Ulisse è narratore supremo di se stesso, forse il primo autobiografo e
romanziere dell’Occidente. È dal suo stesso racconto nei Libri IX-XII
che l’Odissea prende forma, significativamente subito dopo che
Ulisse ha pianto dinanzi all’evocazione della guerra di Troia fatta
dall’aedo Demodoco e che ha finalmente dichiarato la propria identità al
re dei Feaci, Alcinoo (Aristotele definiva questa, con intuito geniale,
una scena di riconoscimento «attraverso la memoria»). Le avventure che
Ulisse narra alla corte di Alcinoo (Ciconi, Ciclopi, Eolo, Lestrigoni,
Lotofagi, Circe, Ade, Sirene, Scilla e Cariddi, isola del Sole, Calipso)
divengono cosi tappe non solo di un viaggio nel mondo del fantastico,
ma anche di un percorso attraverso il ricordo verso l’autocoscienza.
Discutere
in dettaglio di ciascuna di queste avventure sarebbe fuori luogo nel
presente contesto. Occorrerà invece sottolineare l’inesauribile fascino
che esse esercitano sui primi ascoltatori, i Feaci stessi che, in
silenzio, sono disposti a seguire il racconto per tutta la notte, nonché
attraverso i secoli sino ai nostri giorni; e il loro carattere
immediatamente esemplare, il quale darà luogo ben presto alle
interpretazioni allegoriche e morali. Che l’incontro con i Mangiatori di
Loto rappresenti la tentazione suprema dell’oblio è osservazione tanto
ovvia a una prima lettura quanto tuttora pertinente. Che la sosta presso
Circe, trasformatrice di uomini in animali, illustri l’abbandono alla
carne o l’unione a quella sapienza che è diversa dalla mera
intelligenza, sembra altrettanto evidente (il metro DI del Libro IV
della Consolazione della Filosofia di Boezio, dedicato a questo
episodio e più volte ripreso nel Medioevo, viene spesso miniato con
Ulisse in figura di pellegrino). Il confronto con Polifemo può essere
letto come lo scontro con l’altro da sé, l’inumano, il mostro (l’orco
delle fiabe), il selvaggio, il primitivo, il cannibale. Le Sirene
saranno la seduzione del canto, della morte, della conoscenza, della
bellezza carnale (e Ulisse legato all’albero della nave quando questa
passa davanti alle Sirene verrà interpretato in ambito cristiano come figura Christi,
cioè come prefigurazione di Cristo inchiodato alla croce). Il lungo
soggiorno presso Calipso, il rifiuto dell’immortalità, potranno essere
presi per incrollabile fedeltà al proprio essere uomo, per rigetto della
divinità, ma anche come anelito di Ulisse non verso la terra natale, ma
verso la Patria celeste.
La visita all’Ade – l’incontro con la
madre, con Achille, Agamennone, Aiace, gli eroi e le eroine del mito – è
collocata significativamente al centro di tale trama: perché
costituisce l’esperienza suprema di ciò che non è più, del mondo della
morte dal quale l’eroe è toccato sin nel profondo delle sue radici
esistenziali (la madre), della propria giovinezza (i compagni di Troia),
del passato tutto della sua razza; nel quale egli deve sprofondare per
poterne emergere vivo e cosciente. Non sarà un caso, del resto, se
proprio nell’altro mondo Platone presenterà Ulisse al termine della Repubblica,
nell’ambito del mito di Er: dove l’eroe dovrà scegliere una figura per
la sua prossima reincarnazione e finirà, felice, per contentarsi di
quella di un uomo privato e insignificante, lontano dai furori eroici e
dalle erranze infinite dell’Ulisse omerico, preannunciando quindi
l’«ognuno», l’uomo comune che rappresenterà nell’Ulisse di Joyce.
La discesa all’Ade costituisce una tappa fondamentale per l’intera Odissea
e per tutto il futuro mitico di Ulisse. È infatti nel mondo dei morti
che l’eroe incontra, come gli ha consigliato Circe, l’indovino tebano
Tiresia, dal quale apprende come prepararsi per, e compiere il ritorno
verso Itaca. Tiresia, tuttavia, va ben oltre tali istruzioni e pronuncia
una profezia che riguarda gli eventi della vita di Ulisse dopo la
riconquista del proprio regno: profezia tanto importante che Ulisse la
ripeterà parola per parola a Penelope nel momento cruciale in cui, dopo
ben venti anni di separazione, marito e moglie si dirigono finalmente al
ritrovato letto coniugale radicato nell’ulivo. Essa prevede per l’eroe
una «prova senza misura, lunga e difficile»: un ultimo viaggio con un
remo sulle spalle, verso un paese i cui abitanti non conoscono i remi,
il mare, il cibo condito col sale, e dove un «altro viandante» scambierà
il suo remo per una pala da grano. Quando questo accadrà, Ulisse dovrà
compiere sacrifici appropriati per placare definitivamente l’ira di
Poseidone; quindi, la morte gli verrà ex halos «così serenamente da coglierlo consunto da splendente vecchiezza».
