlo in una grande sala dove un baldacchino di velluto rosso s'innalzava sino al soffitto. Al disotto, sul trono, s'era seduto un proletario dalla barba nera, con la camicia sbottonata sul petto e l'aria ilare e stupida d'un fantoccio. Altri s'accalcavano sulla pedana per mettersi al suo posto.
            «Ecco il grande mito,» disse Hussonnet. «Il popolo sovrano!»
            Il trono, sollevato a forza di braccia, attraversò ondeggiando tutta la sala.
            «Perdinci, guarda come beccheggia. Il vascello dello Stato sballottato su un mare in tempesta... Che danza frenetica!»
            Fu trascinato sino a una finestra e da lì, in mezzo a una selva di fischi, scaraventato fuori.
            «Povero vecchio Stato!» commentò Hussonnet seguendone il tonfo giù in giardino, dove subito fu raccolto, portato a spasso fino alla Bastiglia, dato alle fiamme.
            Esplose, allora, una gioia frenetica, come se ai posto lasciato vuoto dal trono fosse comparso un avvenire di felicità senza limiti; e il popolo, meno per vendicarsi che per un'affermazione di possesso, si diede a frantumare specchi, a lacerare tendaggi, a fare a pezzi i lampadari, i candelabri, i tavoli, le sedie, gli sgabelli, tutta la mobilia: persino le collezioni di disegni, ì fiori ricamati. Ottenuta la vittoria, bisognava pur divertirsi! La canaglia s'agghindò buffonescamente di pizzi e scialli preziosi. Frange dorate s'attorcigliavano alle maniche dei camiciotti, cappelli con piume di struzzo ornarono le teste dei fabbri ferrai; i nastri della Legion d'onore servivano da cintura alle prostitute. Ciascuno dava sfogo a un suo capriccio: c'era chi beveva, chi s'era messo a ballare. Nella stanza della regina una donna si dava la pomata sui capelli; dietro un paravento due appassionati di carte erano intenti al gioco. Hussonnet fece notare a Federico un tale che, appoggiato sui gomiti a un balcone, si fumava la sua pipetta, cresceva di continuo, fino al delirio, il fracasso delle porcellane mandate in frantumi, delle schegge di cristallo che risuonavano rimbalzando come le note d'un'armonica.
            Poi il furore si fece cupo. Una curiosità oscena spingeva la gente a frugare nei salottini, negli spogliatoi, in tutti gli angoli, ad aprire tutti i cassetti. Avanzi di galera affondavano il braccio nelle lenzuola delle principesse, ci si rotolavano sopra per consolarsi di non poter avere loro tra le grinfie. Altri, dai visi ancor più sinistri, vagavano in silenzio alla ricerca di qualcosa da rubare: ma c'era troppa gente intorno. Sogguardando, dai vani delle porte, l'infilata dei saloni, non si scorgeva che la massa del popolo, scura contro le dorature e avvolta in una nube di polvere. Tutti ansimavano, il caldo si faceva via via più soffocante; i due amici, temendo di soffocare, guadagnarono l'uscita.
            In anticamera una puttana era dritta sopra un mucchio di panni in posa di statua della Libertà; immobile, con gli occhi spalancati, faceva paura.
            Fuori non fecero in tempo a far tre passi che s'imbatterono in un plotone di guardie municipali in bassa uniforme, i quali, togliendosi il berretto e scoprendo in quell'atto le loro teste un po' calve, salutarono il popolo con un profondo inchino. A tale testimonianza di rispetto, i vincitori in brandelli gonfiarono il torace. Anche Hussonnet e Federico non mancarono di provarne qualche piacere.
...

 Gli affari erano sospesi: l'inquietudine, la sciocca curiosità spingevano tutti quanti a riversarsi nelle strade. Il modo trascurato di vestirsi attenuava le differenze sociali, gli odii restavan nascosti, si faceva sfoggio di speranze; la folla era tutta pervasa di dolcezza. L'orgoglio dei diritti conquistati risplendeva sui volti.
            Circolava un'allegria da carnevale, modi e abitudini da bivacco; niente fu spassoso come l'aspetto di Parigi, in quei primi giorni.
   

