domenica 30 novembre 2014

L'estate di Clinton. Il trionfo della vita sull'ipocrisia

L’euforico e generalizzato atteggiamento di condanna che, sul finire degli anni novanta, la società americana riserva allo scandalo Clinton-Lewinsky è il medesimo con cui la comunità di Athena – immaginaria cittadina universitaria del Berkshire, nel New England – censura l’ultima, straordinaria, storia d’amore di Coleman Silk. Non sembra ammissibile che, alla sua età e con la sua ragguardevole cultura, l’ex docente di lettere possa avere una relazione con una donna incolta e tanto più giovane di lui. (Luca Alvino, Minima & Moralia)

 

Philip Roth

La macchia umana 

traduzione di Vincenzo Mantovani

Einaudi, Torino 2005 

 

Capitolo primo

Tutti sanno

 

Fu nell’estate del 1998 che il mio vicino Coleman Silk – che

prima di andare in pensione, due anni addietro, era stato per una

ventina d’anni professore di lettere classiche al vicino Athena

College, dove per altri sedici aveva fatto il preside di facoltà –

mi confidò che all’età di settantun anni aveva una relazione

con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavorava al

college. Due volte la settimana questa donna puliva anche l’ufficio

postale, una piccola baracca rivestita di scandole grigie che

pareva aver protetto una famiglia di braccianti dai venti della

Dust Bowl negli anni trenta e che, piantata solinga e derelitta a

metà strada tra la pompa di benzina e l’emporio, fa sventolare

la bandiera americana all’incrocio delle due strade che

caratterizzano il centro commerciale di questa cittadina di

montagna.

Coleman l’aveva vista per la prima volta mentre lei lavava il

pavimento dell’ufficio postale nel tardo pomeriggio di un giorno

in cui, qualche minuto prima della chiusura, era andato a ritirare

la corrispondenza: una donna esile, alta e angolosa con i

capelli tra il biondo e il grigio raccolti in una coda di cavallo e

quei tratti del viso severamente scolpiti, associati di solito alle

devote e laboriose massaie del New England che hanno dovuto

sopportare gli stenti della vita coloniale, austere donne prigioniere

della moralità dominante e di questa stessa moralità rispettose.

Si chiamava Faunia Farley, e qualunque fosse la sua infelicità,

la teneva nascosta dietro uno di quegli inespressivi volti ossuti

che, senza nulla celare, tradiscono un’immensa solitudine. Faunia

abitava in una stanza di una fattoria del posto dove, per pagare

l’affitto, collaborava alla mungitura. Aveva fatto due anni di

scuole superiori.

L’estate in cui Coleman mi fece le sue confidenze su Faunia

Farley e il loro segreto fu, in modo abbastanza appropriato,

l’estate in cui il segreto di Bill Clinton venne a galla in ogni suo

minimo e mortificante dettaglio: in ogni suo minimo e vivido

dettaglio, là dove la vita, come la mortificazione, stillava

dall’asprezza dei dati specifici. Non avevamo avuto una stagione

come quella da quando qualcuno era incappato nella nuova Miss

America nuda in un vecchio numero di «Penthouse», foto di

lei elegantemente in posa in ginocchio e sdraiata sulla schiena

che costrinsero la ragazza, piena di vergogna, a restituire la

corona per diventare, in un secondo tempo, una celebre pop star.

Quella del novantotto nel New England fu un’estate di sole e

di uno squisito tepore; l’estate – nel baseball – di una mitica

battaglia tra un dio degli home run bianco e un dio degli home

run di pelle scura; e, in America, l’estate di un’orgia colossale di

bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo –

che aveva rimpiazzato il comunismo come minaccia prevalente

alla sicurezza del paese – subentrò, come dire, il pompinismo, e

un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata

ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell’Ufficio

Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la piú

antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo

piacere piú sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia. Nell’aula

del Congresso, sulla stampa e alla televisione, i cialtroni tronfi

e morigerati, smaniosi d’incolpare, deplorare e punire, facevano

i moralisti a piú non posso: tutti in un parossismo calcolato di

quello che Hawthorne (il quale, negli anni tra il 1860 e il 1870,

abitava a non molte miglia dalla porta di casa mia) identificò, nel

paese nascente di tanto tempo fa, come «lo spirito di persecuzione»; tutti ansiosi di celebrare gli astringenti riti purificatori che avrebbero estirpato l’erezione dall’esecutivo, rendendo cosí la situazione abbastanza confortevole e sicura

perché la figlia decenne del senatore Lieberman potesse riprendere a guardare la tivú col suo imbarazzato paparino. No, se non siete vissuti nel 1998 non sapete cos’è l’ipocrisia. Il columnist conservatoreWilliam F. Buckley scrisse nella sua rubrica:

«Quando lo fece Abelardo, fu possibile evitare che si ripetesse», insinuando che il modo migliore di rimediare all’illecito presidenziale – quella che Buckley definiva, altrove, l’«incontinente carnalità di Clinton» – forse non era una cosa incruenta come l’impeachment ma, piuttosto, il castigo che nel dodicesimo secolo venne inflitto al canonico Abelardo dal coltello dei compari del collega ecclesiastico di Abelardo, il canonico Fulberto, per vendicare la seduzione e il matrimonio segreto con la nipote di Fulberto, la vergine Eloisa. Diversamente dalla fatwa di Khomeini che condannava a morte Salman Rushdie, l’intenso desiderio nutrito da Buckley per la pena correttiva della castrazione non comportava incentivi finanziari per il possibile esecutore. Questa era suggerita, tuttavia, da uno spirito non meno severo di quello dell’ayatollah, e in nome di ideali non meno elevati.

