domenica 31 maggio 2015

Ritratto di Massimo Cacciari

Alfonso Berardinelli
Perché sono così geloso di Cacciari, icona e parodia dell'intelligenza
Il Foglio, 24 novembre 2014










... A Cacciari va comunque riconosciuto un primato. Come icona e parodia dell’intelligenza ha raggiunto la perfezione. A settant’anni ha una bellissima capigliatura nera e soprattutto una barba da filosofo greco sempre ugualmente nera da quarant’anni, che funziona da maschera. Il vero volto di Cacciari, il suo volto intero, nessuno può dire di conoscerlo. Quella barba è buia e fitta come una selva di citazioni. In ogni discussione, poi, si mostra impaziente e annoiato. Inclina il viso, alza il sopracciglio. Noi italiani troviamo irresistibili le maschere. Guai a chi non ne indossa una. Per avere un’identità chiara bisogna essere mascherati. La folta e imponente barba di Marx, i folti e tragici baffi di Nietzsche devono avere suggestionato molto il giovane Cacciari, che ha deciso di farne uso anche lui. Con il viso così celato, il filosofo con il piede in due o tre staffe acquista il vantaggio di esibire il suo io senza svelarlo. In un tale filosofo l’io che parla è simultaneamente esibito e abolito. E’ un Io superiore che si autotrascende ogni volta che appare.



Rispetto a un individuo così notevole e che tutti notano, gli altri intellettuali italiani, nessuno escluso, sembrano schivi e appartati, discreti, gentili e poco visibili. Perfino Eco, Sanguineti e Arbasino, nel confronto fisico con Cacciari non ce l’hanno fatta. Le sue carte vincenti, le ragioni per cui si comprano i suoi libri senza riuscire a leggerli (nessuno è mai stato capace di recensirli), sono le carte che in Italia hanno il massimo punteggio: la politica (uno spettacolo e un vizio nazionale) e la filosofia (un ipnotico feticcio). Cacciari parla di piccola politica come se parlasse filosoficamente di una Grande politica, che nel nostro piccolo paese non c’è mai stata. Sì, va detto, qualche volta Cacciari esprime pareri politici sensati, che però avevamo già sentito parlando con il vicino di casa o con il tassista. La cosa ovvia lui non la dice come se fosse ovvia per tutti, ma come se fosse ovvia solo per lui che la dice e l’ha capita prima. Il quid che rende unica la recita del nostro uomo è questo solo tono, questo solo tema: “Io ho capito in anticipo quello che voi non capite neppure in ritardo. Perciò che ci sto a fare io qui con voi?”. Eppure sta lì. Non se ne va. Anzi torna. E’ sempre pronto a tornare. Basta chiamarlo.



In conclusione. Sono forse geloso di Cacciari? Non me ne ero accorto, ma forse chissà. Chi ci tiene, lo pensi. Perché a me no e a lui sì? Già, perché no? Se mi invitano in tv (raramente è successo) dico di no. Non mi ci sento, non vengo bene. Se mi volessero premiare come filologo, direi di no perché non sono un filologo. Lui non è un filologo, però si fa premiare come se lo fosse. Se mi avessero invitato a presentare le poesie di Raboni, avrei detto di no, perché come critico letterario potevo anche criticarlo. Cacciari ha detto di sì, anche se Raboni non lo aveva mai letto. Chissà che cosa è riuscito a dire. Avrà parlato di Raboni come Heidegger parlava di Hölderlin, altri argomenti non ne conosce.



Sembrare severi, amare il “pensiero negativo” e dire sempre di sì. Ah, questo è il segreto.

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inoltre Tomaso Montanari e Sergio Luzzatto
http://www.italianostra-venezia.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1490%3Apamphlet-accusatorio-su-massimo-cacciari&catid=65%3Acomle&Itemid=107&lang=it

Raffaele Liucci, Il politico della domenica, Stampa Alternativa, Viterbo 2013,  47pp.

sabato 30 maggio 2015

Come si è arrivati al sistema politico tripolare

Aurelio Musi
Morte e trasfigurazione della forma-partito
L'Acropoli Blog, 8 febbraio 2015
Il grassetto non figura nella versione originale