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Giovanni Bottiroli 
Introduzione a Flaubert, L’educazione sentimentale, Einaudi, Torino 2002

È stata fatta rilevare più volte la sincronia tra lo scacco privato di Frédéric – l’appuntamento mancato con Mme Arnoux, trattenuta dall’improvvisa malattia del figlio – e lo scacco della rivoluzione del 1848. Secondo Erich Köhler la sfera individuale e la sfera sociale avevano, nel 1848, una cosa in comune: l’impotenza a realizzare il possibile.
...  La generazione del 1848 non soffre di impotenza relativamente al possibile. Al contrario, essa si nutre del possibile, o forse dovremmo dire che nutre il possibile con l’indulgenza tenera e idealizzante di una madre. Il difetto di questa generazione è la mediocrità – un vizio antico, il vizio più comune e diffuso, il più equamente ripartito (per citare e parodiare Descartes) nella razza umana. Flaubert ha saputo cogliere la novità del suo tempo: d’ora in poi gli uomini vivranno meno nel reale che nel possibile, e si abitueranno ad accusare la realtà – il caso, l’epoca, le circostanze, che non sanno adeguarsi ai loro sogni. Se ascoltiamo i discorsi di quest’epoca, il mormorio della medietà, il dilagare degli stereotipi, l’arroganza delle fantasticherie e dei desideri, la tenace ottusità del risentimento, ritroveremo in ogni istante l’energia sterile di individui e di gruppi che non sono in grado di entrare nel tempo con qualcosa di diverso dalle loro inesauribili e ridicole velleità.

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Si veda anche  http://machiave.blogspot.it/2013/06/gavroche-e-la-sua-canzone.html

lunedì 21 luglio 2014

Il lavoro, la responsabilità, il comando

Simone Weil

L’iniziativa e la responsabilità, il senso di essere utile e persino indispensabile, sono bisogni vitali dell’anima umana.
Una completa privazione di questo si ha nell’esempio del disoccupato, anche quando è sovvenzionato sí da consentirgli di mangiare, di vestirsi, di pagare l’affitto. Egli non rappresenta nulla nella vita economica e il certificato elettorale che dimostra la sua parte nella vita politica non ha per lui alcun senso.
Il manovale si trova in una situazione appena migliore.
La soddisfazione di questo bisogno esige che un uomo debba prendere spesso decisioni su problemi, grandi o piccoli, i cui interessi siano estranei ai suoi propri, ma verso i quali si senta impegnato. Bisogna anche che debba sforzarsi continuamente. E bisogna infine che possa appropriarsi col pensiero dell’intera opera della collettività di cui fa parte, compresi i settori sui quali non avrà mai da prender decisioni né pareri da dare. Per questo bisogna fargliela conoscere, chiedergli il suo interessamento, rendergliene sensibile il valore, l’utilità e, se è il caso, la grandezza; e fargli chiaramente comprendere la parte che egli ha.
Ogni collettività, di qualsiasi specie essa sia, che non soddisfi queste esigenze dei suoi membri è guasta e dev’essere trasformata.
In ogni personalità un po’ forte il bisogno d’iniziativa giunge fino al bisogno di comando. Un’intensa vita locale o regionale, una grande quantità di opere educative e di movimenti giovanili devono offrire, a chiunque ne sia capace, l’occasione di comandare durante un determinato periodo della sua vita.