Era estate, in America, quando tornò la nausea, quando non

cessarono gli scherzi, quando non cessarono le congetture e le

teorie e le iperboli, quando l’obbligo morale di spiegare ai propri

figli la vita degli adulti fu abrogato per tenere viva in loro ogni

illusione sulla vita degli adulti, quando la meschinità della

gente apparve semplicemente schiacciante, quando una specie

di demone era stato sguinzagliato nel paese e, da ambo le parti,

la gente si chiedeva: «Perché siamo cosí pazzi?», quando uomini

e donne, svegliandosi al mattino, scoprivano che durante la notte,

in un sonno che li aveva trasportati oltre l’invidia o il ribrezzo,

avevano sognato la spudoratezza di Bill Clinton. Sognai io

stesso un gigantesco striscione, dadaisticamente teso come uno

degli involucri di Christo da un capo all’altro della Casa Bianca,

con la scritta qui abita un essere umano. Era l’estate in cui – per

la miliardesima volta – il casino, il pasticcio, il guazzabuglio si

dimostrò piú sottile dell’ideologia di questo e della moralità di

quello. Era l’estate in cui il pene di un presidente invase la mente

di tutti e la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza, ancora

una volta disorientò l’America.


 

versione cinematografica  con lo stesso titolo (The Human Stain), regia di Robert Benton, interpreti: Anthony Hopkins, Nicole Kidman, Ed Harris e altri, USA 2003, durata h 1.46

 

sabato 29 novembre 2014

Grillo, il patrimonio dilapidato

Quando, dove ha sbagliato? Un momento a nostro parere c'è. Ed è il 25 febbraio 2013. Con l'annuncio dei risultati elettorali il movimento 5 Stelle aveva già cambiato status. Non poteva limitarsi a rilanciare: "cambieremo tutto quando arriveremo a conquistare la maggioranza". A quel punto il movimento era il primo o il secondo partito. Procedere verso la graduale accettazione di un maggiore inserimento nelle logiche del mondo circostante avrebbe comportato prezzi molto alti, ma non c'era un'altra possibilità. Altrimenti non restava che alzare ancora la posta, puntando sulla dissoluzione del sistema politico. Adesso è chiaro che la dissoluzione non c'è stata, l'opposizione al regime ha assunto il volto feroce di Matteo Salvini e per il movimento si è aperta la prospettiva di una lunga e non si sa quanto operosa attesa, con l'obbligo di tenere alta la tensione tra i militanti (da qui i processi, le espulsioni, il meccanismo dell'epurazione mai completata). 

Gian Antonio Stella
Corriere della Sera, 29 novembre 2014

«Sono un po’ stanchino», ha scritto sul suo blog citando Forrest Gump. C’è da credergli: come Tom Hanks nel film di Robert Zemeckis era partito così, senza una meta precisa («Quel giorno, non so proprio perché decisi di andare a correre un po’») e si era ritrovato con l’illusione di avere in pugno il Paese. Dove abbia cominciato, Beppe Grillo, a sprecare l’immenso patrimonio che di colpo si era ritrovato in dote alle elezioni del 2013 non si sa. Forse il giorno in cui apparve sulla spiaggia davanti alla sua villa con quella specie di scafandro, misterioso e inaccessibile come un’afghana sotto il burka. Forse quando, avvinazzato dai titoli dei giornali di tutto il mondo, rifiutò per settimane ogni contatto con la «vil razza dannata» dei giornalisti nostrani compresi quelli corteggiati nei tempi di vacche magre. Forse quando, scartando a priori ogni accordo, plaudì ai suoi che rifiutavano perfino di dire buongiorno agli appestati della vecchia politica o si disinfettavano se per sbaglio avevano allungato la mano a Rosy Bindi. O piuttosto la sera in cui strillò al golpe e si precipitò verso Roma invocando onde oceaniche di «indignados»: «Sarò davanti a Montecitorio stasera. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Qui si fa la democrazia o si muore!». Dopo di che, avuta notizia di un’atmosfera tiepidina, pubblicò un post scriptum immortale: «P.s. Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...». E le barricate contro i golpisti? Uffa...
Certo è che mai ora, dopo aver perso tra abbandoni ed espulsioni 15 senatori e 7 deputati con la prospettiva di perderne altri ed essere uscito a pezzi dalle ultime regionali che aveva solennemente annunciato di stravincere («Ci dobbiamo prendere Calabria ed Emilia-Romagna. Sarà un successo, mai stato così sicuro») Grillo si ritrova a fare i conti con un dubbio: non avrà perso il biglietto della lotteria? Non sarebbe il primo. Smarrì il suo biglietto vincente Guglielmo Giannini, dopo aver portato con l’Uomo Qualunque trenta deputati (tantissimi: il quadruplo degli azionisti) all’Assemblea costituente. Lo smarrì Mario Segni, che dopo il referendum pareva destinato a raccogliere l’eredità della Dc. Lo ha smarrito Antonio Di Pietro, del quale Romano Prodi disse «quello si porta dietro i voti come la lumaca il guscio». 