Negli ultimi anni la transumanza di parlamentari da un partito a un altro è diventata un’inarrestabile tendenza. Pochi giorni fa un’intera formazione politica, Scelta Civica, nata per impulso di Mario Monti, si è quasi completamente dissolta e la maggioranza è confluita nel partito democratico. E’ questo, per ora, solo l’ultimo atto di un processo di profonda trasformazione che ha investito partiti storici italiani, soggetti politici più recenti e la stessa forma-partito come l’abbiamo conosciuta sia in tempi più risalenti come partito di massa sia in anni più vicini a noi.
 E’ il caso allora di ripensare brevemente la storia dei partiti italiani dalla crisi del 1992-93 ad oggi. In poco più di un ventennio abbiamo assistito a veloci cambiamenti che non hanno reso possibile una relativa stabilizzazione del sistema politico italiano e che – è legittimo ipotizzarlo alla luce di quel che è accaduto – non lasciano ancora prevedere una sua possibile e duratura definizione.
  La crisi successiva a Tangentopoli ha contribuito ad eliminare dalla scena politica italiana alcuni partiti storici: la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, il Partito Repubblicano. Il Partito Comunista, pur non essendo stato direttamente investito dal ciclone di Mani Pulite, sia per i contraccolpi della fine dei regimi comunisti in Europa, sia a seguito di un processo di evoluzione interna, sia per il venir meno della “conventio ad excludendum” che l’aveva tenuto fuori dell’area di governo, è decisamente cambiato.
  La nascita di Forza Italia e della Lega ha introdotto ulteriori novità soprattutto nella struttura e nella fisionomia della forma-partito. Da un lato, un “partito azienda” che ha assunto i connotati di un “partito personale”, non ha rinunciato ad ereditare alcuni caratteri del “partito pigliatutto” come la tendenza a svilupparsi nell’intero territorio nazionale, la ricerca del consenso in ampi strati sociali, l’assenza di ideologia, ma si è distinto dal partito pigliatutto, esemplificato nella DC, soprattutto sulla questione della leadership, considerata unica e indiscutibile e identificata nel capo, Silvio Berlusconi. D’altro lato, una formazione politica come la Lega di Bossi, un “partito territoriale” che ha fondato la ricerca del consenso al suo stato nascente soprattutto sulla polemica contro “Roma ladrona”, le parole d’ordine ispirate al separatismo, la lotta alla corruzione.
   Il successo delle due formazioni, Forza Italia e Lega, non ha impedito comunque la sopravvivenza di un’area moderata, distinta dalle altre due, che, dopo aver coltivato l’illusione della costituzione di un Grande Centro in Italia, ha quindi svolto la funzione di alleato della destra.
  Dopo un lungo periodo di egemonia berlusconiana e di governi di centro-destra, l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del Partito Democratico ha scompaginato gli equilibri politici precedenti e ha condotto al successo il suo partito, che oggi è insediato con relativa stabilità al governo del paese. Renzi ha determinato contraccolpi di natura diversa. Ha portato il pd ad oltre il 40% di consensi elettorali. E’ riuscito a sottrarre il partito di Alfano alla sudditanza di Berlusconi e ad integrarlo nell’area di governo. Ha insediato nel pd una nuova leadership che ha profondamente rinnovato il suo gruppo dirigente. Ha notevolmente influito sulla crisi di Forza Italia, partito che oggi è diviso tra molte anime e non è più saldamente controllato da Berlusconi. Sta cambiando la stessa forma-partito del pd: un nuovo “partito personale” che aspira a diventare “partito della nazione” e a cercare consensi nell’area moderata dell’elettorato.
  Questo non significa che siamo passati dall’epoca del “bipolarismo imperfetto” e dell’alternanza non ancora pienamente realizzata all’unipolarismo renziano. Per ora, certo, non si scorgono all’orizzonte soggetti politici in grado di contrastare l’egemonia renziana. Tuttavia sia il Movimento 5 Stelle sia la nuova Lega di Matteo Salvini sono in grado di proporsi come potenziale alternativa al pd di Renzi, anche se avranno non poche difficoltà a porsi al centro di uno schieramento di alleanze.
  Se questa è in estrema sintesi la nostra storia recente, è possibile oggi ipotizzare una nuova geografia politica italiana che, probabilmente, si articolerà in più poli e che rappresenterà un relativo superamento della classificazione destra/sinistra. Il primo polo è costituito da un grande partito pigliatutto di sistema, quello renziano, capace di aggregare consensi tra gli elettori tradizionali del pd, moderati e di attrarre voti da Sel. L’altro polo è costituito dal Movimento 5 Stelle che, tuttavia, ha non pochi problemi di leadership, appare come un soggetto politico privo di una stabile forma-partito, con continue emorragie di parlamentari. Il terzo polo è la Lega di Salvini, non più partito territoriale ma nazionale, che guarda soprattutto all’Europa e ai suoi movimenti populisti. Quanto a Forza Italia, esso resta la vera incognita attuale.

