lunedì 2 marzo 2015

Le lacrime, le vittime, il tradimento: il repertorio melodrammatico nella politica italiana

Guido Vitiello





Può capitare che la frase giusta sia pronunciata dalla persona sbagliata, nel momento sbagliato e con l’intendimento sbagliato. La risposta che il capo brigatista Mario Moretti diede a Sergio Zavoli, che gli domandava con quale animo avesse affrontato i momenti prima dell’uccisione di Aldo Moro, è probabilmente uno di questi casi: “È difficile in un paese come il nostro, abituato al melodramma, spiegare la tragedia”. Se in Germania il sequestro Schleyer da parte della Raf apparve subito in una luce tragica – tanto che in un film girato a caldo, Germania in autunno, l’archetipo portante era l’Antigone di Sofocle – in Italia anche al caso Moro abbiamo adattato gli schemi più familiari del melodramma: la vittima tenuta ostaggio da barbari aguzzini, che testimonia nella sofferenza la sua virtù, smascherando viltà e macchinazioni dei vecchi compagni di partito. A questa consuetudine antica – Gramsci parlava di “malattia melodrammatica” – la storica Carlotta Sorba ha appena dedicato un libro prezioso, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento (Laterza). Prezioso, perché mette in ordine e in prospettiva tratti più o meno latenti della vita pubblica italiana, dal culto della vittima all’onnipresenza delle lacrime all’ostentazione virtuosa dell’indignazione.

Ma al presente si arriva per vie tortuose. Dalla Francia prerivoluzionaria il mélo si propaga ai teatri d’Europa, dove conquista il suo pubblico con storie di vittime innocenti, di malvagi che le tengono prigioniere, di duelli e di raggiri, di una virtù trionfante dopo mille peripezie, il tutto tra luci e ombre violentissime, passioni arroventate, fiumi di lacrime che ne suggellano l’autenticità. Presto però il melodramma esce dai teatri e offre il suo canovaccio alle narrazioni politiche, specie a quelle del riscatto patriottico. In Italia la vittima è la Nazione oppressa da secoli, che patisce gli oltraggi dello straniero in attesa dei patrioti vendicatori della sua virtù. “Un giusto fremito per l’innocenza tradita, per la virtù oppressa, per l’infamia in trionfo”, recita un proclama del 1848 che pare la locandina di un mélo. L’impresa dei Mille verrà anch’essa narrata in questa chiave, e Mazzini in veste di spin doctor contribuirà a creare intorno a Garibaldi l’aura dell’eroe melodrammatico.



Il guaio è che, se in altri paesi le vie dell’intrattenimento e quelle della politica si separarono ben presto, in Italia questo non è avvenuto mai, o mai del tutto. Osserva Sorba in coda al libro che ancor oggi le cronache parlamentari sembrano figlie del melodramma, fitte di tradimenti, di intrighi, di un registro morale e sentimentale spinto all’eccesso. Ci sarebbe da scrivere un altro libro, sugli ultimi due decenni nel paese del melodramma, o almeno da immaginarlo. Un capitolo potrebbe affrontare l’insolito tasso di umidità della Seconda repubblica, tra le lacrime di Occhetto e le lacrime di Bersani, le lacrime della Fornero e le lacrime della Forleo, le lacrime di Livia Turco e le lacrime di Berlusconi. Chi non piange, qui, è sospettato di insincerità (e di colpevolezza certa, se si ritrova imputato). Un altro capitolo potrebbe trattare l’applicazione del repertorio melodrammatico a una lunga serie di vittime (possibili paragrafi: Moro, Pasolini, Berlinguer, Borsellino) e il vittimismo come ideologia nazionale trasversale. Un altro ancora dovrebbe mostrare come il mito della patria oppressa sia stato riversato, pari pari, in quello della Costituzione tradita o peggio stuprata, con i nazareni al posto degli austriaci. E un ultimo capitolo potrebbe risalire all’origine melodrammatica dell’indignazione virtuosa, capace di generare non solo occasionali campagne ma, cosa incredibile, interi partiti.




Sarebbe un libro gremito di scene madri, di “Che fai, mi cacci?” e di “Fassina chi?”; ma come superare in spirito melodrammatico il grido di battaglia dell’intrepido Civati, quando in vista del congresso lanciò il guanto di sfida ai centouno felloni? “Vendicherò Prodi e Rodotà”.

Articolo uscito sul Foglio il 28 febbraio 2015 con il titolo La politica italiana e quella storica tendenza al repertorio melodrammatico

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