sabato 1 novembre 2014

Ken Follett torna sul secolo breve

Andrea Colombo
Follett, il secolo breve finisce nel bestseller cult
il manifesto, Alias, 26 ottobre 2014

Pren­dete un paio di ragazzi che si amano, con­tra­stati e osta­co­lati da tra­ver­sie di ogni genere: guerre, crisi e cata­cli­smi ma anche diversa appar­te­nenza di classe, trame sub­dole, orgo­gli e pre­giu­dizi. È la strut­tura eterna del romanzo rosa, e prima di stor­cere l’aristocratico nasino ricor­date che pre­ci­sa­mente a par­tire da que­sta popo­la­ris­sima strut­tura hanno scritto e creato ragazze dotate come Jane Austen o Edith Whar­ton. Se poi i con­tra­stati amori sono tanti, sca­glio­nati nelle vicis­si­tu­dini di cin­que fami­glie sparse in quat­tro Paesi (Usa, Rus­sia, Ger­ma­nia e Inghil­terra) le cui sto­rie, nell’arco di tre gene­ra­zioni, si incon­trano, si sfio­rano e spesso si intrec­ciano; se infine le peri­pe­zie in que­stione deri­vano tutte dagli scon­vol­gi­menti sus­se­gui­tisi senza posa nel secolo che ini­zia con un colpo di pistola a Sara­jevo e ter­mina sotto le mace­rie di un Muro, allora il fumet­tone rosa lie­vita sino a diven­tare romanzo sto­rico. Più pre­ci­sa­mente il primo e ambi­zioso ten­ta­tivo di tra­durre in let­te­ra­tura popo­lare e di vasto con­sumo il Secolo breve di Eric Hob­sbawm. Nello spe­ci­fico la Cen­tury Tri­logy di Ken Follett.
La for­mula può sem­brare ele­men­tare, ma si sa che per fare bene le cose che paiono sem­plici biso­gna essere mae­stri. Nel suo genere Ken Fol­lett indi­scu­ti­bil­mente lo è, e la sua tri­lo­gia fun­ziona. Ipno­tizza a dovere il let­tore e for­ni­sce un qua­dro sto­rico più che ade­guato, a tratti appro­fon­dito e anti­con­ven­zio­nale, come quando spiega le ragioni della Ger­ma­nia nella prima guerra mon­diale e del Giap­pone nella seconda, oppure par­zial­mente riva­luta un pre­si­dente ame­ri­cano tanto meri­to­rio nella poli­tica interna quanto disdi­ce­vole in quella estera, Lyn­don John­son, e ne demo­li­sce invece uno assur­da­mente soprav­va­lu­tato, Ronald Rea­gan.
Fol­lett ha con­sa­pe­vol­mente deciso di sacri­fi­care lo spes­sore dei suoi per­so­naggi alla pre­ci­sione della rico­stru­zione sto­rica. In cia­scuno dei tre romanzi i per­so­naggi prin­ci­pali cam­biano, per­ché lo scrit­tore sce­glie il ricam­bio gene­ra­zio­nale, seguendo di volta in volta le nuove leve e rele­gando sullo sfondo i geni­tori e i nonni, già pro­ta­go­ni­sti dei romanzi pre­ce­denti. Dif­fi­cile pen­sare che un autore tanto esperto e sma­gato non si ren­desse conto di togliere, così, molto ai suoi pro­ta­go­ni­sti, abban­do­nati appena var­cata la soglia della gio­vi­nezza. Però altra strada per rac­con­tare il Nove­cento non solo negli eventi sto­rici ma anche nelle tra­sfor­ma­zioni pro­fonde, quelle cul­tu­rali e delle men­ta­lità, non c’era. Per­ché sono i gio­vani a incar­nare, vivere sulla pelle, vei­co­lare e imporre quei cam­bia­menti radi­cali: da una società vit­to­riana alla libe­ra­zione ses­suale degli anni ses­santa, da una società che alle donne negava tutto alla rivo­lu­zione fem­mi­nile, da un assetto sociale ancora cen­trato sul potere dell’ancien régime, sulle bar­riere di classe e su quelle raz­ziali, al loro abbat­ti­mento, sia pur non ancora com­ple­tato. E sono stati i gio­vani, anzi i gio­va­nis­simi, a com­bat­tere quando le guerre sono diven­tate incan­de­scenti: nei due con­flitti mon­diali, in Spa­gna, in Vietnam.
I giorni dell’eternità (Mon­da­dori, pp. 1218, euro 20,00), il volume che com­pleta la tri­lo­gia e che ha sùbito spo­po­lato anche nelle clas­si­fi­che ita­liane, ini­zia con la costru­zione del Muro, fini­sce con la sua distru­zione. In mezzo c’è di tutto: la crisi di Cuba, la lotta dei neri per i diritti civili, il rock e gli hip­pies, il Viet­nam e l’invasione della Ceco­slo­vac­chia, Water­gate e le spor­che guerre della Cia, Soli­dar­nosc e la Gla­snost. Pro­ba­bil­mente è il migliore dei tre romanzi, forse per­ché qui Fol­lett, classe 1949, nato nel Gal­les ma tra­sfe­ri­tosi nella capi­tale a dieci anni, pro­prio quando le tinte sfol­go­ranti della Swin­ging Lon­don sosti­tui­vano il gri­giore di un lun­ghis­simo dopo­guerra, parla per espe­rienza diretta e si può basare su un mate­riale più vivace e det­ta­gliato per trat­teg­giare le figure sto­ri­che reali.