Contro il malgoverno dei giudici


Claudio Velardi
Mi correggo: domenica lo scontro sarà cittadini vs magistratura
Il Rottamatore, 29 maggio 2015










È stato necessario leggere (più volte) il bel pezzo di Brambilla sulla Stampa per orientarsi nell’inestricabile labirinto della legge Severino e della sua (impossibile) applicazione. Mentre è bastato scorrere le cronache comiche della Commissione Antimafia per capire perché un’associazione segreta (la mafia) vince su una politica cialtrona che vuole imitare i giudici occupandosi – signora Bindi – di cose che non le competono (e non sa neppure tenersi un cece in bocca). Poi, se in giornata vi è capitato di prendere un taxi, certamente avrete pensato con affetto al giudice di Milano che ci ha tolto la libertà di scegliere come andare in giro nelle nostre città. Infine, se il tassista smoccolante contro Uber e l’umanità vi ha lasciato un attimo di tempo per andare su Google e digitare ‘TAR’, avrete potuto compulsare lo smisurato elenco di temi di natura strettamente politico-amministrativa nelle quali i giudici mettono quotidianamente bocca: paralizzando, ritardando, ostacolando, impedendo. E se, nel vostro peregrinare tra una sentenza e un ricorso, non vi siete convinti a sufficienza dell’intreccio profondissimo e malato tra politica e magistratura, vi ricordo io la sentenza della Corte Costituzionale di qualche giorno fa sulle pensioni, la cui applicazione integrale ci avrebbe messo grosso modo nelle condizioni della Grecia.
Ora, io passo per essere uno che ce l’ha con la magistratura. In realtà non è così. Io sostengo semplicemente che dal ’92 c’è un rapporto asimmetrico e squilibrato tra i poteri dello Stato: politica debolissima, magistratura e media che dominano la scena e fanno l’agenda pubblica, dettandone tempi e modalità. E questo non sta bene e non mi piace. Perché – in sintesi – non fa altro che destabilizzare il sistema e chiunque ne sia temporaneamente alla guida.
Parecchi milioni di italiani andranno a votare domenica prossima, avendo nelle orecchie questo insopportabile frastuono di fondo del conflitto tra la magistratura e la politica. Se andassi a votare (non mi tocca, sono cittadino strombolano), personalmente starei dalla parte della politica. La divisione dei poteri l’abbiamo studiata alle elementari e ci piace. Ma, quando tra i poteri c’è un evidente squilibrio, bisogna tornare ai fondamentali, e ripristinare il primato della democrazia. Cioè del popolo che sceglie.



Si veda anche
http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2015/3/29/POLITICI-E-PM-Cosi-i-magistrati-decidono-per-noi-chi-votare/595016/

venerdì 29 maggio 2015

Lussu, Morte di un disertore

 

Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Parigi, 1938

Sul frastuono del colpi, si levava la voce da baritono del sergente Cosello:
- Sparate sul disertore!
La trincea nemica taceva.
Dovetti correre al telefono in trincea. Il comandante di battaglione mi chiamava per avere la spiegazione di quanto accadeva. Egli parlava eccitato:
- Che c’è?
che cè? Debbo mandare rincalzi?
Io lo rassicurai:
- Ma  no. Un soldato sta passando al nemico, solo, senza armi, e la compagnia tira su di lui. Gli austriaci, per non spaventarlo, non sparano.
- Un disonore simile sul battaglione!
- Lo so, lo so: non lo stia a raccontare a me. Che ci posso fare?
- Me lo rimandi indietro, vivo o morto!
- Eh, vivo, sarà difficile. Sparano tutti su di lui.
- Tanto meglio. Meglio morto. Me lo mandi morto.
- Sta bene. Posso andare?
- Sì, vada pure e mi dia le novità al più presto.
Io ritornai alla feritoia. Al fuoco della compagnia s’era aggiunto quello delle due mitragliatrici del batta­glione. Marrasi continuava ad avanzare, ma con molta difficoltà. Superata la vallata, il terreno era ripido e la neve sempre alta. Io mi stupivo ch’egli non fosse ancora caduto, quando m’accorsi che, dietro di lui, ad una cin­quantina di metri, anch’egli sprofondato nella neve, camminava il sergente Cosello. Impugnava il fucile con le due mani e, ad ogni passo, tirava un colpo su Marrasi. Ma questi non cadeva. Con tutta la mia voce, ordinai al sergente di rientrare in trincea.
Il sergente si fermò. Era in piedi, in mezzo alla vallata. Io temevo che gli austriaci tirassero su di lui e ripetei l’ordine. Gli austriaci non sparavano. Egli si voltò e mi gridò:
- Signor sì!
Aveva le gambe sepolte nella neve. Da fermo, puntò lungamente e sparò tutto il caricatore sul disertore. Questi cadde e si rovesciò sulla neve. Io lo credetti col­pito. Ma, dopo qualche istante, si rialzò e riprese ad avanzare. Tutta la linea continuava a sparare su di lui.
Marrasi camminava. Anche il sergente, ch’era un tira­tore scelto, l’aveva sbagliato. Ho sempre notato che, nei momenti d’eccitazione, i soldati guardano e sparano ad occhi aperti senza puntare.
Il sergente rientrò. Venne da me, coperto di sudore. Parlava a fatica:
- Che vergogna! Che disonore! - diceva ansante. - Il 2° plotone è disonorato.
Il 2° plotone era disonorato. La compagnia era diso­norata. Il battaglione era disonorato. Fra poco, si sareb­bero considerati disonorati il reggimento, la brigata, la divisione, il corpo d’armata e, con ogni probabilità, tut­ta l’armata. Marrasi continuava ad avanzare.
Il piantone al telefono venne di corsa per dirmi che il comandante di battaglione mi chiamava nuovamente, perché il comandante del reggimento voleva essere mes­so al corrente.
- Rispondi che sono in trincea e non mi posso allon­tanare. Che verrò tra poco.
Il piantone disparve.
Marrasi s’allontanava sempre più da noi. Gli  austriaci avevano due sbarramenti di reticolati di fronte alle loro trincee. Egli era arrivato al primo. La neve lo copriva pressoché intieramente, ma l’ostacolo era egualmente insormontabile. S’aggrappò ai fili, li scosse, tentò scaval­carli, ma inutilmente. Capì che non sarebbe potuto pas­sare. Scoraggiato, si fermò un istante e si strinse la testa fra le mani. Sembrava gli mancasse ormai la forza di continuare. Fece qualche passo attorno allo stesso pun­to, disperato. Così, egli girava attorno a se stesso, sper­duto, ma invulnerabile, sotto il tiro dei nostri.
Marrasi si riprese. Risolutamente, camminò verso un albero che era a pochi metri da lui. Questo era lungo la linea dei reticolati, al di fuori, verso di noi, e gli austriaci vi avevano appoggiato un cavallo di frisia, dall’altra parte. Marrasi si slacciò il cinturone che aveva ancora alla cinto­la, con le due giberne. Agilmente, si arrampicò al tronco. Non era più impacciato. Era già a qualche metro da terra. Dall’alto, spiccò un salto e si sprofondò nella neve, al di là del reticolati. Il primo sbarramento era passato.
I nostri sparavano sempre. Gli austriaci tacevano.