I voti perduti  
Il guaio è che lui stesso sembra sempre meno convinto di esser ineluttabilmente destinato a vincere. E fa sempre più fatica a spacciare per vittorie certe batoste. E in ogni caso, ecco il problema principale, sono sempre meno convinti di vincere quanti avevano visto in lui l’occasione per ribaltare tutto. Non ripassano, certi autobus. Una volta andati, ciao. Prendete la Calabria: conquistò 233 mila voti (quasi il 25%), alle politiche del 2013. Ne ha persi l’altra settimana duecentomila. E quando mai li recupererà più? Con questa strategia, poi! «Non ci sono più parole per descrivere il lento e inesorabile, ma tutt’altro che inevitabile, suicidio del Movimento 5 Stelle», ha scritto ieri Marco Travaglio, che pure non faceva mistero di averlo votato. «Un suicidio di massa che ricorda, per dimensioni e follia, quello dei 912 adepti della setta Tempio del Popolo, che nel 1978 obbedirono all’ultimo ordine del guru, il reverendo Jim Jones, e si tolsero la vita tutti insieme nella giungla della Guyana».
Citazione curiosamente appropriata. Basti riprendere un numero di «Sette» del 1995. Il titolo di un’intervista all’allora comico diceva tutto: «Quasi quasi mi faccio una setta». Beppe Grillo non era già più «soltanto» un istrione da teatro. Girava l’Italia in 60 tappe con lo show «Energia e informazione», irrompeva all’assemblea della Stet rinfacciando all’azienda telefonica i numeri hot a pagamento, attaccava le multinazionali, incitava ad «accelerare la catastrofe economica. Per l’esplosione del consumismo. Potremmo comprare cose inesistenti: elettroseghe per il burro, spazzolini da due chili monouso che dopo esserti lavato una volta li butti in mare per ammazzare i pesci...». Faceva ridere. E spiegava che proprio per quello gli andavano dietro: «Perché sono un comico. Perché non fabbrico niente. Perché chi parla contro i gas fabbrica le maschere antigas. Invece io, non vendendo né gas né maschere antigas, sono credibile. Che ci guadagno?». Ed è su questa domanda che è andato a sbattere. Brutta bestia, il potere. Guadagnato quello, il bottino più ambito di chi fa politica, è andato avanti sparandola sempre più grossa. Nella convinzione che ogni urlo, ogni invettiva, ogni insulto portasse ancora voti, voti, voti...«Ogni voto un calcio in culo ai parassiti che hanno distrutto il Paese». «Facendo a modo nostro saremo più poveri per i prossimi 4-5 anni, ma senza dubbio più felici». «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno». «Il Parlamento potrebbe chiudere domani. È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica». «Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe».
Parole pesanti
E via così. Anche sui temi più ustionanti, dove non è lecito esercitare il battutismo: «La mafia è emigrata dalla Sicilia, è andata al Nord, qui è rimasta qualche sparatoria, qualche pizzo e qualche picciotto». «Hanno impedito a Riina e Bagarella di andare al Colle per la deposizione di Napolitano per proteggerli: hanno già avuto il 41 bis, un Napolitano bis sarebbe stato troppo». «La mafia è stata corrotta dalla finanza, prima aveva una sua condotta morale e non scioglieva i bambini nell’acido. Non c’è differenza tra un uomo d’affari e un mafioso, fanno entrambi affari: ma il mafioso si condanna e un uomo d’affari no». Una cavalcata pazza. Perdendo uno dopo l’altro amici, simpatizzanti, osservatori incuriositi. Di nemico in nemico. «Adesso Schulz dice che io sono come Stalin. Ma un tedesco Stalin dovrebbe ringraziarlo, altrimenti Schulz sarebbe in Parlamento con una svastica sulla fronte. Schulz, siamo un venticello, lo senti? Arriva un tornado, comincia a zavorrarti attaccato alla Merkel perché ti spazzeremo via». «Noi non siamo in guerra con l’Isis o con la Russia, ma con la Bce!». «Faremo i conti con i Floris e i “Ballarò”... Io non dimentico niente. Siamo gandhiani ma gli faremo un culo così...». 
E poi barriti contro le tasse: «Siete sicuri che se pagassimo tutti le tasse questo Paese sarebbe governato meglio? Ruberebbero il doppio». Contro l’ultimo espulso: «Un pezzo di merda». Contro Equitalia: «È un rapporto criminogeno tra Stato e cittadini». Contro l’inceneritore di Parma: «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?» Contro gli immigrati: «Portano la tubercolosi». Sempre nella convinzione che il «suo» movimento potesse prendere voti a destra e a sinistra, tra i padani e i terroni, tra i qualunquisti e i politicizzati democrazia cubo. Un «partito-tutto» contro tutto e tutti. Finché, di sconfitta in sconfitta, non si è accorto che qualcosa, nel rapporto col «suo» popolo, si stava incrinando. Che lui stesso stava smarrendo l’arte superba di saper mischiare insieme la potenza della denuncia e la leggerezza dei toni. Finché arrivò il momento che, in una piazza qualsiasi, si accorse che la solita battuta non tirava più. Capita anche ai clown più ricchi di genio. Ma loro, se vogliono, possono inventarsi un altro numero.

venerdì 28 novembre 2014

Calipso, la Grande Dea

Calipso
(gr. Καλυφώ; lat. Calypso)
Utet, Letteratura europea on line


Con questo nome è designata nell’Odissea (V, 68 ss.) una ninfa, figlia di Adante, che vive nell’isola di Ogigia, entro una grotta attorno la quale cresce la vite. Nel poema omerico si narra che Calipso accolse Ulisse naufrago e, innamoratasi di lui, lo trattenne per sette anni a Ogigia nonostante la melanconia dell’eroe e il suo rimpianto per la patria lontana. Al termine dei sette anni Zeus, per mezzo di Ermes, ordinò a Calipso di lasciar partire Ulisse, e la ninfa allora diede modo all’eroe di costruirsi la zattera con cui sarebbe giunto presso l’isola dei Feaci.
Il nome di Calipso è stato interpretato in passato come la nasconditrice o la nascosta (dal gr. kalyptō, nascondo). Più recenti studi hanno però proposto che si tratti di un nome egeo-anatolico (da kala, fianco di monte, più il suffisso -yb), significante “la dea della grotta”. Calipso infatti è, come Circe, un’immagine della Grande Dea anatolico-mediterranea.
Essa risiede al centro del mondo (“nell’ombelico del mare”), presso l’albero della vita (che nel mondo anatolico e mesopotamico è simboleggiato dalla vite fin dall’epoca sumera), e secondo lo Jensen è analoga alla giovane dea mesopotamica Siduri, incontrata da Gilgamesh in un giardino al centro del mondo, presso una vite. In quanto signora della vita, Calipso può offrire a Ulisse per trattenerlo l’ambrosia che accorda l’immortalità (e che Ulisse rifiuta, desideroso di tornare a Itaca). Il soggiorno dell’eroe nella grotta, che è santuario e talamo nuziale della dea, dev’essere quindi inteso come una permanenza alle fonti della vita che si inquadra nel grande disegno iniziatico dell’Odissea. Oltre che nell’Odissea, Calipso appare estremamente di rado nella letteratura classica. Esiodo nella Teogonia nomina un’oceanina Calipso, e una tardiva appendice alla Teogonia menziona due figli, Nausitoo e Nausinoo, che Calipso avrebbe avuto da Ulisse. Restano inoltre interpretazioni parodistiche della vicenda di Calipso e Ulisse nell’opera del commediografo Anassila e di Luciano. Oltre che in varie opere ispirate all’Odissea, nelle letterature moderne e contemporanee la figura di Calipso ricompare, tra l’altro, nelle Avventure di Telemaco di Fénelon e nei Dialoghi con Leucò di Pavese.




