martedì 22 luglio 2014

Flaubert, la rivoluzione trionfante

Gustave Flaubert
L'éducation sentimentale
parte terza, capitolo primo


    I tamburi battevano la carica; s'alzavano grida acute, urli di trionfo. La folla ondeggiava di continuo in una sorta di risucchio. Federico non avrebbe potuto muoversi, stretto com'era fra due massicce moltitudini; e poi era affascinato, si divertiva un mondo. I feriti che cadevano a terra, i morti lunghi distesi noti avevan l'aria di veri feriti, di veri morti. Gli sembrava d'assistere a uno spettacolo.
            Più alto di quel mareggiare di teste si vide, a un tratto, un vecchio vestito di nero sopra un cavallo bianco. La sella era di velluto; e l'uomo teneva in una mano un ramoscello verde, nell'altra un foglio di carta, e li agitava con ostinazione. Alla fine, disperando che lo ascoltassero, si tirò da parte.
            La fanteria era scomparsa è le guardie municipali eran rimaste sole a tenere la posizione. Come un colpo d'onda più forte, un gruppetto d'intrepidi raggiunse d'impeto la scalinata; furono abbattuti, altri sopraggiunsero; la porta risuonava sotto le sbarre di ferro che la scuotevano. I municipali tenevano duro. Ma una carretta stipata di fieno, che bruciava come una torcia gigantesca, fu trascinata contro le mura. Poi, in fretta, aggiunsero fascine, paglia, un bariletto di alcool. Il fuoco prese a serpeggiare lungo le pietre, l'edificio fumava da ogni parte come una zolfatara; in alto, fra le colonnine della terrazza, larghe fiamme esplodevano sibilando. Il primo piano del Palazzo Reale s'era popolato di guardie nazionali. Sparavano sulla piazza da tutte le finestre; le pallottole fischiavano, dalla fontana bucherellata l'acqua scendeva a mescolarsi col sangue in fangose pozzanghere frammezzo alle quali si scivolava su armi abbandonate, caschi, vestiti. Federico s'era sentito sotto il piede qualcosa di cedevole: era la mano d'un sergente in pastrano grigio, caduto a faccia in giù nel rigagnolo. Arrivavano in continuazione nuove bande popolari, sospingendo gli attaccanti verso l'edificio assediato. Le scariche di fucilate diventavan più fitte. Le osterie erano aperte: ci si andava ogni tanto a fumare una pipa, a bere un boccale di birra, poi si tornava a combattere. Un cane che s'era perso uggiolava; la gente, intorno, rideva.
            Federico fu investito in pieno da un uomo che gli cadde addosso rantolando con una palla nelle reni. Quel colpo, che forse era diretto a lui, lo rese a un tratto furioso; e stava per slanciarsi in avanti quando una guardia nazionale lo trattenne.
            «È inutile: il Re se n'è bell'e andato. Vada lei a vedere, se non ci crede.»
            Quella notizia restituì la calma a Federico. Place du Carrousel aveva un aspetto tranquillo. L'Hôtel de Nantes era sempre lì, alto e solitario, e le case di dietro, e la cupola del Louvre di fronte, la lunga galleria di legno stilla destra, il grande spazio incolto e ondulato che si stendeva sino alle baracche del mercato all'aperto era come se galleggiassero nel grigiore dell'aria, dove lontani murmuri sembravano sciogliersi nella bruma; mentre all'altra estremità della piazza una luce cruda, piombando netta da uno squarcio della nuvolaglia, ritagliava il profilo bianco di tutte le finestre sulla facciata delle Tuileries. Vicino all'Arco di Trionfo,
steso a terra, c'era un cavallo morto. Dietro le cancellate gruppetti di persone erano fermi a conversare. Le porte del castello erano aperte; i domestici, sulla soglia, lasciavano entrare.