S. Weil, La prima radice,  Comunità, Cremona, 1954, pagg. 21-22

domenica 20 luglio 2014

Pasolini torna a Matera, una mostra multimediale


Il "Vangelo secondo Matteo" compie mezzo Secolo. Una mostra mette a fuoco la genesi del capolavoro pasoliniano e il rapporto del regista con la città di Matera, che nell'estate del 1964, sotto un sole «ferocemente antico», divenne Gerusalemme.
L'occasione è preziosa per rileggere, attraverso la scelta di Pasolini e le vicende del set, un momento importante nella storia di un luogo preistorico ancora abitato – i famosi Sassi - che una volta definito "vergogna nazionale", venne svuotato e poi abbandonato. In quegli anni Matera, teatro di profonde contraddizioni, divenne meta privilegiata di intellettuali che andavano scoprendo l'originalità della tradizione estirpata.
La mostra, divisa in sei sezioni, racconta la storia e i luoghi del Vangelo in relazione al clima culturale e artistico di quegli anni, attraverso il doppio contesto del film - quello dell'ideazione ed elaborazione creativa tra Roma, Assisi e la Palestina tra il 1962 e il 1964 e quello della realizzazione delle riprese, del montaggio e della produzione.
L'ultima sezione, intitolata "Tra Gruppo Uno e Gruppo 63" presenta importanti opere d'arte realizzate dai principali protagonisti del dibattito artistico dei primi anni Sessanta per aiutare a comprendere i nuovi orizzonti della scultura italiana negli anni in cui si guarda alle nuove tecniche d'immagine teorizzate da Giulio Carlo Argan e a Venezia la Pop-Art trova la sua consacrazione ufficiale.
L'allestimento si distingue per una forte connotazione multimediale e interattiva basata sul modello delle stazioni creative (ogni sezione sarà introdotta da un narratore, tra gli altri, Goffredo Fofi, Serafino Murri e Padre Fantuzzi) e una narrazione estremamente visiva, resa possibile grazie al montaggio di documenti originali, dipinti, disegni, fotografie, spezzoni cinematografici, interviste, materiale bibliografico e oggetti vari (tra i quali la macchina da presa del regista e i costumi originali del film), per favorire una lettura a più livelli.

"Pasolini a Matera. Il Vangelo secondo Matteo cinquant'anni dopo. Nuove tecniche di immagine: arte, cinema, fotografia"
A cura di Marta Ragozzino e Giuseppe Appella
Museo nazionale d'arte medievale e moderna di Palazzo Lanfranchi, Matera
Dal 21 luglio al 9 novembre 2014

www.artibasilicata.beniculturali.it

 
22 luglio 2014 
L'Osservatore Romano celebra il Cristo di Pasolini
"probabilmente il miglior film su Gesù mai girato"
 
Il giornale vaticano omaggia Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo l'uscita: "Probabilmente il miglior film su Gesù"
L'Osservatore Romano celebra, nel numero di oggi, i cinquant'anni dell'uscita de Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, che il quotidiano della Santa Sede giudica "forse la migliore opera su Gesù nella storia del cinema". "Il Vangelo secondo Matteo (presentato il 4 settembre 1964 a Venezia) - scrive Emilio Ranzato in un lungo pezzo sull'Osservatore Romano -, con un Cristo interpretato da un sindacalista antifranchista, con la Madonna anziana impersonata dalla madre dello stesso regista, con la scena disseminata ancora una volta dai volti dei 'suoi' sottoproletari, con la scabra ambientazione dei Sassi di Matera che ricorda molto le periferie primitive di Accattone, con i riferimenti alla pittura del Quattrocento già individuati nei due film precedenti, nasce prima di tutto per Pasolini come scenario interiore, come presepe intimo in cui far confluire tutti gli elementi della propria tormentata e per molti versi contraddittoria ideologia". "Senonché - prosegue Ranzato -, proprio l'umanità febbrile e primitiva che il regista porta un'altra volta sullo schermo, finisce per conferire un vigore nuovo al verbo cristiano, che in questo contesto appare ancora più attuale, concreto, rivoluzionario". "Che sia un film su una crisi in atto o su un suo superamento - aggiunge l'Osservatore -, Il Vangelo secondo Matteo rimane comunque un capolavoro, e probabilmente il miglior film su Gesù mai girato. Sicuramente, quello in cui la sua parola risuona più fluida, aerea e insieme stentorea. Scolpita nella spoglia pietra come i migliori momenti del cinema pasoliniano".