Odissea, libro V, traduzione di Enzio Cetrangolo

Ma quando nell'isola giunse, ch'era lontana,
 Ermes uscito dal mare violaceo alla riva,
 percorse la terra, finché alla grotta pervenne
 vasta dimora alla ninfa bene chiomata;
 la trovò ch'era dentro. Un gran fuoco
 ardeva al camino; un odore di cedro e di tio
 spirava nell'aria intorno per l'isola.
 E là dolcemente cantando ella tesseva
 con la spola sua d'oro intenta al telaio.
 Un bosco aggirava la grotta fiorente:
 ontani e pioppi e cipressi odorosi,
 dove uccelli di vaste ali avevano i nidi:
 civette e falchi e cornacchie dalla lunga lingua
 gracchianti assidue, amiche del mare;
 e c'era davanti una vite carica d'uve;
 e quattro fontane, l'una all'altra vicine,
 di fila, una chiara acqua mandavano in rivoli opposti;
 e intorno un fiorire era di viole e di apio
 su morbidi prati: tanto che uno là pervenuto.
 anche se dio, ne avrebbe incantata la vista
 e allegrezza del cuore. Là rimaneva
 immoto stupito a guardare il nunzio di Zeus. 

 









Odissea, libro V, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti 

E rispondendole disse l’accorto Odisseo
“O dea sovrana, non adirarti con me per questo:
so anch’io, e molto bene, che a tuo confronto
la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla:
è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza.
Ma anche così desidero e invoco ogni giorno
Di tornarmene a casa, vedere il ritorno.
Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare
sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene.
Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli fra l’onde e in guerra:
e dopo quelli venga anche questo!”



giovedì 27 novembre 2014

E nell'eternità non mi annoierò


Ma traversée du siècle : entretien avec Paul Veyne

Le Nouvel Observateur

François Armanet

Virgile, Char, Foucault... Le grand historien, qui remporte le prix Femina de l'essai avec un livre de souvenirs bouleversants, nous raconte ses engagements, son métier, sa conception de la mort, de la foi et de l'amour.


Paul Veyne. BALTEL/SIPA Paul Veyne. BALTEL/SIPA

Le Nouvel Observateur Vous racontez dans votre nouveau livre, «Et dans l'éternité je ne m'ennuierai pas», que votre vocation d'historien naît, en classe de sixième, en lisant «l'Iliade», qui vous ennuie, et «l'Odyssée», qui vous enthousiasme. Pourquoi, et est-ce toujours vrai?
Paul Veyne C'est Gérard Genette, je crois, qui dit que «l'Iliade» est une épopée et que «l'Odyssée» est un roman. Pour l'enfant que j'étais, lecteur de Jules Verne, un roman est plus accessible qu'une épopée, qu'une aussi grande épopée que «l'Iliade», avec sa force simple, sa «tranquillité épique», la diversité de ses figures héroïques, simplement mais fortement caractérisées. «L'Odyssée», elle, était un roman d'aventures souvent fantastiques et le récit d'une vendetta. C'était plus à ma taille de lecteur de 12 ans.
Mais ce roman a orienté vers l'histoire de l'antiquité païenne le collégien que j'étais; il m'a fasciné parce qu'il avait pour théâtre un monde autre, un monde qui n'était pas notre monde ennuyeux et qui, pourtant, n'était pas imaginaire: ce monde païen avait réellement existé, mais sur une lointaine planète inaccessible, voire disparue, sous le même ciel que le nôtre, mais sous d'autres dieux.
Selon vous, «l'opération sacrée de l'historien est de penser contre lui-même». Pourquoi?
Parce qu'on ne naît pas historien: on le devient. Il faut acquérir des connaissances et des idées (sociologie, économie, un peu de philo, etc.) et il faut réagir contre les préjugés qui nous viennent de notre famille, de notre milieu, de notre époque. C'est très éducatif. Un physicien n'a pas besoin de cela, je le suppose du moins.
Or, lorsque je suis entré à Normale, pour réagir contre les préjugés politiques et sociaux qui nous viennent de notre milieu, rien ne valait mieux que la nouvelle école historique qui venait de se former, l'Ecole des Annales, car cette école rompait avec l'histoire traditionnelle, avec l'histoire des règnes, avec l'histoire traités-et-batailles ; elle voulait qu'on étudie l'économie, la société, les mentalités. Elle fera un jour la grandeur de l'école historique française.
Mais, en 1950, quand j'avais 20 ans, elle n'avait encore aucun pouvoir dans l'université. Seulement j'étais ambitieux intellectuellement plus qu'institutionnellement, car, au dire d'un de mes plus grands amis, qui n'est plus de ce monde, j'étais naïf et romanesque. Mes premières publications et ma thèse sur «le Pain et le Cirque» relèvent de l'Ecole des Annales, je l'espère du moins.
Vous avez passé votre vie à étudier le monde romain et pourtant vous confessez que votre coeur est plus grec que romain. Pourquoi?
Le monde romain, je l'avais sous la main. Depuis mon enfance, j'étais passionné par les inscriptions latines antiques que je déchiffrais au musée de Nîmes, et, dans ma Provence, je ramassais et collectionnais les tessons romains et les monnaies antiques. Et puis, grec ou romain, qu'importe? La culture romaine s'est très vite hellénisée, est devenue une branche de cette civilisation grecque qui était la culture «universelle» du temps, du Maroc à la Mésopotamie. De même que le Japon est devenu un pays occidental.
Pour un Japonais, quel est le chef-d'oeuvre le plus populaire de la musique? La Neuvième Symphonie. Pour un lettré romain, pour Virgile, quel est le plus grand poète du monde? C'est Homère. Le plus grand philosophe? C'est Platon. Les lettrés romains étaient bilingues. Dans l'Empire romain, le grec était la langue internationale du commerce, de la science, de la médecine, comme pour nous l'anglais.
Vous écrivez que votre sensibilité de gauche est née à la vision du film de John Ford «les Raisins de la colère» et que votre conviction de démocrate s'est affirmée à la lecture de «la Grande Epreuve des démocraties» de Julien Benda. Pouvez-vous nous l'expliquer?
« Les Raisins de la colère » m'ont fait voir la société, pour la première fois, avec les yeux des défavorisés, alors que mon père était un plébéien devenu riche et très à droite. Et le livre de Benda, paru à la Libération, était une apologie de ce régime démocratique dont, dans mon milieu familial, j'avais entendu dire pis que pendre.
J'ai été le premier bachelier de ma famille et je suis un produit de l'«ascenseur social républicain». Il m'a permis de réaliser mon rêve, devenir archéologue, professeur. En effet, vers 1937, l'enseignement secondaire, collèges et lycées, était devenu gratuit, au grand scandale de la droite, mais son accès restait soumis à un examen d'entrée, et, de plus, les familles devaient acheter de leur bourse les livres de classe. L'enseignement secondaire ouvrait l'accès à la bourgeoisie, aux professions bourgeoises, médecin, avocat, ingénieur.

