mercoledì 9 luglio 2014

Il Jazz oltre i confini dell'origine

Simone Lorenzati
Il fascino sottile del jazz

Forse il Jazz si sta avventurando su un terreno sconosciuto. Un incontro di sicuro rilievo come Umbria Jazz spinge a tornare sul tema. Inizierà venerdì 11, per concludersi domenica 20, il tradizionale appuntamento perugino. Una rassegna decisamente interessante questa che porterà in città, per un Festival giunto ormai alla 41ma edizione, musicisti di grande valore. Tra gli altri calcheranno il palco umbro Buster Williams, John Scofield, Christian Mc Bride, Paolo Fresu, Roy Hargrove, Wayne Shorter ed Herbie Hancock, Stefano Bollani, senza dimenticare Al Jarreau. Insomma jazzisti di chiara fama, sia a livello italiano che internazionale. Come sempre i giovani talenti si mescoleranno ai vecchi leoni  
Può Umbria Jazz essere l'occasione per cercare di capire la direzione che la musica afroamericana sta imboccando? Tutti concordano sul fatto che ormai da diversi lustri gli innovatori autentici del jazz siano in via di estinzione se non trapassati del tutto (già negli anni 70 Frank Zappa amava ricordare come il jazz non fosse morto ma che emanasse comunque un cattivo odore). Da Louis Armstrong a Benny Goodman, da Dizzy Gillespie a Chet Baker, da Bill Evans a Miles Davis, da John Coltrane a quello stesso Herbie Hancock che vedremo esibirsi a Perugia tra pochi giorni e che negli anni 80 inventò la fusion, ovvero la commistione tra jazz e rock. Da allora in poi il jazz ha trovato spazio nelle scuole musicali (celeberrima la bostoniana Berklee School) così come nei Conservatori italiani. Ma vi sono degli interrogativi anche in questo ambito: il jazz è la musica dell'improvvisazione: se diventa unicamente studio didattico non rischia di trasformare l'incerto in certo? Se Armstrong avesse conosciuto la tecnica musicale sarebbe stato quell'innovatore assoluto che invece è stato? Charlie Parker, probabilmente uno dei migliori sassofonisti nella storia del jazz, sosteneva che se suonava nei pub dei bianchi lo riempivano di soldi ma tutti i presenti battevano le mani al contrario. E l'esatto opposto, dal punto di vista economico e musicale, avveniva invece nei locali con clienti di colore. Dunque il jazz si allontana dalle sue radici ma per andare dove? Ed ancora: deve essere una musica per tutti, come era in origine, o divenire un genere coltivato solo da una elite di uditori ed amanti del genere? Tra tanti interrogativi rimane il fascino di una musica che sa rapire, ma che ormai danza sul confine tra l'improvvisazione eterodossa e la preparazione curricolare. Un genere musicale che, a ben guardare, non ha nemmeno una pronuncia fonetica unitaria. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere il chitarrista Barney Kessell che, alla domanda su cosa fosse il jazz, rispose “Una musica che non suoni né con la testa né con le mani. Ma col cuore”. E allora che si incominci a soffiare nelle trombe e nei sassofoni.

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Giordano Montecchi 
Django, dio zingaro della chitarra, nato dal rogo dell'emarginazione
l'Unità, 18 gennaio 2010 
 
La storia è di quelle che fanno palpitare: avventura e sventura mescolate insieme, di quelle storie che non basta un film per raccontarle. Perché è vita vera, sofferenza, passione, sogni, miseria, fortuna, genio e sregolatezza. Insomma: Django Reinhardt. Era il 23 gennaio di cent'anni fa. A Liberchies, qualche centinaio di anime poco a nord di Charleroi, Belgio, faceva un freddo cane. Appena fuori dal villaggio da qualche giorno c'era una carovana di zingari, cinque o sei roulottes malandate, coi loro cavalli smagriti, i falò per scaldarsi, e, al centro, una piccola tenda da circo. Quel giorno, in una delle roulotte, Laurence Reinhardt partorì un maschietto. Laurence era così scura di pelle da essere soprannominata «Negros». Era l'acrobata del circo ed rimasta incinta di Jean Vées, acrobata anche lui e, quando poteva, musicista: chitarra, violino, un po' di tutto. Lei però non volle saperne di sposarlo. Il bambino si chiamò Jean-Baptiste, ma presto gli fu affibbiato l'immancabile soprannome: Django. 