...
  Tutt'a un tratto risuonarono le note della Marsigliese. Hussonnet e Federico si sporsero sulla rampa: era il popolo. Si precipitò su per la scalinata agitandosi in ondate vertiginose di teste scoperte, copricapi di cuoio, berretti rossi, spalle e baionette, con un impeto tale che alcuni erano come inghiottiti dentro quella massa brulicante che saliva, saliva sempre, simile a un fiume compresso dall'alta marea, spinta da un irresistibile impulso cui faceva da sfondo sonoro un lungo, sordo muggito. In alto la fiumana si disperdeva; il canto cadde.
            Ormai si sentiva solo lo stropicciare di tutte quelle scarpe, lo sciacquio sommesso delle voci. Inoffensiva, la folla s'accontentava di guardare. Ogni tanto, però, un gomito troppo pressato sfondava qualche vetro; da una console rotolava a terra un vaso, una statuetta. I rivestimenti di legno scricchiolavano. Le facce di tutti eran rosse, il sudore ne colava copioso.
            «Gli eroi non sanno di buono,» fu l'osservazione di Hussonnet.
            «E tu sei terribilmente irritante,» replicò Federico.
            Sotto la spinta della folla, entrarono senza volerlo in una grande sala dove un baldacchino di velluto rosso s'innalzava sino al soffitto. Al disotto, sul trono, s'era seduto un proletario dalla barba nera, con la camicia sbottonata sul petto e l'aria ilare e stupida d'un fantoccio. Altri s'accalcavano sulla pedana per mettersi al suo posto.
            «Ecco il grande mito,» disse Hussonnet. «Il popolo sovrano!»
            Il trono, sollevato a forza di braccia, attraversò ondeggiando tutta la sala.
            «Perdinci, guarda come beccheggia. Il vascello dello Stato sballottato su un mare in tempesta... Che danza frenetica!»
            Fu trascinato sino a una finestra e da lì, in mezzo a una selva di fischi, scaraventato fuori.
            «Povero vecchio Stato!» commentò Hussonnet seguendone il tonfo giù in giardino, dove subito fu raccolto, portato a spasso fino alla Bastiglia, dato alle fiamme.
            Esplose, allora, una gioia frenetica, come se ai posto lasciato vuoto dal trono fosse comparso un avvenire di felicità senza limiti; e il popolo, meno per vendicarsi che per un'affermazione di possesso, si diede a frantumare specchi, a lacerare tendaggi, a fare a pezzi i lampadari, i candelabri, i tavoli, le sedie, gli sgabelli, tutta la mobilia: persino le collezioni di disegni, ì fiori ricamati. Ottenuta la vittoria, bisognava pur divertirsi! La canaglia s'agghindò buffonescamente di pizzi e scialli preziosi. Frange dorate s'attorcigliavano alle maniche dei camiciotti, cappelli con piume di struzzo ornarono le teste dei fabbri ferrai; i nastri della Legion d'onore servivano da cintura alle prostitute. Ciascuno dava sfogo a un suo capriccio: c'era chi beveva, chi s'era messo a ballare. Nella stanza della regina una donna si dava la pomata sui capelli; dietro un paravento due appassionati di carte erano intenti al gioco. Hussonnet fece notare a Federico un tale che, appoggiato sui gomiti a un balcone, si fumava la sua pipetta, cresceva di continuo, fino al delirio, il fracasso delle porcellane mandate in frantumi, delle schegge di cristallo che risuonavano rimbalzando come le note d'un'armonica.
            Poi il furore si fece cupo. Una curiosità oscena spingeva la gente a frugare nei salottini, negli spogliatoi, in tutti gli angoli, ad aprire tutti i cassetti. Avanzi di galera affondavano il braccio nelle lenzuola delle principesse, ci si rotolavano sopra per consolarsi di non poter avere loro tra le grinfie. Altri, dai visi ancor più sinistri, vagavano in silenzio alla ricerca di qualcosa da rubare: ma c'era troppa gente intorno. Sogguardando, dai vani delle porte, l'infilata dei saloni, non si scorgeva che la massa del popolo, scura contro le dorature e avvolta in una nube di polvere. Tutti ansimavano, il caldo si faceva via via più soffocante; i due amici, temendo di soffocare, guadagnarono l'uscita.
            In anticamera una puttana era dritta sopra un mucchio di panni in posa di statua della Libertà; immobile, con gli occhi spalancati, faceva paura.
            Fuori non fecero in tempo a far tre passi che s'imbatterono in un plotone di guardie municipali in bassa uniforme, i quali, togliendosi il berretto e scoprendo in quell'atto le loro teste un po' calve, salutarono il popolo con un profondo inchino. A tale testimonianza di rispetto, i vincitori in brandelli gonfiarono il torace. Anche Hussonnet e Federico non mancarono di provarne qualche piacere.
...

 Gli affari erano sospesi: l'inquietudine, la sciocca curiosità spingevano tutti quanti a riversarsi nelle strade. Il modo trascurato di vestirsi attenuava le differenze sociali, gli odii restavan nascosti, si faceva sfoggio di speranze; la folla era tutta pervasa di dolcezza. L'orgoglio dei diritti conquistati risplendeva sui volti.
            Circolava un'allegria da carnevale, modi e abitudini da bivacco; niente fu spassoso come l'aspetto di Parigi, in quei primi giorni.
   

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Giovanni Bottiroli 
Introduzione a Flaubert, L’educazione sentimentale, Einaudi, Torino 2002

È stata fatta rilevare più volte la sincronia tra lo scacco privato di Frédéric – l’appuntamento mancato con Mme Arnoux, trattenuta dall’improvvisa malattia del figlio – e lo scacco della rivoluzione del 1848. Secondo Erich Köhler la sfera individuale e la sfera sociale avevano, nel 1848, una cosa in comune: l’impotenza a realizzare il possibile.
...  La generazione del 1848 non soffre di impotenza relativamente al possibile. Al contrario, essa si nutre del possibile, o forse dovremmo dire che nutre il possibile con l’indulgenza tenera e idealizzante di una madre. Il difetto di questa generazione è la mediocrità – un vizio antico, il vizio più comune e diffuso, il più equamente ripartito (per citare e parodiare Descartes) nella razza umana. Flaubert ha saputo cogliere la novità del suo tempo: d’ora in poi gli uomini vivranno meno nel reale che nel possibile, e si abitueranno ad accusare la realtà – il caso, l’epoca, le circostanze, che non sanno adeguarsi ai loro sogni. Se ascoltiamo i discorsi di quest’epoca, il mormorio della medietà, il dilagare degli stereotipi, l’arroganza delle fantasticherie e dei desideri, la tenace ottusità del risentimento, ritroveremo in ogni istante l’energia sterile di individui e di gruppi che non sono in grado di entrare nel tempo con qualcosa di diverso dalle loro inesauribili e ridicole velleità.

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Si veda anche  http://machiave.blogspot.it/2013/06/gavroche-e-la-sua-canzone.html

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