Quant à l'Ecole normale supérieure, c'était un lieu d'amitié, d'égalité et de liberté intellectuelle, dont on sortait agrégé, professeur, mais en outre on y était incité à se préparer à faire de la recherche. Et puis elle était une rare occasion de s'instruire sur la diversité humaine: il y avait là deux cents jeunes individus qui étaient tous différents et qui n'avaient pas encore tous revêtu l'uniforme d'une profession, ni endossé utilement un rôle à jouer. Cependant, on soupçonnait parfois parmi eux un futur politicien, un futur académicien...
Dans ce milieu, je me suis politisé par culpabilité, parce que je sortais d'une famille d'opinion collabo dont j'avais partagé les idées pendant la guerre, jusqu'à mes 15 ans. Et puis il convenait, par dignité, par vanité, de s'intéresser à trois choses, la culture, les femmes et la politique. Sinon, devenu archéologue et farfouillant dans d'antiques tessons, j'aurais l'air d'un cuistre.
A 22 ans, j'ai donc pris ma carte au Parti communiste [Paul Veyne l'a déchirée en 1956, lorsque les chars soviétiques sont entrés dans Budapest, NDLR], qui était à mes yeux le parti des défavorisés, des prolétaires. Et de fait, loin de l'Ecole normale, dans les milieux prolétariens, dans les banlieues parisiennes, j'ai appris par la suite quel était l'admirable dévouement des «militants de base» pour leurs frères prolétaires. Non, il ne faut pas trop condamner les anciens staliniens ni même les maoïstes tant moqués: ces intellos étaient égalitaires, altruistes; le coeur était bon...
Malheureusement, les hiérarques demeurant indispensables à toute société organisée et les hommes n'étant pas des anges, il se forme avec eux une nouvelle bourgeoisie, une nomenklatura toute-puissante et corrompue.
De Foucault («le grand ami de votre vie») à Char («la seule personnalité charismatique que vous ayez rencontrée de votre vie») ou à Le Goff («un exemple pour votre génération»), l'amitié prend souvent chez vous la forme d'un exercice d'admiration. Avez-vous besoin d'admirer pour aimer?
Distinguons bien: admirer ne m'empêche pas d'éprouver de l'amitié, bien au contraire; ce que j'admire m'attire, car j'espère ne pas être un envieux. L'amour, lui, c'est autre chose, c'est égalitaire et étranger à l'admiration. Certes, il lui faut un minimum et il est difficile d'être amoureux d'une sotte (alors qu'on peut, pour son malheur, tomber amoureux d'une garce bien douée: plus d'un roman nous l'a appris).
La personnalité d'une femme est source de jouissance: on tient dans ses bras un être lourd de sens (ou on est dans ses bras). Si l'on tenait dans ses bras une grande poétesse ou une politicienne de génie, une Catherine II, on n'admirerait pas, j'imagine: on savourerait.