...
Fra le tante fucilate e i tiri delle mitragliatrici, Marrasi riprese ad avanzare. L'ultimo tratto, il più ripido, era il più faticoso. La trincea nemica era a pochi metri. Da una grande feritoia, una mano, gli faceva segni di richiamo. Egli si diresse alla feritoia. I nostri tiratori scelti di bombe "Benaglia" a fucile, sembravano averlo sotto il loro tiro. Lo scoppio di una bomba lo investì ed egli cadde. Ma si rialzò, subito dopo. Nel settore, il fuoco era diventato generale. Dalla compagnia, si era propagato a tutto il battaglione, ai battaglioni laterali, oltre Monte Interrotto, fino alla Val d'Assa. Tutti sparavano: i nostri e gli austriaci. Sembrava che tutto il corpo d'armata fosse impegnato in combattimento. Solo le trincee del costone tacevano sempre.
Marrasi era sotto l'altro sbarramento di reticolati, a non più di due metri dalla trincea austriaca. Dalla grande feritoia, qualcuno doveva parlargli in italiano, perchè mi parve che una conversazione si svolgesse fra lui e la trincea. Egli cadde, mentre toccava il reticolato. Rimase affondato nella neve, il busto piegato, le braccia e le mani tese. Sul bersaglio ormai inanimato, il fuoco di tutta la trincea infuriava come prima. Ci volle del tempo prima che riuscissi a far cessare il fuoco nel nostro settore. E quando cessò, continuò ancora, a lungo, nei settori laterali. Il telefono era interrotto e comunicai per iscritto le novità al comando di battaglione. Dovetti resistere, fino a sera, agli ordini del comandante del reggimento che esigeva facessi uscire una pattuglia, comandata da un ufficiale, per ritirare il cadavere e lavare, così, l'onta del reggimento. Il colonnello finì col venire in linea per accertarsi personalmente dell'esecuzione dell'ordine. Ma la situazione non mutava per questo. Il cadavere era sempre là, a trecento metri da noi, a due dal nemico. Ed era giorno. Il colonnello insisteva ed io, visto vano ogni altro argomento, trovai un rifugio letterario. Fresco delle letture d'Ariosto, citai, con tutta serenità, l'episodio di Cloridano e Medoro:  

Che sarebbe pensier non troppo accorto
Perder dei vivi per salvar un morto.  
Il colonnello mi rispose, secco, infliggendomi gli arresti. Ma la pattuglia non usci.
Calata la sera, al primo razzo che tirammo, ci accorgemmo che il corpo di Marrasi era scomparso.


