martedì 30 settembre 2014

Gadda spregiator delle donne


Bruno Pischedda
Gadda il Gran misogino
Il Sole 24ore, 21 agosto 2014

Si rischia indubbiamente il peccato di lesa maestà strapazzando Gadda e portandolo al punto di una feroce ostilità antifemminile. Ma è quanto fa con indomito rispetto Lucilla Sergiacomo nel recente Gadda spregiator delle donne, uscito a Chieti per le Edizioni Noubs. Il volume rientra nel novero dei Women's studies, e una cosa è meglio dire subito: gli avrebbe giovato un approfondimento riguardo alle matrici colte della misoginia gaddesca. Magari calcando con più lena la pista di Otto Weininger, un filosofo che all'alba del Novecento doveva favorire da noi la diffusione di tanti e pesanti pregiudizi, non solo antimuliebri.
Il percorso intrapreso dalla Sergiacomo è comunque vigile e ordinatamente scandito. Avvia dalla consueta dialettica tra sublimazione e disprezzo, per cui abbiamo da un lato la "signorina" di buona famiglia, fascinosa, di alto sentire, però asessuata e solita andare in sposa ad altri. Mentre sul lato opposto svetta la "donna uterina", istintiva, «tipicamente centrogravitata sugli ovari», per usare le parole di Ciccio Ingravallo nel Pasticciaccio. Ne vengono per la studiosa due sfere autonome e in larga misura incomunicanti, quasi che le donne siano "creature mutilate", e il loro destino preveda «solo riproduzione della stirpe e custodia della famiglia o solo piacere e appagata sessualità».
Una doppia travatura manichea, tuttavia, a cui restano sottesi oculati innesti e bilanciamenti. Stabilito un prototipo femminile, e rendendone una viva parodia tramite modelli naturalistici, dannunziani, appendicistici, Gadda lo ricalca poi in altri testi, secondo la tecnica della composizione seriale e dello slittamento dei tratti. Basti considerare la serie che procede da Maria de la Garde, in Racconto italiano di ignoto del Novecento, alla splendida e fedifraga Zoraide della Meccanica; da Denira Classis, «vanesia, letterata, troja», come precisa un foglio di lavoro per Novella seconda, alla sua più intensa prosecutrice, Adalgisa, nella raccolta eponima: una donna spregiudicata quando si esibisce in pubblico, e però triste se lasciata sola con sé stessa, quasi una «vagabonda nei pascoli sconfinati della vedovanza».
Due, d'altronde, sono anche le procedure ginofobe a cui il Gran lombardo s'affida con geniale maestria retorica ed espressionistica. La prima consiste nelle descrizioni parcellizzate, intese allo "smembramento somatico", cioè al dettaglio, alle focalizzazioni ristrette, così che le parti del corpo femminile restino più significative della figura intera: braccia "da morsicare", petti marmorei, fianchi, gambe inguainate nelle calze nere, talloni, caviglie, persino ascelle batuffolose e «bionde di delicate sete». Contemporaneamente, si snodano le sinfonie animalizzanti, che delle tante donne gaddiane forniscono il contraltare invilito e talora repugnante. Un modulo affine a quello razzista e coloniale degli anni 1910-1940, verrebbe dire, e valido in un regime di conversione inesplicita. Domina