Nei volumi pre­ce­denti i per­so­naggi sto­rici, da Chur­chill a Lenin e Sta­lin, ave­vano fatto fugaci appa­ri­zioni. Qui invece cam­peg­giano, gra­zie a un ovvio espe­diente: molti dei per­so­naggi sono col­la­bo­ra­tori diretti dei fra­telli Ken­nedy, di Luther King, Chru­scev, Kosy­gin, Gor­ba­ciov. La guerra fredda è così descritta dall’interno delle tolde di comando, e il risul­tato è tanto avvin­cente quanto il thril­ler meglio con­ge­gnato, forse di più. Un altro gruppo di pro­ta­go­ni­sti abita invece pal­co­sce­nici di altra natura: quelli delle diverse scene rock dell’epoca, dai club lon­di­nesi dei primi anni ses­santa alla Haight-Ashbury hippe fino ai grandi con­certi da sta­dio degli ottanta. Per quanto le due realtà si incro­cino fre­quen­te­mente, Fol­lett le ado­pera per scopi distinti: i poli­tici per met­tere in scena gli eventi sto­rici, le rock­star per descri­vere la cul­tura ribelle degli anni ses­santa e set­tanta.
C’è una seconda dif­fe­renza sostan­ziale, oltre alla cen­tra­lità dei per­so­naggi sto­rici, tra l’ultimo tas­sello della tri­lo­gia e i pre­ce­denti: l’arco cro­no­lo­gico è molto più ampio. La caduta dei giganti abbrac­ciava un decen­nio, dal 1914 al 1924. L’inverno del mondo copriva gli anni bui dei tota­li­ta­ri­smi, dalla presa del potere di Hitler nel 1933 all’inizio della guerra fredda nel 1947. Il terzo libro si estende lungo ben 29 anni: dal 1960 al 1989. Il risul­tato è una spro­por­zione che l’autore rie­sce a risol­vere bene sul piano nar­ra­tivo, non altret­tanto su quello sto­rico. La prima metà del tren­ten­nio in que­stione, dalla edi­fi­ca­zione del Muro alle dimis­sioni di Nixon, occupa 1068 pagine e man­tiene inal­te­rato lo sguardo a tutto campo con cui Fol­lett aveva affron­tato le due guerre mon­diali, la rivo­lu­zione russa, i tota­li­ta­ri­smi. L’ultimo scor­cio del secolo breve è invece una rico­gni­zione a volo d’uccello, con l’obiettivo ristretto solo sul crollo dei regimi dell’est. Resta così tagliata fuori dalla sto­ria del Nove­cento l’offensiva vin­cente neo­li­be­ri­sta, la ster­zata sto­rica che ha let­te­ral­mente dato forma all’assetto sociale nel quale siamo a tutt’oggi infe­li­ce­mente immersi. Basti dire che non una sola volta, nel libro, è nomi­nata la signora Mar­ga­ret That­cher, che pure sta a quella con­tro­ri­vo­lu­zione come Lenin alla rivo­lu­zione del 1917 ed è senza dub­bio una delle prin­ci­pali pro­ta­go­ni­ste della sto­ria del secolo scorso.
Forse non si tratta solo di una can­cel­la­zione dovuta a esi­genze di spa­zio. Lo sguardo di Fol­lett non è, né pre­tende di essere, al di sopra delle parti. Mili­tante labu­ri­sta sin da gio­va­nis­simo, lo scrit­tore è spo­sato con una diri­gente del Labour tre volte eletta in par­la­mento, Bar­bara Broer, ed è da sem­pre uno dei più attivi soste­ni­tori del par­tito. È stato ed è ancora un blai­riano con­vinto. La para­bola del Nove­cento, nella sua tri­lo­gia, è un per­corso tra­gico e con­tra­stato ma ine­lut­ta­bile verso la luce e il pro­gresso. Da un’Europa tiran­neg­giata dall’ancien régime e poi dalle dit­ta­ture alla festa demo­cra­tica del Muro abbat­tuto; da una con­di­zione fem­mi­nile rele­gata nell’angolo dell’inferiorità per­ma­nente alla con­qui­sta pro­gres­siva della parità; dalla discri­mi­na­zione raz­ziale all’elezione del primo pre­si­dente nero degli Usa, citata in un «Epi­logo» appo­si­ta­mente aggiunto. I gua­sti delle società demo­cra­ti­che ci sono, ma deri­vano dall’inquinamento di com­po­nenti che di demo­cra­tico hanno ben poco, come la Cia con le sue perenni trame, e non ne intac­cano l’essenza. La Cen­tury Tri­logy è una sto­ria a lieto fine: le ombre del pre­sente non pote­vano tro­vare spa­zio. E nep­pure la loro genea­lo­gia, che nei con­flitti del secolo breve e nel loro esito finale affonda invece le radici.

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