 

giovedì 28 maggio 2015

Il testamento di Lenin, al di là delle sottigliezze

Scritto da Lenin nel dicembre 1922, [il cosiddetto testamento] conteneva valutazioni in merito ai potenziali successori. [Si trattava in realtà di note destinate al prossimo Congresso del partito.] Nel gennaio 1923 Lenin aggiunse una postilla in cui criticava aspramente Stalin e sollecitava il partito a destituirlo dalla carica di segretario generale. Conservato dopo la sua morte da N.K. Krupskaja, fu letto il 22 maggio 1924 in una riunione del Comitato centrale che ne vietò la diffusione. (Pbm storia)

Lenin nel 1923

"Divenuto segretario generale, il compagno Stalin ha concentrato nelle sue mani un illimitato potere, e io non sono certo che egli sappia usare questo potere con sufficiente accortezza. D'altro lato il compagno Trockij […] non si distingue solo per le sue notevoli capacità. Credo che come persona egli sia, nell'attuale comitato centrale, la più abile, ma anche la più sicura di sé in misura eccessiva, e credo inoltre che egli sia troppo preso dagli aspetti puramente amministrativi degli affari.
Queste due qualità dei due più eminenti membri dell'attuale comitato centrale potrebbero inavvertitamente provocare una frattura, e se il nostro partito non prende misure atte a impedirla, la frattura potrebbe verificarsi inaspettatamente […]"

Sebbene nessuno possa dire con certezza se Lenin, a suo tempo, venisse a sapere dell'attacco per telefono di Stalin contro la Krupskaja […], si può avanzare con una certa sicurezza la congettura che egli fosse venuto a conoscenza dell'incidente per il 4 gennaio, perché quel giorno chiese di rivedere il passo del testamento che aveva scritto il 24 dicembre e vi aggiunse questo poscritto:
"Stalin è troppo violento, e questo difetto, tollerabile tra comunisti e fra di noi, diventa intollerabile in uno che ha la carica di segretario generale. Pertanto propongo ai compagni di considerare il modo di togliere a Stalin tale carica, e di nominarvi un'altra persona, che differisca sotto tutti gli aspetti da Stalin ma solo per superiorità. e cioè che sia più paziente, più leale, più cortese, più attenta alle esigenze dei compagni, meno bizzosa ecc. Non si pensi che questo sia un fatto di poco conto; io ritengo che per prevenire una tale frattura, e considerando i rapporti tra Stalin e Trockij che ho discusso prima, non si tratti di una cosa di poco conto, o che se ora sembra tale possa invece acquistare un'importanza decisiva". 
Louis Fischer, Vita di Lenin, Milano, Mondadori 1973, vol. II


luglio 1923


... l' ultimo Lenin, di fronte al dispiegarsi dei contrasti tra i capi che verranno dopo di lui, ripiega su categorie squisitamente personali, come nella più classica tradizione storiografica: come in Tacito, modello insuperato di storiografia che privilegia i conflitti tra persone e l' analisi del loro carattere, Lenin arriva a scrivere che «i rapporti tra Stalin e Trotzkij rappresentano una buona metà del pericolo di scissione». Non si può eludere l' osservazione che proprio l' impianto elitistico del bolscevismo - secondo cui le decisioni e gli scontri risolutivi avvengono nel più selezionato e ristretto vertice - sia la premessa di questo interessante e all' apparenza inatteso ripiegamento del maggior esponente del bolscevismo su categorie e strumenti di valutazione così intrinsecamente tradizionali.
Questo è il pensiero di Luciano Canfora,
http://archiviostorico.corriere.it/2010/marzo/21/Gli_autogol_politici_Trotzkij_co_9_100321040.shtml

Alla fin fine Lenin non designava un successore, se mai si pronunciava per una soluzione di tipo collegiale:
 
Probabilmente Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era in grado di sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che, allargando la partecipazione agli organi di direzione politica, l'esigenza di avere un leader con altissime capacità sarebbe venuta meno. Sottoponendo tutti i leaders a un maggiore controllo e facendo ruotare le cariche, il problema della successione sarebbe stato meno gravoso.
Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi alla lettera del 28 dicembre sul carattere legislativo delle decisioni del Gosplan, Lenin disse ch'era difficile trovare in una sola persona la combinazione di queste qualità: solida preparazione scientifica in uno dei rami dell'economia e della tecnologia, visione d'insieme della realtà, forte ascendente sulle persone, capacità organizzative e amministrative. Ma forse -diceva ancora Lenin- se si fossero rispettate le sue condizioni, non ci sarebbe stato bisogno di cercare una persona del genere. D'altra parte egli si rifiutò di designare un proprio successore alla guida del partito.
Nel Testamento Lenin cita altri due leaders: Bucharin e Piatakov. Del primo esprime due giudizi apparentemente contraddittori. Da un lato infatti afferma che “non è soltanto il maggiore e il più prezioso teorico del partito, è anche, a ragione, il compagno più benvoluto”; dall'altro però sostiene ch'egli non ha mai ben compreso la “dialettica” e che le sue concezioni del marxismo sono un po' “scolastiche”. In effetti, la posizione assunta da Bucharin durante la conclusione della pace di Brest-Litovsk con la Germania (egli, insistendo sul rifiuto delle condizioni di pace tedesche, rischiò di portare la repubblica allo sfascio), era una testimonianza esplicita della sua carente dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo stesso Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato “scolastica ed eclettica” l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva condotto in alcuni capitoli del suo libero L'economia del periodo di transizione (Bucharin morirà nelle purghe staliniane nel 1938).
Quanto a Piatakov, Lenin gli riconosceva “volontà e capacità notevoli”, ma anche la stessa tendenza di Trotski ad accentuare l'aspetto amministrativo (autoritario) delle cose, per cui non si poteva "contare su di lui su una seria questione politica". Tuttavia, sia per questo caso che per quello precedente, Lenin sperava che i difetti avrebbero potuto, col tempo, essere superati: in fondo Bucharin aveva solo 34 anni e Piatakov 32; si può quindi pensare che i due, col tempo, avrebbero potuto costituire un tandem vincente, benché al momento i leader più importanti fossero Trotski e Stalin (Piatakov sarà fucilato nel 1936).
 http://www.homolaicus.com/teorici/lenin/lenin_testamento.htm