qui la pollastra stizzuta, la "gallinazza", reperibile a ogni latitudine sociologica ma soprattutto algida, poco incline alle profferte del maschio; o ancora la donna che invece di parlare "trilla", quella dal naso "aquilesco", dagli occhi "inviperiti". Una catena inesausta di sconciature zoomorfe, a conti fatti, che trova un vertice di acredine esilarante nel brano celeberrimo del vagone ristorante, al centro della Cognizione, in cui le astanti vestono i panni di "bertucce" alle prese con «la miseranda meccanica dello sculettamento».
E in quell'apoteosi di negatività ginofoba a cui si concede Eros e Priapo: «un libro - osserva opportunamente la Sergiacomo - dominato dall'antifemminismo più che dall'antifascismo»; desideroso più che altro di indagare il fenomeno della dittatura fascista «come evento conseguente alla uterina dedizione delle donne italiane al maschio maschione», al "maschio tacchino", al "mastio dei masti" e insomma al "Kuce".
Il motivo della donna animalizzata risale per lo meno al nostro Ottocento, a Verga di Tigre reale, del racconto La lupa; per poi rimbalzare con D'Annunzio verso i lidi del decadentismo minore. Allora erano però procedure intese a innalzare il tenore erotico del racconto; mentre in Gadda volgono allo sprezzo e all'aperto vituperio, determinando una sorta di insociabilità belligerante tra polo maschile e femminile. Se ne ha una traccia inequivoca pure osservando il differente grado di autonomia espressiva che il narratore milanese riserva ai campioni dei due sessi. In virtù di un marcato autobiografismo, il personaggio uomo reca i segni costanti di una sofisticata e complessa formazione; non così va per le donne che lo attorniamo, solitamente munite di una psiche e di un ethos alquanto schematico. Troppo grande è la quota di caos libidico che esse recano con sé, per suscitare moti di vera simpatia in un Io maschile impegnato a sondare i meandri del reale, e a scioglierne il complicatissimo "gnommero".
Certo, la fiaba nera intessuta dalla Sergiacomo ha poi un esito più conciliante. Giunto a uno Zenit di fervore misogino, l'estro gaddiano dà luogo a due esemplari straordinari come Liliana Balducci del Pasticciaccio ed Elisabetta Pirobutirro nella Cognizione. Ora è il tema della maternità, negata o
fallita, ad accamparsi sulla pagina, restituendo dignità drammatica a un personaggio femminile altrimenti esposto a una pur gustosa deprecazione. Negli ultimi romanzi - concede la Sergiacomo - il discorso antimuliebre dell'Ingegnere sembra acquistare in plasticità artistica. Sulla povera morta di via Merulana e sulla tragica madre domiciliata a Lukones continuano bensì a gravare stereotipi pesanti. Sono senz'altro due donne mancate, in difetto di risorse educative e riproduttive; però capaci di affermarsi innovativamente nel panorama romanzesco coevo: e di farlo, giusto un'indulgenza creatrice «che va forse oltre le intenzioni di Gadda stesso». E sarà pure: ma si tratta comunque di due efferati femminicidi, tanto più inquietanti per il lettore, quanto più l'autore stabilisce di lasciarli irrisolti.

