domenica 8 marzo 2015

L'esibizionismo digitale di massa

Carlo Bordoni

Dilaga il rito dell’intimità pubblica
Addio incontri riservati con prete e analista
Domina l’esibizionismo digitale di massa

Corriere della Sera La lettura, 8 marzo 2015

«A partire dal Medioevo, le società occidentali hanno posto la confessione fra i riti più importanti da cui si attende la produzione della verità». Tanto che l’uomo «è diventato una bestia da confessione». L’affermazione di Michel Foucault, del quale ora Feltrinelli pubblica le lezioni del 1971 per il corso al Collège de France, è ancora fatalmente attuale. Il dispositivo della confessione, come forma di autodenuncia, volontà di espiazione, liberazione dal senso di colpa e desiderio di condivisione pubblica, si è però adattato ai tempi, utilizzando i nuovi media come sostituti del sacro. Una tra le forme di spettacolarizzazione dell’intimità che la postmodernità ha introdotto, spingendo l’individuo a mostrarsi, ad autopromuoversi con disperata invadenza nel tentativo di affermarsi. E se per questo non basta Facebook, la Rete offre siti specifici (Erba del vicino, PostSecret, Insegreto, Sfoghiamoci.com) in cui rivelare il proprio intimo attraverso la sottomissione al giudizio collettivo.
Si prefigura una società a intimità diffusa, dove la condivisione della vita privata si fa valore espositivo che si misura nella quantità di like: è sempre più trendy confessare le colpe e gli episodi imbarazzanti della propria sfera personale.
Il dispositivo della confessione, inizialmente formulato dal cristianesimo come ricerca della verità del sé, fondamentale ai fini della propria salvezza, si è poi fatto strumento terapeutico nella psicoanalisi e procedimento laico riservato alla letteratura. Nel Tropico del Cancro Henry Miller dichiarava la sua motivazione alla scrittura promettendo: «Mi stenderò sul tavolo operatorio e metterò in mostra le budella». Solo all’autore era concessa la libertà, in nome dell’arte, di svelarsi in pubblico senza ritegno; agli altri conveniva esercitare la pratica della confessione privatamente. Dal sacerdote, nell’anonimato del confessionale, o sul lettino dello psicoanalista. Colloqui strettamente riservati, la cui funzione era penitenziale o terapeutica. Ma comunque sempre di fronte a un interlocutore singolo, un ascoltatore con il potere di assolvere, alla cui mercé ci si affidava nella consapevolezza che solo quella ritualità permette il sollievo. Perché la confessione è sempre una sorta di assoluzione, anche quando prevede un castigo, poiché contiene in sé il desiderio di espiare. Non a caso in tutte le legislazioni il reo confesso ottiene una riduzione della pena.
Ma come è stato possibile rompere i limiti del privato e riversare in pubblico, senza remore, ciò che appartiene alla sfera più intima dell’individuo?
Secondo Norbert Elias il «muro invisibile posto tra mondo interiore e mondo esterno» è soprattutto una questione «specifica di formazione della coscienza». Fa parte del nostro retaggio, è un fatto culturale. Come tale il mondo interiore dovrebbe restare segreto, un tabù insuperabile. Invece è stato travolto dall’imprevista corsa all’esibizione di sé, vero selfie dell’anima che si fa sempre più generalizzato e invadente. Supera i confini della decenza e, in video come sul web, appare più un coro di voci dissonanti che reclamano attenzione e chiedono con forza di essere ascoltate e riconosciute. È proprio il riconoscimento, l’attesa di una rivalutazione pubblica del sé, che muove alla confessione. Rispondere alla domanda «perché l’hai fatto?» significa a un tempo rivivere l’azione e, traducendone il fatto nelle parole, darne una spiegazione razionale per redimersi. Più che a soddisfare il bisogno inconscio di liberarsi del proprio senso di colpa e cercare la punizione, come sosteneva Theodor Reik, sulla scorta di Freud, qui si assiste alla purificazione della colpa attraverso la pubblica condivisione. Non si cerca la verità, la razionalizzazione dell’errore commesso, la sua trasposizione sul piano della parola che sostituisca l’azione e la rimuova.
L’ammissione, lo svelamento dei propri errori, delle colpe, dei tradimenti, del disamore, degli egoismi, ricerca l’approvazione pubblica, il riconoscimento della propria umanità e debolezza. Diventa una modalità di partecipazione, un rito di passaggio che sancisce l’appartenenza alla comunità. Si dissolve così ogni rapporto di potere, da quello che costringe a confessare, persino sotto tortura, a quello che s’instaura col confessore. L’assoluzione non è più data da un singolo, sia esso il giudice, il prete o il medico analista, ma da una moltitudine di pari che assorbe, ingloba il nuovo e se ne rafforza.
L’odierna pratica della confessione pubblica attraverso i media si potrebbe allora configurare come una riammissione nel corpo della comunità, quasi un aggiornamento dell’ exomologesi , cioè di quella drammatica rivelazione di sé attraverso la quale il peccatore chiede di essere riaccolto nella Chiesa.
Resta l’ambiguità che nella confessione risieda il vero, quale presupposto della libertà: invece della liberazione c’è il rischio di essere presi in trappola da un potere senza volto, la cui forza può essere distruttiva. Converrà, in fondo, seguire il suggerimento dello stesso Foucault, espresso un decennio più tardi in Mal fare, dir vero , e che suona come un tentativo di difesa a oltranza dell’individualità: «Non confessare mai!».

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