mercoledì 27 maggio 2015

Il segreto di un nuovo Rinascimento

 





















Anais Ginori

“Basta leader risolleviamoci ma da soli”
Intervista a Jacques Attali che con il nuovo saggio invita a riscoprire la responsabilità individuale
“La crisi economica ha provocato un’attesa sproporzionata nei confronti della politica” “Un paese non sopravvive se non ispira nei suoi abitanti il desiderio di autonomia”

la Repubblica, 27 maggio 2015


La risposta non può essere un maggiore impegno politico per cambiare e rafforzare le istituzioni democratiche?
«Non è sufficiente. Nell’attuale situazione non si può reagire solo aspettando una soluzione dalle istituzioni, elemosinando ormai poche briciole, come fanno quelli che chiamo i “rassegnati-reclamanti”. Non ci si può più limitare a indignarsi o a proferire vaghe denunce. È questa deriva che porta alcuni elettori a ripiegarsi su un totalitarismo paternalista e xenofobo, mentre la viltà degli uomini politici impedisce di attuare riforme impopolari, ma necessarie. La risposta al sentimento di delusione, impotenza rispetto alla politica, è la ricerca del potere personale. Scegli la tua vita! non è l’ennesimo manuale di resilienza che propone consigli per sopravvivere alla crisi. Attraverso alcune tappe, spiego com’è possibile affrancarsi dai determinismi».
Ha scritto un’ode all’individualismo?
«Scegliere la propria vita non significa essere egoista, anzi passa attraverso il rapporto con gli altri. Inoltre, se tutti i cittadini combattessero per realizzare se stessi, anche la società andrebbe meglio. Può sembrare un’ambizione personale, ma in realtà c’è un vantaggio collettivo. Un paese non può sopravvivere se non ispira nei suoi abitanti il desiderio di autonomia. La libertà non è solo votare, consumare, e non si limita nemmeno al diritto di manifestare o alla libera espressione. Dobbiamo conquistare il diritto a essere noi stessi. I “rassegnati-reclamanti” sono gli schiavi del passato. C’è stato un progresso nell’emancipazione ma non è sufficiente ».
Perché fa un parallelo storico con il Rinascimento?
«All’epoca c’erano guerre di religione, epidemie, intolleranza e miseria. Eppure, proprio in un momento così buio, c’è stato un risveglio delle idee, di scoperte scientifiche, di liberazione dalle potenze feudali, cominciato in Lombardia, in Veneto, nelle Fiandre. Siamo in un periodo storico che assomiglia al Rinascimento. Non esiste più una potenza dominante, l’esplosione delle conoscenze e delle nuove tecnologie, l’aspirazione alla democrazia di nuovi popoli crea molte opportunità, con una profonda rimessa in discussione di abitudini e convinzioni. Nonostante la mia diagnosi sia preoccupante, non sono pessimista. Penso davvero che un nuovo Rinascimento sia possibile».

IL LIBRO Jacques Attali, Scegli la tua vita! Ponte alle Grazie, traduzione di Manuela Maddamma