L’ambiguità
di questa parte della profezia di Tiresia ha dato luogo, sia
nell’esegesi che nella narrativa, a una serie di interpretazioni
divergenti, potendosi l’ex halos leggere allo stesso tempo come
«da entro il mare» o «fuori, lontano dal mare», e la collocazione del
paese che non conosce il mare allargando progressivamente l’orizzonte
dei viaggi di Ulisse. Dalla Telegonia di Eugamnon a Ditti
Cretese, a Servio ed altri sino ad Eustazio nel XII secolo della nostra
era, Ulisse muore, così, tante e diverse morti ex halos (anche
per mano del figlio avuto da Circe, Telegono). Contemporaneamente, i
suoi vagabondaggi si estendono sempre di più: c’è chi, come Teopompo,
gli fa visitare l’Etruria; altri, come Dionigi di Alicamasso, lo vuole
fondatore di Roma assieme ad Enea; Solino sostiene che abbia stabilito
Lisbona (Ulixabona); per Tacito, Ulisse ha navigato l’Atlantico e
dato i natali ad Asberg, in Germania; Strabone ne colloca i viaggi
oltre le Colonne d’Ercole; Seneca, dando per scontato che la domanda sia
una di quelle la cui risposta non ha poi tanta importanza, chiede se
Ulisse si sia spinto «al di là del mondo a noi conosciuto»; tra le
questioni affrontate da Aulo Gellio nelle Notti attiche, c’è
anche quella se l’errare di Ulisse abbia avuto per teatro, come sostiene
Aristarco, il «mare interno», o, come vuole Cratete, quello «esterno».
Le
due mete estreme dell’erranza di Ulisse sono forse simbolicamente
rappresentate da Licofrone e da Tibullo: il primo dichiara infatti nell’Alexandra
che, «dopo aver sperimentato tante pene, Ulisse ritornerà nell’Ade (da
cui non si dà ritorno) senza mai aver visto un solo giorno tranquillo in
tutta la sua vita» (telos ultimo è dunque la morte, prefigurata
dal primo viaggio di Ulisse nell’aldilà e dal suo costante muoversi
verso l’occidente, il tramonto del sole e l’oscurità); il secondo apre
invece il futuro di Ulisse alla speranza e alla scoperta geografica,
scrivendo nel Panegiricum Messallae che «la leggenda potrebbe aver collocato i suoi viaggi in un novus orbisi, un altro, nuovo mondo.
La
profezia di Tiresia e le interpretazioni che ne conseguono gettano
un’ombra lunga ed ampia su tutto il futuro di Ulisse: da un lato, sul
piano esistenziale, egli si dirigerà, oltrepassando i limiti ontologici
delle Colonne, verso il destino di ognuno di noi; trasgressore
dell’essere, andrà tragicamente incontro al non-essere; sul piano
figurale e storico, al momento opportuno Ulisse farà invece vela, con i
navigatori moderni, verso il Nuovo Mondo. Verremo a queste vicende fra
poco.
L’Ulisse dell’Odissea, dopo l’incantato, fuggente
incontro con Nausicaa, torna tuttavia a casa, trasportato nel sonno
dalla veloce nave dei Feaci piena di doni ricchissimi. Non riconosce la
propria terra, il cui nome deve essergli dichiarato da Atena travestita
da pastorello, e viene trasformato in mendicante vecchio e cencioso al
fine di non essere immediatamente riconosciuto ed eliminato dai
pretendenti di Penelope, i Proci. Anche qui, dunque, Ulisse parte dalla
consistenza del Nessuno per giungere infine alla riconquista del regno.
Tutta la seconda parte dell’Odissea abbandona il mondo del
fantastico e dell’irreale per concentrarsi invece sul domestico, il
quotidiano, il familiare. L’essenza di Ulisse si manifesta nella
pazienza e nell’astuzia, la sua identità si costruisce e decostruisce
nelle tante false identità con le quali egli si presenta ai propri
interlocutori (eccolo quindi uno e molti assieme), la sua storia diviene
una serie di non-riconoscimenti, rivelazioni, agnizioni tra le più
intense della letteratura occidentale: il cane Argo, la vecchia nutrice
Euriclea, il figlio Telemaco, infine Penelope e il padre Laerte. Se,
nella prima parte del poema, un Ulisse ignoto conosceva persone e luoghi
strani e affascinanti, ora un Ulisse ignoto viene progressivamente
riconosciuto in casa sua. Il ritorno si compie come una riacquisizione
non solo del possesso, ma anche e soprattutto dell’essere posseduto, e
della continuità con il passato nonostante l’abisso di venti anni: tra
Ulisse e Argo c’è un legame che solo la morte del secondo può
sciogliere, ma Ulisse piange vedendolo e ricordandone l’antica
prestanza; quando Euriclea lava la cicatrice sulla coscia di Ulisse,
quel che tocca – come la digressione nel mezzo dell’episodio chiarisce –
è l’origine stessa dell’eroe, del suo nome (da odyssomai,
‘odio’), la sua infanzia (Euriclea è quanto di più vicino a una madre
ancora in vita); nel rivelarsi a Telemaco, Ulisse si mostra non solo
padre, ma quasi Padre divino; il riconoscimento con Laerte fa risorgere
quest’ultimo dalla desolata vecchiaia, dalla morte imminente; la
lunghissima scena con Penelope è, letteralmente, un ritorno alle radici,
a quell’ulivo piantato nel terreno, dal quale Ulisse stesso ha
costruito il letto nuziale – un ritorno nel quale l’identità di marito e
moglie si fondono, Penelope venendo paragonata, nel momento culminante,
a un naufrago incrostato di salsedine che tocca finalmente terra. E se
Ulisse dimostra, nella vendetta contro i Proci e le ancelle infedeli,
una violenza tremenda, che sembra farlo tornare al furore della guerra
troiana, tale scena è poi seguita dal ricongiungimento con il padre e
dalla pace imposta da Atena alle due fazioni itacesi.
Per tutto questo, l’intera Odissea,
e soprattutto la sua parte finale, diverrà un modello di narrazione, il
«ritorno» trasformandosi in archetipo nell’epica medievale, nel romanzo
cortese, nella Commedia dantesca, nel Don Chisciotte, nel Faust, in Guerra e pace, nel Conte di Montecristo, nella Recherche di Proust e nell’Ulisse di Joyce.
Utet letteratura
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