mercoledì 14 gennaio 2015

Kaputt settant'anni dopo

Matteo Nucci
A settant'anni da "Kaputt" di Curzio Malaparte
Il Venerdì di Repubblica, 9 gennaio 2015, n. 1399

Per Kurt Suckert, meglio conosciuto come Curzio Malaparte, quello di settant’anni fa fu un capodanno di festa. A poco più di un mese dall’uscita di Kaputt, le reazioni di stupore si reduplicavano e all’estero già si preparavano a tradurlo. Dalla casa di Capo Massullo,
tuttavia, lo scrittore fingeva di riservare interesse a ben altre vicende. Il secondo capitolo dell’immane sforzo di raccontare «la peste della guerra» era già aperto (La pelle sarebbe uscito quattro anni dopo) e il bisogno di Malaparte di accreditarsi nel mondo nuovo che andava consolidandosi lo spingeva a cercare una sponda nelle fila del Partito Comunista. Fu così che, mentre il consenso letterario accoglieva una delle più straordinarie opere del Novecento, nell’Italia ancora spezzata, Kaputt apparve anche come il furbo prodotto di quell’uomo dal passato fascista che gran parte del mondo politico e intellettuale si sarebbe poi affannato a condannare. Negli anni seguenti, alle accuse contro l’abilità nel destreggiarsi fra opposti poteri si aggiunse la critica all’affidabilità dei resoconti. Tanto che si addensarono sull’opera dello scrittore ombre che si sono allungate fino ai nostri anni.
A rileggere oggi questo capolavoro (da poco tascabile: Adelphi, pp. 476, euro 13), si resta sbalorditi. E innanzitutto proprio per l’abilità della mano con cui Malaparte riuscì a trasformare la realtà. Magia, grottesco, follia, allegoria, sogno, delirio si alternano a raccontare una dimensione che sfugge di continuo, tanto è l’orrore di un’umanità che fatica a restare nell’alveo della sua animalità. Questo «viaggio al termine della notte» nell’Europa in fiamme (Céline è stato più volte chiamato in causa) fu sì il risultato dei viaggi del Malaparte inviato sul fronte orientale per il Corriere della sera (Romania, Polonia, Jugoslavia, Germania, Ucraina, Russia, Svezia e Finlandia) ma fu soprattutto esso stesso un viaggio nel mondo animale dominato da quel «mostro allegro e crudele» cui allude la «dura e quasi misteriosa parola tedesca Kaputt, che letteralmente significa “rotto, finito, andato in pezzi, in malora”».
Le sei parti del libro sono intitolate a cavalli, topi, cani, uccelli, renne e mosche. Perché, come scrive Maurizio Serra, autore della definitiva biografia (Malaparte. Vite e leggende, trad. dal francese di A. Folin, Marsilio, pp. 587, euro 25), «gli animali sono gli unici innocenti per definizione, i soli che soffrano di una pena che non ha la sua origine nell’espiazione di una colpa, ma nel sacrificio puro, gratuito, cristologico». Animali sono dunque gli uomini nella loro veste di vittime, laddove nel momento in cui si fanno persecutori si assimilano piuttosto alla perversione di «animali degradati dalla ragione».
Le storie che l’io narrante del libro, ovvero lo stesso Malaparte, racconta in circostanze reali trasformate da una penna trasfigurante, gettano luce, oltreché sugli esseri umani, sui popoli. E principalmente, è ovvio, sui tedeschi di cui si racconta in continuazione la paura: «Hanno paura sopra tutto degli esseri deboli, delle donne, dei bambini. Hanno paura dei vecchi. La loro paura ha sempre suscitato in me una profonda pietà. Se l’Europa avesse pietà di loro, forse i tedeschi guarirebbero del loro orribile male». Degli italiani, Malaparte ghigna in prima persona: «Io ho perso l’abitudine di agire. Sono un italiano. Non sappiamo più agire, non sappiamo più assumere alcuna responsabilità». Degli spagnoli, invece, egli parla attraverso uno dei personaggi principali del libro, il Conte Augustín de Foxá, Ministro di Spagna a Helsinki: «È crudele e funereo come ogni buon spagnolo. Soltanto per l’anima ha rispetto: il corpo, il sangue, le sofferenze lo lasciano indifferente. Gli piace parlar della morte, si rallegra come una festa nel veder passare un funerale».
Mai come in Kaputt, Malaparte ci appare nella sua potenza di camaleonte.  «Aristocratico con gli aristocratici, diplomatico con i diplomatici, militare con i militari, operaio con gli operai», compare sulla scena a Stoccolma, a fianco del Principe Eugenio di Svezia, cui dopo poco comincia a narrare di un villaggio ucraino dove con soldati romeni discorre di Unione Sovietica pensando a Tolstoj e affondando sempre più in un vortice di storie e di lingue. Tedesco, francese, romeno attraversano la scena, mentre Malaparte porta ovunque il suo sarcasmo, il gusto del paradosso, la battuta salace tipica del ragazzo nato a Prato da padre sassone e madre milanese.
Dalla “corte” del Generalgoverneur di Polonia, Hans Frank (poi condannato a morte a Norimberga), dove si aprono gli scenari più atroci del ghetto di Varsavia e del tragico pogrom romeno di Jassy (dove morirono 14000 ebrei), fino all’amata Finlandia dove Malaparte affabula gli ascoltatori fra l’altro con i bombardamenti di Belgrado vissuti da un cane. Berlino, Zagabria, il mefistofelico duce croato Ante Pavelic, Capri, Axel Munthe, Edda Ciano, e finalmente la Lapponia dove incontriamo Himmler nudo in sauna, giunto lì a punire con la fucilazione i soldati tedeschi presi dal desiderio del suicidio. Il paradosso domina. Tutto si confonde. Vita e morte perdono i loro significati elementari e l’abilità di scrittore di Malaparte raggiunge vette inarrivabili.
Kaputt è anche un gioco di tempi. Presente e passato s’intrecciano senza lasciar più
speranza al lettore. Sogni e ricordi prendono il sopravvento, notti ebbre si riempiono di violenza pronta a sciogliersi in risate folli. E, prima che l’autore torni a Roma e Napoli (gli ultimi due capitoli) un aneddoto reale viene trasformato al punto da chiarire definitivamente quella che è la vera chiave del libro:  il misero scontro fra uomini e uomini s’illumina soltanto quando l’uomo affronta l’animale che è in sé. È la storia della lotta contro i salmoni ingaggiata dai soldati tedeschi nella loro pesca guidata dall’insana brama di estirpare la specie ittica. Ma «i salmoni sono coraggiosissimi e non è facile vincerli». Così, quando il generale von Heunert si troverà a dover sconfiggere l’ultimo esemplare del fiume Juutuanjoki, Malaparte regalerà al lettore una delle scene più indimenticabili.
Nell’appendice che Adelphi propone troviamo la vera storia su cui lavorò letterariamente (p. 452). È una prova eccezionale per capire quanto egli stesso avrebbe detto circa il suo stile in Pelle, forse già difendendosi dalle accuse montanti. È un manifesto di poetica, quello messo in bocca, nella finzione, a un colonnello americano di nome Hamilton. Dovrebbe tranquillizzarci per sempre e consentirci di ridare a questo fenomenale scrittore il posto che gli è stato spesso negato. «Non ha alcuna importanza» dice Hamilton «se quel che Malaparte racconta è vero o falso. La questione da porsi è un’altra: se quel che egli fa è arte, o no».

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