domenica 28 settembre 2014

Bianca e lo speziale: una tresca nella Venezia del Cinquecento



Ve lo sareste aspettato? Alessandro Barbero, con la sua aria di ragazzo studioso e birichino, da storico si è fatto, molto tempo fa ormai, romanziere senza abbandonare la sua vocazione primitiva. Ed ecco che, alla sua quinta prova da narratore libero, si ritrova sulle orme di un altro Alessandro e rifà I Promessi Sposi in una chiave più moderna. Per la verità Gli occhi di Venezia (Milano, Mondadori 2011) sono ambientati negli anni 1588-1590,
Ponte di Rialto, 1588-91
esattamente mezzo secolo prima del romanzo manzoniano la cui vicenda, come è noto, si colloca tra il 1628 e il 1630 in Lombardia. Altra differenza: Michele e Bianca sono già sposati quando la narrazione di Barbero prende il suo avvio, a differenza di Renzo e Lucia che restano fidanzati per quasi tutta la durata della vicenda raccontata da Manzoni. I novelli sposi di Barbero però vengono separati dai duri colpi della sorte e il romanzo in fondo è la storia del loro fortunoso e fortunato ricongiungimento.
Dove sta la modernità, allora? In ciò che lo stesso Barbero riferisce e sostiene parlando dell’operazione da lui compiuta. Sembra non essersi accorto subito del parallelo con I Promessi Sposi nel suo lavoro di composizione, dopo di che non ha mai cercato - lui dice – “volutamente il parallelo o la   parodia” e aggiunge subito dopo: “questo non ha impedito a uno dei primi lettori di osservare che la mia Bianca, rimasta sola, fa tutto quello che Lucia non ha fatto – o che don Lisander non ha voluto raccontare! E a questo punto direi anche che il personaggio che per me è il più bello del romanzo, Clarice, è la risposta alla donna Prassede del Manzoni: tutta rovesciata in positivo però...” (Giulia Mozzato, Intervista a Barbero, 24 febbbraio 2011, http://www.wuz.it/intervista-libro/5606/alessandro-barbero-storia.html).
Già, Clarice. E’ la moglie di Lorenzo Bernardo.
Palazzo Bernardo sul Canal Grande
A un certo punto nel corso del romanzo diventa la padrona di Bianca. A ben vedere è la protagonista
della vicenda narrata. Ha un ruolo determinante negli sviluppi che portano al ricongiungimento degli sposi. In tal senso vale più di donna Prassede; e sovrasta inoltre la sua omologa in quanto è un personaggio a pieno titolo e non una caricatura.
Che cosa fa di speciale Bianca rispetto a Lucia? Non si fa solo proteggere, si muove da sola sulla scena della società veneziana. Potrebbe darsi alla prostituzione. E’ una soluzione che le viene prospettata in questi termini:  

…”Vedi, io ho una casa non lontano di qui, e tengo delle brave ragazze che lavorano. Loro mi danno una parte di quel che guadagnano, e stanno lì al sicuro.”

Così le parla una donna anziana che è andata a cercarla a casa. Quando Bianca capisce di che si tratta si ritrae sdegnosa. Qualche tempo dopo, mentre si trova a servizio da Clarice, non rifiuta invece la corte dello speziale Giacomo e ne diventa l’amante per un breve periodo.
E qui è la padrona a cavarla d’impaccio:

… “io dico che quando tuo marito tornerà, non c’è nessun bisogno che venga a saperlo, che ne dici, Bianca? Lui è chissà dove da anni, chissà che cosa ha fatto nel frattempo, e tu sei una moglie saggia e non glielo chiederai, vero? Lui, invece, siccome gli uomini non sono saggi, vorrà sapere tutto di te, e tu di questa storia che mi hai raccontato stanotte non gli dirai niente, hai capito bene? E’ un ordine della tua padrona, prendo io su di me le conseguenze, tu devi sapere solo una cosa, che ti ho dato un ordine ed è tuo dovere ubbidire.”
   Bianca non piangeva più ora; si teneva aggrappata alle mani di Clarice, e ogni momento le baciava. Poi, però, si trasse indietro e guardò smarrita la padrona.
   “Ma ser Giacomo! Lui lo dirà a tutti!” esclamò, atterrita. Clarice la guardò corrugando la fronte.
   “Tu credi? Vedremo!” esclamò.
  
Un approccio decisamente laico, non c’è che dire. Come è laico il modo in cui viene presentato il rapporto tra Bianca e Giacomo, prima. Niente “la sventurata rispose”, come per la povera Gertrude. Qualcosa che sta tra l’imbarazzo e il piacere:

Non era sicura che le fosse piaciuto, e ora si sentiva bruciare furiosamente tra le gambe. Ma era la prima volta che aveva un uomo da quando Michele era scomparso, e in tutto il suo corpo si erano risvegliate sensazioni sopite da troppo tempo.