Weber, il potere carismatico

Max Weber

Il potere carismatico sussiste in virtù di una dedizione affettiva alla persona del signore e ai suoi doni di grazia (carisma) - che sono in particolare le qualità magiche, le rivelazioni o l'eroismo, la potenza dello spirito e del discorso. Le fonti della dedizione personale sono in questo caso ciò che è sempre nuovo, che è inconsueto, che non è mai esistito - nonché l'adesione emozionale a tutto questo. I tipi più puri sono il potere dei profeti, degli eroi guerrieri, dei grandi demagoghi. Il gruppo di potere è l'associazione nella comunità o nel seguito. Il tipo di colui che comanda è il duce, e il tipo di colui che obbedisce è il "discepolo". Al duce si obbedisce esclusivamente in modo personale e in virtù delle sue eccezionali qualità personali, e non a ragione di una posizione statuita o di una dignità tradizionale. Di conseguenza, però, egli viene obbedito soltanto finche dura l'attribuzione di tali qualità, cioè fino al momento in cui il suo carisma viene confermato da una prova. Quando egli è "abbandonato" dal suo dio o è privato della sua potenza eroica o della fede delle masse nelle sue qualità di duce, cade pure il suo potere. L'apparato amministrativo è scelto sulla base del carisma e della dedizione personale - e perciò non in base alla qualificazione tecnica (come l'apparato amministrativo di ceto) né in base alla dipendenza domestica o ad una dipendenza personale di altro tipo (come al contrario accade per l'apparato amministrativo di tipo patriarcale). Mancano sia il concetto razionale di "competenza" che il concetto del "privilegio" di ceto. L'ambito di legittimazione dell'uomo del seguito o del discepolo, che è titolare di un incarico, è determinato soltanto dal messaggio del signore e dalla sua qualificazione carismatica personale. L'amministrazione - nei limiti in cui questo termine risulta adeguato - manca di ogni orientamento in base a regole sia statuite che tradizionali. Essa è caratterizzata dalla rivelazione o dalla creazione attuale, dall'azione e dall'esempio, dalla decisione caso per caso, e quindi - riferita alla misura di un ordinamento statuito - in modo irrazionale. Essa non è vincolata alla tradizione : per i profeti vale il principio "è scritto, ma io vi dico"; gli ordinamenti legittimi cedono alle nuove creazioni che i condottieri compiono con il potere della spada e i demagoghi per mezzo di un "diritto naturale" rivoluzionario da essi proclamato e suggerito. [...] Il potere carismatico è una relazione sociale di carattere specificamente straordinario e puramente personale. Con la continua esistenza, e più tardi con la scomparsa del titolare personale del carisma - se però in questo caso esso non si esaurisce ma persiste in qualche modo, e se quindi l’autorità del signore passa ai successori — il rapporto di potere tende a trasformarsi in pratica quotidiana. (Economia e società)

sabato 19 luglio 2014

Il Dio nascosto e la tragedia

Lucien Goldmann 
La visione tragica è più ampia di quella strettamente razionale

Di fronte a questo sviluppo ascensionale del razionalismo (sviluppo che è proseguito in Francia fino al XX secolo, ma che al XVII secolo si trovava ad una svolta qualitativa essendo appena riuscito attraverso le opere di Descartes e di Galileo a costruire un sistema filosofico coerente ed una fisica matematica incomparabilmente superiore alla vecchia fisica aristotelica), grazie ad un concorso di circostanze che esamineremo successivamente, prende forma il pensiero giansenista che troverà la sua espressione piú coerente nelle due grandi opere tragiche di Pascal e di Racine.
In quest’epoca si può caratterizzare la coscienza tragica attraverso la comprensione rigorosa e precisa del mondo nuovo creato dall’individualismo razionalista, con tutto ciò che esso conteneva di positivo, di prezioso e soprattutto di definitivamente acquisito per il pensiero e la coscienza umane, ma nello stesso tempo attraverso il rifiuto radicale di accettare questo mondo come la sola possibilità e la sola prospettiva dell’uomo.
La ragione è un fattore importante della vita dell’uomo, un fattore di cui l’uomo è a giusto titolo fiero e a cui non potrà mai piú rinunciare, ma essa non è tutto l’uomo e soprattutto essa non deve e non può bastare alla vita umana su nessun piano, neppure quello che a maggior ragione sembra spettarle della ricerca della verità scientifica.
Per questo la visione tragica rappresenta, dopo il periodo amorale e irreligioso del razionalismo e dell’empirismo, un ritorno alla morale e alla religione, a patto che si prenda questa ultima parola nel suo significato piú vasto di fede in un insieme di valori che trascendevano l’individuo. Tuttavia non si tratta ancora di una concezione filosofica e di un’arte che possano sostituire il mondo atomista e meccanicista della ragione individuale con una nuova comunità e un nuovo universo.