martedì 26 maggio 2015

Opinioni su Youth di Sorrentino

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

Romolo Ricapito, “Youth” di Sorrentino: un bel sogno non semplice

Mi è piaciuto “Youth” di Paolo Sorrentino, ma nello stesso tempo non mi ha stupito il fatto che non abbia vinto a Cannes. Le ragioni: il film punta molto sulle esercitazioni stilistiche del cineasta ed è sostenuto da un grandissimo Michael Caine. Tali esercitazioni, però, pur se mirabolanti e straordinarie, sicuramente rappresentative di un cinema di serie A, sono appunto eccessivamente sofisticate. In due ore piene si assiste a tutto e al contrario di tutto: un video clip delirante, satira della musica pop, sezioni classicheggianti che riecheggiano il precedente “La Grande Bellezza”, e nuove sollecitazioni visive.
Il tutto poi all’interno della beauty farm-resort, di ambientazione montana. Il personaggio di Harvey Keitel è visibilmente un alter ego senile dello stesso Sorrentino, mentre lo stesso Keitel assieme alla fantastica Jane Fonda è protagonista delle scena più coinvolgente, quella più naturalistica, che parla della decadenza di due eccellenze del cinema.
Ma è sempre il cinema il principale punto di riferimento, anche per quel giovane attore (interpretato da Paul Dano) che recitò un solo personaggio di successo, quello di un supereroe. Questa fanta-analisi, molto addentrata nella personalità dello stesso regista, è però lontana dalla vita di tutti i giorni del pubblico, che si riconosce poco nei personaggi. Figuriamoci poi nelle fantasmagorie stilistiche del cineasta, ammirevoli ma nello stesso tempo lontane dal sentire comune. Per me Youth rimane un buon film. Per quanto riguarda la definizione di “capolavoro”, lo dirà il tempo. Per intanto incassa: questo è il miglior premio, in una stagione che volge al termine. Per fortuna le sale dove è proiettato Youth-Giovinezza sono pienissime.


Beppe Severgnini

Non sono d’accordo, RR. Non stiamo parlando di “un buon film”. “Youth – Giovinezza” è un ottimo film. Un film-cipolla: a strati. Forse il più onirico e cerebrale tra quelli di Paolo Sorrentino. Nemmeno io sono stupito che non abbia vinto a Cannes. “La grande bellezza” aveva un rivestimento commestibile (Roma, le terrazze, belle donne e vecchi preti), che gli stranieri si sono gustati. “Youth” è più complesso: deve depositarsi nella testa dello spettatore. Ma resta un grande film sul passare del tempo, emozionante e intelligente.
Michael Caine (in molte espressioni mi ricorda Toni Servillo) e Harvey Keitel sono formidabili; ma direi che non c’è un attore fuori ruolo. Stesse considerazioni che userei per il film cui si è palesemente ispirato il regista, “” di Fellini (un film sul cinema, le terme, gli anziani, il regista in crisi, le attrici passate, i rapporti familiari, la bellezza improvvisa sotto forma di una giovane donna). Non è un commento riduttivo, il mio; anzi, è un complimento. Ognuno di noi ha i suoi miti e i suoi riferimenti. Sono stupito però che la critica cinematografica abbia glissato su quest’aspetto, che a me pare evidentissimo.
Imbroccare un film è possibile; ma Sorrentino dimostra di avere ispirazione, passo, mestiere. Complimenti.

domenica 24 maggio 2015

Il sentimento della vita precaria nella Grande Guerra

Tre poesie di Giuseppe Ungaretti
Si trovano in L'Allegria 1914-1919









PESO
Mariano il 29 giugno 1916



Quel contadino
si affida alla medaglia
di Sant'Antonio
e va leggero

Ma ben sola e ben nuda
senza miraggio
porto la mia anima




   FRATELLI
Mariano il 15 luglio 1916




Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli



SOLDATI
Bosco di Courton luglio 1918


Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie



Quel contadino soldato
si affida alla medaglia
di Sant’Antonio
che porta al collo
e va leggero.
Ma ben sola e ben nuda
senza miraggio
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sabato 23 maggio 2015

Marco Travaglio e l'italica ossessione della vecchiezza


Guido Vitiello
L'elogio della sacra prostata di Sorrentino segna un piccolo evento nella psicostoria dell'ultimo ventennio (vero Travaglio?)
Il Foglio, 23 maggio 2015








Ricapitoliamo. C'è "Youth" di Sorrentino con i suoi dialoghi sulla caducità e sulla prostata. C'è Scalfari che minaccia a mezzo stampa un suo "De Senectute". C'è Berlusconi che fa capolino su Instagram stritolando cagnolini. Da quando Jep Gambardella ha sollevato il coperchio il contagio è irrefrenabile, e la sua eau de parfum si effonde per tutta la nazione. Alludo all'odore delle case dei vecchi, quell'odore che il dandy della "Grande bellezza" diceva di preferire addirittura alla "fessa". Non tutti reagiscono allo stesso modo. Silvia Truzzi per esempio ci immerge il naso con tossica avidità, e ha appena pubblicato "Un paese ci vuole", un libro di conversazioni con ottuagenari che al solo aprirlo manda zaffate di salotto gozzaniano. Ma il caso più interessante è quello di Marco Travaglio nella nuova veste di critico cinematografico. Il suo elogio di "Youth", a leggerlo bene, segna un piccolo evento nella psicostoria dell'ultimo ventennio.
Il meno che si possa dire di uno che sfida il professor Fiandaca a duello dicendo che troverà "pane per la sua dentiera" è che ha in orrore la vecchiaia. ...
Ma l'odore delle case dei vecchi ha conquistato anche lui. Il film gli pare un inno all'eleganza, all'amore, all'arte, alla bellezza. "Anche sullo scorcio degli ottant'anni si può essere tutte queste cose insieme".
Non sappiamo se la visione della sacra prostata di Sorrentino avrà su Travaglio lo stesso effetto che ebbe il Cristo morto di Holbein su Dostoevskij. Ma questo piccolo smottamento aiuta a illuminare la storia profonda degli ultimi anni, e la segreta simmetria tra mitologie berlusconiane e antiberlusconiane, tra gli uomini del lifting e gli uomini delle manette. Da questa specola più alta quel che ci appare è il panorama di un paese ossessionato dalla decadenza e dalla corruzione, che non sa se appigliarsi alla chirurgia estetica o alla magistratura inquirente.