Chissà poi se questa rivoluzione dall’alto, con la padrona che aiuta la sua cameriera a svincolarsi dal predominio maschile è plausibile. Nelle Nozze di Figaro, tanto per dire, c’è un’alleanza alla pari tra la cameriera Susanna e la padrona a danno del conte. Altri tempi, altri costumi. Una aristocratica veneziana pronta a battersi per i diritti dell’uomo e della donna nella seconda metà del Cinquecento è forse un frutto fuori stagione, una primizia. Sta qui in fondo il suo limite e il suo pregio.

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Lorenzo Bernardo, Viaggio a Costantinopoli di sier Lorenzo Bernardo: per l'arresto del bailo sier Girolamo Lippomano Cav., 1591 aprile, R. Deputazione Veneta sopra gli Studi di Storia Patria, Venezia 1886.

http://www.albanianhistory.net/en/texts1000-1799/AH1591.html

Diary of the voyage of Lorenzo Bernardo to Constantinople.
Note 56pp On this MS Mr Rawdon Brown has written the following note:- "The Sig. Lorenzo Bernardo was sent to Constantinople for the purpose of seizing the Bailo, Girolamo Lippomano, and shipping him off under the custody of Filippo Casalini, `fante' of the chiefs of the X, to Venice, and the orders of the Council of the Ten were in great measure carried into effect; but, when off Lido, Lippomano threw himself into the sea, and by a voluntary death escaped the penalties that awaited him for high treason. See a manuscript account of his death amongst the reports of Constantinople, and Andrea Morosini, Vol. 4, p. 140.

venerdì 26 settembre 2014

Ho lasciato la mamma mia

Venti giorni sull’Ortigara
senza il cambio per dismontà;
ta pum ta pum ta pum
...
Ho lasciato la mamma mia
l'ho lasciata per fare il soldà;
ta pum ta pum ta pum

Dietro al ponte c'è un cimitero
cimitero di noi soldà;
ta pum ta pum ta pum  (1916)


Riccardo Solazzo 

La madre, il figlio e la guerra in tre romanzi:

Ernest Hemingway, Addio alle armi, 1929
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, 1929
Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, 1938

Questi classici della narrativa legata all'esperienza della prima guerra mondiale non li avevo mai letti. Me ne vergogno un po’…  Però sono contento di averlo fatto a poco più di trent’anni; li ho vissuti meglio soprattutto perché, forse, possiedo un po’ più di quella umana esperienza che aiuta a reggere le atrocità, i sentimenti, gli episodi della dinamica più brutale, distruttiva ed allo stesso tempo innovatrice che l’essere umano possa realizzare: la guerra.
Nel centenario dell’inizio della prima guerra mondiale ho sentito la necessità di ascoltare i sentimenti di un uomo in trincea; dunque, non il conflitto fra le nazioni, quello letto nelle monografie di cui ho poco più che un’infarinatura. Quest’estate ho cercato la passione[1] di un uomo in guerra. Un uomo costretto a dichiarare che “questa vita (in trincea, ndr) ci ha ridotto ad animali appena pensanti”. Quest’amara considerazione di Remarque viene arginata dalle espressioni di grande umanità e di necessaria spensieratezza che troviamo nelle intense pagine di questi libri. 
Ma non ho intenzione di soffermarmi su una lettura comparata dei tre testi, del resto non ne sarei capace… L’essere un “giovane” genitore (ho un bimbo di due anni ed una bimba in arrivo) ha portato la mia attenzione sull’inscindibile legame materno. Quanto dev’essere insopportabile mandare un figlio alla guerra? Quanto è struggente il ferito o il moribondo che evoca la mamma?
Seppur riferito ad un altro periodo storico, è “l’urlo nero della madre”[2] che mi ha portato a seguire questa traccia, l’aspetto che più di altri (oltre al cameratismo fraterno[3]; l’attaccamento alla terra dei padri; l’amore per una donna; la visione del nemico come uomo identico a sé) riconduce ad un’umanità perduta.