IL BANJO A DODICI ANNI

La carovana viaggò ancora molto. Girovagarono per l'Italia, poi furono in Algeria e infine si fermarono alla periferia di Parigi. Sua madre gli regalò un banjo, e a dodici anni Django accompagnava già suo padre e suo zio che si esibivano al caffé del mercato delle pulci di Clignancourt, poco fuori Parigi. Django era bravo, molto bravo, suonava la chitarra con una grinta e una velocità da lasciare a bocca aperta. A diciotto anni aveva già registrato qualche traccia, aveva la sua piccola fama, ma era e restava uno zingaro e ogni notte tornava a dormire nella sua vecchia roulotte. La sua seconda nascita avvenne nel 1928 e fu tragica. Era ottobre, il 26. Jack Hylton, leader di un'orchestra alla Paul Whiteman piuttosto famosa, gli offrì di entrare nella sua band per una tournée in Inghilterra. Era fatta! Forse quella sera Django era eccitato, fatto sta che rovesciò la candela accesa e i fiori di celluloide da vendere l'indomani davanti al cimitero presero fuoco e in un baleno la roulotte fu avvolta dalle fiamme. Bella Baumgartner, la sua compagna, se la cavò con poco, ma Django riportò ustioni gravissime sul lato destro del corpo e alla mano sinistra. Diciotto interminabili mesi di ospedale, e alla fine, mignolo e anulare della mano sinistra rimasero paralizzati. I medici furono unanimi: la sua carriera di musicista era finita. Ma non sapevano con chi avevano a che fare. Perché da quel rogo di miseria ed emarginazione, qualcosa che ben conosciamo ancora oggi, era nato Django Reinhardt, il dio zingaro della chitarra. Dio, perché nessun essere umano avrebbe potuto essere così testardo, inventarsi un modo di suonare con solo due dita e diventare un virtuoso impressionante, rivoluzionando la tecnica e il destino della chitarra. La carriera fu sfolgorante. Incontrò il suo alter ego in Stéphane Grappelli, violinista tanto per bene quanto Django fu sempre imprevedibile, sbruffone, spendaccione. Col loro celeberrimo Quintette du Hot Club de France furono i protagonisti assoluti del trapianto del jazz in Europa, con Monsieur Grappelli perennemente imbarazzato per le figuracce cui lo costringeva Django: analfabeta vero, per il quale un contratto era solo carta, nomade nell'anima, bisognoso ogni tanto di sparire per tornare alla sua roulotte e alle sue radici. Django era fin troppo «fenomeno» per accodarsi a una musica altrui qual era in fondo il jazz. Andò in America, ma il suo idolo Duke Ellington fu una delusione: tutto troppo ordinato, ufficiale, per lui che non volle mai leggere una nota di musica. Django era un sinti, che in Francia sono detti manouche, ricchi come tutte le etnie zingare di una loro tradizione musicale tutta chitarre e violini. Django la «contaminò» e nacque il jazz manouche, jazz portatile: chitarra e violino solisti, niente batteria ma due chitarre e contrabbasso per la pompe, così si chiama quel ritmo indiavolato che ti scortica e sale su dalle piante dei piedi. 

INCIDENTE PITTORESCO 

Curioso sfogliare le pagine di allora. Per André Hodeir, grande jazzologo, Django non era jazz, ma solo un «incidente pittoresco». Ma girate oggi per dischi, o per locali. I gruppi di giovani e giovanissimi, calamitati da questo modo sfrenato di scoparsi la chitarra, sono una schiera e gli scaffali, quelli che restano, pieni di questa musica, un po' jazz un po' world music, con protagonisti dai nomi così inesorabilmente diasporici: Bireli Lagrène, Stochelo Rosenberg, Angelo Debarre, Tchavolo Schmitt ecc. Hodeir toppò, ma non Eric Hobsbawm, che nascosto dietro lo pseudonimo di Francis Newton nel 1959 pubblicava The Jazz Scene, magnifica storia del suo oggetto amato. Dice Hobsbawm: «è significativo che Reinhardt sia fino ad ora il solo europeo che abbia conquistato un posto nell'Olimpo del jazz... ed è significativo che si tratti di uno zingaro». Perché insistere su quel «significativo»? Perché un grande storico come Hobsbawm aveva capito che il destino del jazz non era quello di essere solo la musica dei neri. Il jazz era l'annuncio che una nuova musica alzava la voce: la musica di quelli che il «primo mondo» ha sempre ignorato o odiato. Django è storia di adesso. 

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