Avec Foucault, vous parliez souvent de la mort. Que vous disiez-vous?
On répète aujourd'hui que la «société de consommation» néglige et oublie la mort, le culte des défunts, le deuil, les visites au tombeau. Foucault, au contraire, l'en louait, il vantait une mort en toute simplicité, ce qu'il appelait la mort-effacement. Donc, effacer la mort de sa pensée. Ce qui suppose qu'on cesse soi-même, une fois devenu vieux, d'être obsédé par l'idée de sa propre mort, chose difficile... Ce qui aide à le faire est de penser souvent au suicide, qui ôte à la mort sa toute-puissante initiative. Devenir maître de sa mort. Nous parlions souvent du suicide.
Ah, vous me demandez aussi comment j'avais fait la connaissance de Foucault. C'était à l'Ecole normale. Nous avions 20 ans et nous étions élèves, lui en avait 25 et il était «caïman» de philo, comme Althusser. A 45 ans, je l'ai retrouvé comme collègue au Collège de France et nous sommes devenus grands amis. Il m'avait décerné le titre d'homosexuel d'honneur.
Vous n'avez jamais cédé aux facilités de l'autosatisfaction intellectuelle. On peut donc vous demander de quoi vous êtes le plus fier dans votre oeuvre?
De mon bouquin sur René Char et de mon édition bilingue et annotée de «l'Enéide» qui vient de paraître en deux volumes aux Belles Lettres, car ce Char et ce Virgile sont les deux livres que j'ai eu le plus de plaisir à faire.
Vous qui avez traversé tant de tragédies personnelles, avez connu des «états extatiques» et êtes un «croyant malgré vous», comment voyez-vous la mort?
Je ne crois ni au Dieu personnel des chrétiens ni au dieu-nature de Spinoza ni en l'immortalité de notre âme, mais j'ai envie de croire que pourtant nous ne «mourrons» pas: la mort n'est pas le trou noir, le néant, car l'Esprit, ou Âme du monde, ou Pensée génératrice, est toujours là et «on» se retrouve dedans.
Seulement, une fois mort, «on» ne le sait pas, «on» n'est plus soi, le «je» n'existe plus, «on» a oublié ce qu'on a été. En revanche, «on» ne s'ennuie pas, puisque l'Âme du monde agit sans cesse. C'est elle qui, entre autres choses, invente et édife les êtres vivants, elle en est la cause finale et la cause formelle, tandis que notre science, qui ne peut et ne veut connaître que la causalité matérielle et efficiente, les causes physico-chimiques, demeure incapable d'expliquer la vie.

Quant aux «états extatiques» dont vous me parlez aussi, l'extase (qui n'est pas une expérience aussi ésotérique qu'on croit) ne m'a jamais rien appris, ni à moi ni à personne. Si on voit en extase la Vierge Marie ou l'Etre selon Heidegger, ce n'est pas parce qu'ils existent, mais parce qu'on y croit.
L'extase est aux antipodes de la transe, avec laquelle on la confond souvent: c'est un état calme et immobile, onirique et lucide en même temps (on sait fort bien qu'on est en extase); en revanche, elle fait vivre quelques minutes de rêve éveillé qui sont d'une intensité et d'une félicité inégalées, incomparables, paradisiaques. Alors, l'opium, la drogue, en comparaison, ça fait sourire... Malheureusement on y accède bien rarement et pas à volonté.
                                 Propos recueillis par François Armanet et Gilles Anquetil

mercoledì 26 novembre 2014

Piergiorgio Corbetta, Cinque Stelle cadenti

Ldc intervista Piergiorgio Corbetta
“Il Movimento ha perso, se non cambia morirà” 
Il Fatto quotidiano, 26 novembre 2014








"Il risultato dei Cinque Stelle è più che negativo, è negativissimo. Sono i più colpiti dall’astensionismo, nonostante quello che ha scritto Grillo". Piergiorgio Corbetta, direttore di ricerca presso l’istituto Cattaneo di Bologna, è co-autore del libro Il partito di Grillo (Il Mulino) assieme a Elisabetta Gualmini.
Secondo il blog del fondatore in Emilia Romagna il Movimento ha guadagnato voti. E l’astensionismo ha colpito solo gli altri partiti.
Non è così, i numeri dei flussi elettorali sono chiari. In Emilia i Cinque Stelle hanno perso 3/4 dei voti rispetto alle Europee della primavera scorsa. E molti di quei consensi sono finiti nell’astensione (il 43 per cento circa, ndr), un’altra parte è andata alla Lega Nord.
Rispetto alla Regionali del 2010 sono cresciuti.
Il paragone non regge, nel 2010 Grillo non era sceso in campo sul piano nazionale. Il Movimento così come è adesso ancora non esisteva.
Perché questo calo?
Perché i Cinque Stelle si alimentano del voto di protesta. Grillo, per dirla in termini tecnici, è stato il “prenditore” di quei votanti arrabbiati, se ne è impossessato con tecniche innovative. Ma quel tipo di elettore è impaziente, pretende subito risultati. E ora presenta il conto. O guarda alla Lega.
Salvini è il vero rivale di Grillo?
Di certo il Carroccio ha intercettato parte del voto di protesta, pescando nello stesso bacino dei 5Stelle. D’altronde nel 2013 Grillo fece il boom alle Politiche proprio prendendo molti voti alla Lega, e a Di Pietro.
Tra i 5Stelle infuria la polemica sull’andare o meno in tv. L’assenza dagli schermi ha influito sul voto?
È una questione di lana caprina. Prima delle Politiche non esistevano in televisione, anzi Grillo aveva fatto dell’ostracismo verso le tv uno dei suoi punti forti. Eppure nelle urne superarono il 25 per cento.
E allora cos’è che non funziona?
Il vero problema è che il M5S non ha una proposta politica chiara, solida. La stessa campagna anti-euro è confusissima. E poi i 5Stelle sono senza ideologia e senza radicamento territoriale. Hanno una base molto fragile.
I dissidenti accusano Grillo e Casaleggio.
La figura di Grillo rimane fondamentale, non ne possono fare a meno. Ma anche i vertici devono prendere atto che i movimenti prima o poi devono mutare pelle, diventare istituzioni: altrimenti muoiono. La storia lo ha sempre dimostrato.
Quindi?
Devono prendere atto che il modello dell’uno vale uno, della democrazia diretta, è fallito, è immaturo. E strutturarsi come un partito tradizionale. Meglio una democrazia approssimata che l’autocrazia di Grillo e Casaleggio, con le loro espulsioni immotivate. 