Pascal e Racine, Lerici, Milano, 1961, pagg. 57-58

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Se l’elemento essenziale del tragico è la lotta, questa è autenticamente tragica quando le forze che combattono tra loro hanno tutte ragione, ognuna dal suo punto di vista. È in questo contesto che
emerge l’insegnamento del sapere tragico: “la molteplicità della verità, la sua non-unità”. In tal
senso, Jaspers sviluppa un’interpretazione dell’Edipo Re  sofocleo e dell’Amleto  shakespeariano, ossia delle due figure tragiche attraverso le quali, per eccellenza, la questione della ricerca della verità diviene il tema stesso della tragedia, risolvendosi in un naufragio del pensiero che è, contemporaneamente, naufragio del linguaggio. La tragicità appartiene alla dimensione dell’inconoscibile e dell’indicibile.

Patrick Martinotta, Il sapere tragico in Karl Jaspers

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La tragédie ne connaît qu’une forme de pensée et d’attitude valables : le oui et non, c’est à dire le paradoxe : vivre – dans le monde – mais sans y prendre part. Il serait aussi peu cohérent de refuser le monde que de l’accepter dans son ambiguïté et son absurdité : «C’est là l’extrême rigueur et l’extrême cohérence de la conscience tragique telle qu’elle s’exprime dans Phèdre de Racine, dans les écrits philosophiques de Pascal, de Kant, et dans le texte déjà cité de Lukacs, attitude paradoxale et sans doute difficile à décrire et à rendre compréhensible, mais qui, seule, semble-t-il, nous permettra la compréhension des écrits que nous nous proposons d’étudier.»
...  La présence divine l’empêche de refuser le monde, et l’absence divine l’empêche de l’accepter entièrement. L’homme tragique vit pour la réalisation de valeurs rigoureusement irréalisables. Il réunit en lui l’Ange et la Bête, la grandeur et la misère, l’impératif catégorique et le mal radical. Dans le clair et l’ambigu, la proximité du Dieu absent, la seule forme d’expression que connaît l’homme tragique est le monologue, le dialogue solitaire selon une expression de Lukacs. Goldmann remarque que:  «Les Pensées sont un exemple suprême de ces dialogues où tout compte, où chaque mot pèse autant que les autres, où l’exégète ne saurait laisser rien de côté sous prétexte d’exagération ou d’outrance de langage, dialogues où tout est essentiel, parce que l’homme parle au seul être qui pourrait l’entendre mais dont il ne saura jamais s’il l’entend réellement.»
Conscient de la vanité du monde, de l’abîme infranchissable qui le sépare de lui, l’homme sait qu’il ne pourra atteindre la valeur exclusive de Dieu par ses propres forces. Le message que l’ âme croit entendre en permanence est cette voix du Dieu caché, invisible, qui lui apporte la certitude dans le doute, l’optimisme dans la crainte, la grandeur dans la misère. Telle est schématiquement l’interprétation globale que défend Goldmann dans son approche de la vision tragique de Pascal et de Racine.

... Comment expliquer cette étrange affinité entre le jansénisme, la vision tragique qu’il développe, et la petite noblesse de robe ? Goldmann montre que la politique du pouvoir central a progressivement réduit l’importance de ce groupe social, le rejetant pratiquement de la vie économique et politique. C’est cette éviction qui aurait conduit progressivement ce groupe à une position de retraite face au monde et à la vie sociale. Exclue du processus économique, privée de tout avenir social, cette petite noblesse de robe sera la plus sensible à cette idéologie qui prône le refus du monde et son acceptation avec l’ambiguïté qu’une telle position comporte, comme un idéal de vie.


Jean-Michel Palmier 
 http://stabi02.unblog.fr/2009/11/01/goldmann-vivant/