Si chiederà dove ho trovato questo aspetto in “Addio alle armi”. Anche qui non manca l’evocazione della mamma da parte del ferito[4]; chiaramente questo è, dei tre, il libro che meno descrive la trincea. Affronta prevalentemente il travaglio personale del soldato che, dismessa l’uniforme, riporta al centro l’esigenza di fare una “pace separata” e vivere la propria storia d’amore[5]. Nell’epilogo però la morte e lo strazio della guerra, a cui il protagonista era sfuggito, quasi come una predestinazione alla sofferenza, ritornano con la perdita contemporanea della moglie e del figlio durante il parto.
Sono però Lussu e Remarque che mi hanno maggiormente colpito per ciò che riguarda il rapporto genitore/figlio, in particolare madre/figlio, in tempo di guerra.
 “Trovai il babbo molto invecchiato. Lo avevo sempre creduto un uomo forte. […] Noi eravamo i soli figli e tutti e due in fanteria […] non sperava che noi potessimo rientrare sani e salvi dalla guerra. […] La mamma invece mi parve più coraggiosa. Io le avevo mandato spesso delle lettere […] che le facevano credere che io fossi al sicuro.” L’inquietudine del genitore è evidente: “La mamma era sempre intorno a me […] si comportava con me come se io fossi un bambino”. Finita la licenza, Lussu, deve tornare al fronte: saluta i genitori ma, dopo essersi avviato, ritorna sui suoi passi e rientra in casa e assiste allo strazio impotente della madre. Vorrebbe difenderlo, quasi fosse ancora bambino: “Al centro della sala, accanto alla sedia rovesciata, la mamma era accasciata sul pavimento, in singhiozzi. Io la raccolsi, l’aiutai a sollevarsi […] tentai di dirle parole di conforto, ma si struggeva in lacrime.”
In Niente di nuovo sul fronte occidentale troviamo ancora una madre che conserva l’unico vasetto di marmellata di mirtilli in attesa della licenza del figlio. Ed ecco come in poche parole emergono ansia e frustrazione: “[…] allora ad un tratto la Mamma mi afferra le mani e domanda con voce strozzata «è terribile, vero, laggiù, Paolo?».”
Altre pagine di Remarque sono commoventi per l’affetto ed il legame primordiale del figlio con la madre.
Al rientro dal fronte per una licenza la sola parola “Mamma” fa crollare la corazza che il protagonista ha dovuto indossare per sopportare le atrocità della guerra di trincea: “Lei (sorella del protagonista, ndr) apre una porta e chiama «Mamma, mamma, è Paolo!». Io non posso più fare un passo. Mamma, mamma è Paolo! Mi appoggio alla parete, stringo l’elmo, il fucile: li stringo con tutta la mia forza, ma non posso più fare un passo, la scala mi si confonde alla vista; mi do il calcio del fucile sui piedi e stringo rabbiosamente i denti, ma non posso far nulla dopo quella sola parola che mia sorella ha gridato […] e non voglio, ma grosse lagrime mi corrono e corrono giù dalla faccia”.
Oggi come ieri la comunità umana piange esseri umani morti in guerra: sono tutti figli e fratelli nostri![6]





 [1] “[…] è il mio cuore il paese più straziato”, Ungaretti
             [2] Alle fronde dei salici, Quasimodo
[3] “Fratelli”, Ungaretti
[4] “[…] una gamba era scomparsa e l’altra era trattenuta dai tendini e parte dei calzoni […] Si mordeva il braccio e gemeva «Oh Mamma, mamma mia […]» poi soffocando «Mamma, Mamma mia».” Hemingway.
Nel testo di Remarque un altro passaggio simile: “[…] e col petto e la pancia squarciati, con le gambe e le braccia fracassate non sanno che gemere piano, chiamando la mamma[…]”
[5] “[…] Femmina penso se penso alla Pace […] Femmina penso se penso all’umano", Sanguineti
[6] “[…]io chiedo come può l’uomo uccidere un suo fratello […] Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare […]” Guccini