La senatrice Paola Taverna a Tor Sapienza




 

martedì 25 novembre 2014

Il nipote di Rameau, in tutto il suo cinico splendore

Denis Diderot 
Le neveu de Rameau
1762-73

Inedita durante la vita di Diderot, mai ricordata dai contemporanei, edita prima in traduzione tedesca che in francese, questa divenne la più nota tra le molte opere di Diderot.  Fu ritrovata da Schiller, utilizzata da Goethe.  Nella Fenomenologia, Hegel fece del Nipote la figura stessa della coscienza infelice, dilaniata e scissa in differenze, opposizioni, conflitti. 
 (Paolo Rossi
Denis Diderot e il cattivo nipote dei Lumi
Il Sole 24ore, 14 luglio 2002)




... c’est en réalité au beau milieu de la philosophie qu’éclate cette bombe dont on sait, aujourd’hui seulement, évaluer les dégâts. Par cette opération, Diderot ne se contente pas de rompre avec la métaphysique de l’âge classique, il rend son œuvre impropre à toute utilisation positiviste et, même, il détonne dans son siècle. Rongeant l’idée de progrès au moment où elle s’expose dans la gloire de son commencement, il n’est pas plus le collègue de Condorcet que le fourrier de la dialectique, car, à travers le Neveu, il démoralise la croyance à la perfectibilité, à l’accumulation des connaissances et des inventions, à la marche vers l’égalité, à l’avènement du bonheur des peuples (Elisabeth de Fontenay, Diderot et le matérialisme enchanté, Grasset 1981, p. 211).

...   Un pomeriggio mi trovavo là, tutto intento a guardare, parlando
poco e ascoltando il meno possibile, quando mi si avvicinò uno dei
personaggi più bizzarri di questo paese al quale Iddio non ne ha
fatti mancare. E' un insieme di nobiltà d'animo e di bassezza, di
buon senso e di follia: le nozioni di ciò che è onesto e di ciò che è
disonesto devono essere assai stranamente mescolate nella sua
testa, perché egli mostra senza ostentazione quel tanto di buone
qualità che la natura gli ha dato, e le cattive senza pudore. Inoltre,
è dotato di una costituzione robusta, di un calore di immaginazione
singolare, e di una forza di polmoni poco comune. Se vi capiterà di
incontrarlo, vi metterete le dita nelle orecchie, o fuggirete, a meno
che la sua originalità non vi trattenga. Dio, che terribili polmoni!
Nulla di più dissimile da lui di lui stesso. Talvolta è magro e scavato
come un malato all'ultimo stato di consunzione: gli si potrebbero
contare i denti attraverso le guance, si direbbe che abbia passato
molti giorni senza mangiare, o che esca dalla Trappa. Il mese dopo,
è grasso e ben pasciuto come se non si fosse mai alzato dalla tavola
di un finanziere, o fosse stato rinchiuso in un convento di
Bernardini.
Oggi con la camicia sporca, i pantaloni strappati, tutto lacero,
semiscalzo, se ne va a testa bassa, sfugge, e si sarebbe tentati di
chiamarlo per dargli l'elemosina. Domani, incipriato, ben calzato,
elegante, cammina a testa alta, si fa notare, e lo scambiereste
quasi per un galantuomo. Vive alla giornata, triste o lieto secondo le
circostanze. Il suo primo pensiero, quando si alza al mattino, è di
sapere dove andrà a pranzare; dopo pranzo si domanda dove fare la
cena. Anche la notte ha il suo problema: egli allora raggiunge a piedi
una piccola soffitta dove abita, a meno che la padrona, stanca di
aspettare il fitto, non si sia fatta restituire la chiave; oppure si
caccia in una taverna dei sobborghi e là aspetta il giorno davanti a
un pezzo di pane e a un boccale di birra. Quando non ha nemmeno
sei soldi in tasca, il che talvolta gli accade, ricorre a qualche
vetturino suo amico, o al cocchiere di un gran signore, che gli dà un
letto sulla paglia, accanto ai cavalli: al mattino ha ancora parte del
suo materasso nei capelli. Se la stagione è mite, passeggia tutta la
notte su e giù per il Corso o per i Campi Elisi. Ricompare col giorno
in città, vestito dalla vigilia per l'indomani, e talora dall'indomani
per il resto della settimana. Io non ho stima di siffatti originali;
altri entrano con loro in rapporti di familiarità e perfino di
amicizia; ma quanto a me, fermano la mia attenzione una volta
all'anno, quando li incontro, perché il loro carattere si stacca da
quello degli altri, ed essi rompono la noiosa uniformità che la nostra
educazione, le nostre convenienze sociali, le nostre abitudini hanno
introdotto. Se ne capita uno in qualche compagnia, è come un
granello di lievito che fermenta e che restituisce a ciascuno una
parte della sua individualità naturale. Scuote, agita, fa approvare o
biasimare, fa uscire la verità, fa riconoscere le persone perbene,
smaschera i furfanti: allora l'uomo di buon senso ascolta e giudica
la gente.
Conoscevo costui da gran tempo. Frequentava una casa della quale il
suo talento gli aveva aperto la porta. Vi era una figlia unica, e al
padre e alla madre egli giurava che l'avrebbe sposata. Essi alzavano
le spalle, gli ridevano sul naso, gli dicevano che era matto, eppure io
vidi il giorno in cui la cosa avvenne davvero. Mi chiedeva in prestito
qualche scudo, e io glielo davo. Si era introdotto, non so come, in
alcune case di gente perbene, ove aveva il suo posto a tavola, a
condizione che non parlasse senza prima averne il permesso.
Taceva, dunque, e mangiava furiosamente; era magnifico a vedersi
in questi frangenti. Se gli veniva desiderio di rompere il patto, e
apriva la bocca, alla prima parola tutti gli invitati esclamavano:
"Rameau!". Allora la collera scintillava nei suoi occhi ed egli si
rimetteva a mangiare più rabbiosamente. Eravate curiosi di
conoscere il nome dell'uomo, e ora lo conoscete. E' il nipote di quel
celebre musicista che ci ha liberati dal canto di chiesa del Lulli che
noi salmodiavamo da più di cento anni, che nei suoi scritti ha
esposto tante visioni inintelligibili e verità apocalittiche sulla teoria
della musica, di cui né lui né nessuno ha mai capito nulla, e del quale
ancora restano un certo numero di opere che contengono armonie,
spunti di canto, idee scucite, fracasso, voli, trionfi, lance, glorie,
sussurri, vittorie da restar senza fiato, arie di danza che
rimarranno eterne. Egli ha sepolto il maestro fiorentino ma poi a
sua volta sarà sepolto dai virtuosi italiani, cosa che presagiva, e che
lo rendeva malinconico, nervoso, triste, insocievole; perché nessuno
ha tanto cattivo umore, neppure una bella donna che si sveglia con
un foruncolo sul naso, quanto un autore che minaccia di
sopravvivere alla sua fama, testimoni Marivaux e Crébillon figlio.

°°°

...  Un après-dîner, j’étais là, regardant beaucoup, parlant peu, et écoutant le moins que je pouvais; lorsque je fus abordé par un des plus bizarres personnages de ce pays où Dieu n’en a pas laissé manquer. C’est un composé de hauteur et de bassesse, de bon sens et de déraison.
Il faut que les notions de l’honnête et du déshonnête soient bien étrangement brouillées dans sa tête; car il montre ce que la nature lui a donné de bonnes qualités, sans ostentation, et ce qu’il en a reçu de mauvaises, sans pudeur. Au reste il est doué d’une organisation forte, d’une chaleur d’imagination singulière, et d’une vigueur de poumons peu commune. Si vous le rencontrez jamais et que son originalité ne vous arrête pas; ou vous mettrez vos doigts dans vos oreilles, ou vous vous enfuirez. Dieux, quels terribles poumons. Rien ne dissemble plus de lui que lui-même. Quelquefois, il est maigre et hâve, comme un malade au dernier degré de la consomption; on compterait ses dents à travers ses joues. On dirait qu’il a passé plusieurs jours sans manger, ou qu’il sort de la Trappe. Le mois suivant, il est gras et replet, comme s’il n’avait pas quitté la table d’un financier, ou qu’il eût été renfermé dans un couvent de Bernardins. Aujourd’hui, en linge sale, en culotte déchirée, couvert de lambeaux, presque sans souliers, il va la tête basse, il se dérobe, on serait tenté de l’appeler, pour lui donner l’aumône. Demain, poudré, chaussé, frisé, bien vêtu, il marche la tête haute, il se montre et vous le prendriez au peu prés pour un honnête homme. Il vit au jour la journée. Triste ou gai, selon les circonstances. Son premier soin, le matin, quand il est levé, est de savoir où il dînera; après dîner, il pense où il ira souper. La nuit amène aussi son inquiétude. Ou il regagne, à pied, un petit grenier qu’il habite, à moins que l’hôtesse ennuyée d’attendre son loyer, ne lui en ait redemandé la clef; ou il se rabat dans une taverne du faubourg où il attend le jour, entre un morceau de pain et un pot de bière.
Quand il n’a pas six sols dans sa poche, ce qui lui arrive quelquefois, il a recours soit à un fiacre de ses amis, soit au cocher d’un grand seigneur qui lui donne un lit sur de la paille, à côté de ses chevaux. Le matin, il a encore une partie de son matelas dans ses cheveux. Si la saison est douce, il arpente toute la nuit, le Cours ou les Champs-Élysées. Il reparaît avec le jour, à la ville, habillé de la veille pour le lendemain, et du lendemain quelquefois pour le reste de la semaine. Je n’estime pas ces originaux-là. D’autres en font leurs connaissances familières, même leurs amis. Ils m’arrêtent une fois l’an, quand je les rencontre, parce que leur caractère tranche avec celui des autres, et qu’ils rompent cette fastidieuse uniformité que notre éducation, nos conventions de société, nos bienséances d’usage ont introduite. S’il en paraît un dans une compagnie; c’est un grain de levain qui fermente qui restitue à chacun une portion de son individualité naturelle. Il secoue, il agite; il fait approuver ou blâmer; il fait sortir la vérité; il fait connaître les gens de bien; il démasque les coquins; c’est alors que l’homme de bon sens écoute, et démêle son monde. Je connaissais celui-ci de longue main. Il fréquentait dans une maison dont son talent lui avait ouvert la porte. Il y avait une fille unique. Il jurait au père et à la mère qu’il épouserait leur fille. Ceux-ci haussaient les épaules, lui riaient au nez ; lui disaient qu’il était fou, et je vis le moment que la chose était faite. Il m’empruntait quelques écus que je lui donnais. Il s’était introduit, je ne sais comment, dans quelques maisons honnêtes, où il avait son couvert, mais à la condition qu’il ne parlerait pas, sans en avoir obtenu la permission.
Il se taisait, et mangeait de rage. Il était excellent à voir dans cette contrainte. S’il lui prenait envie de manquer au traité, et qu’il ouvrit la bouche ; au premier mot, tous les convives s’écriaient, ô Rameau! Alors la fureur étincelait dans ses yeux, et il se remettait à manger avec plus de rage. Vous étiez curieux de savoir le nom de l’homme, et vous le savez. C’est le neveu de ce musicien célèbre qui nous a délivrés du plain-chant de Lulli que nous psalmodions depuis plus de cent ans; qui a tant écrit de visions inintelligibles et de vérités apocalyptiques sur la théorie de la musique, où ni lui ni personne n’entendit jamais rien, et de qui nous avons un certain nombre d’opéras où il y a de l’harmonie, des bouts de chants, des idées décousues, du fracas, des vols, des triomphes, des lances, des gloires, des murmures, des victoires à perte d’haleine; des airs de danse qui dureront éternellement, et qui, après avoir enterré le Florentin sera enterré par les virtuoses italiens, ce qu’il pressentait et le rendait sombre, triste, hargneux; car personne n’a autant d’humeur, pas même une jolie femme qui se lève avec un bouton sur le nez, qu’un auteur menacé de survivre à sa réputation; témoins Marivaux et Crébillon le fils.