venerdì 22 maggio 2015

La chiave del consenso all'Isis

Lorenzo Cremonesi
il consenso che alimenta la forza dell’Isis
Corriere della Sera, 22 maggio 2015




Sono stati dati quasi per sconfitti tante volte, salvo poi scoprire puntualmente che i guerriglieri di Isis restano più che mai vivi e aggressivi. Lo tornano a dimostrare adesso le loro vittoriose avanzate su Ramadi in Iraq e Palmira in Siria.
E ciò per il fatto che noi occidentali ci siamo concentrati sugli aspetti più sanguinari, coreografici e «bombastici» della propaganda del Califfato. Dimenticandone spesso il radicamento politico tra le masse sunnite e i motivi profondi della loro popolarità. Volevano terrorizzarci e trovare nuove reclute con i loro video delle decapitazioni, dei massacri di prigionieri a sangue freddo, le promesse di jihad contro il «covo dei Crociati», Roma. E noi vi abbiamo creduto, altalenando così tra l’inquietudine spaventata e l’analisi autorassicurante delle loro debolezze. L’anno scorso, tra giugno e settembre, ci parevano inarrestabili. Poi vennero i raid americani, le offensive curde, le tenute di Bagdad e Damasco. Le loro sconfitte a Kobane e a Tikrit ci spinsero a cullarci nell’illusione che tutto sommato il problema fosse in via di soluzione.
Non è così. E questo per il fatto che i tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi e dei suoi eventuali successori (sempre che le voci del suo ferimento grave siano vere) sono soltanto la punta dell’iceberg. Il loro fanatismo terrificante trova spazio nell’area grigia e articolata del malcontento sunnita. In Iraq nasce dopo l’invasione americana e la defenestrazione di Saddam Hussein nel 2003, seguite dal crescente monopolio sul potere da parte degli sciiti sostenuti dall’Iran. In Siria ha radici più antiche e ha a che vedere con la frustrazione quarantennale della maggioranza sunnita contro la dittatura alawita (una setta sciita) guidata oggi da Bashar Assad.
Diventa evidente che Isis è parte integrante del molto più vasto conflitto civile tra sciiti e sunniti, misto alla guerra di religione e al braccio di ferro tra potenze regionali (di fronte alla rapida diminuzione dell’antica presenza Usa), che da quasi un decennio ormai lacera il Medio Oriente allargato. Si comprende allora che ridurre Isis a un mero fenomeno terrorista non solo non lo spiega, ma soprattutto non aiuta a combatterlo. I giovani esaltati che dall’Europa ne vanno a infoltire i ranghi e ne rilanciano le deliranti parole d’ordine sui social media sono certo pericolosi, ma tutto sommato marginali.
Occorre invece fare uno sforzo di comprensione delle ragioni sunnite e trovare risposta alle loro richieste politiche. Nelle ultime ore emergono per esempio le condizioni terribili in cui sono tenute le masse di profughi sunniti in fuga da Ramadi verso Bagdad e bloccati nel deserto dal governo del premier Haider al Abadi. Intanto a Najaf e Qarbala le milizie sciite affilano i coltelli. Non è difficile supporre che ciò rafforzerà il consenso per Isis.

giovedì 21 maggio 2015

Bauman, le paure dei giovani e l'identità biodegradabile



Zygmunt Bauman
I giovani “liquidi” Una, nessuna centomila identità
Perché i ragazzi dell’era social ribaltano le paure dei padri
Per chi appartiene alle nuove generazioni ogni scelta è una rinuncia alle scelte future 
la Repubblica, 21 maggio 2015


TRA i buoni motivi per interpretare l’avvento dell’era moderna come una trasformazione promossa soprattutto dagli interessi della classe media (o per riprendere la terminologia di Marx, come una “rivoluzione borghese” vittoriosa) appaiono preponderanti il timore ossessivo, tipico del ceto medio, della fragilità dello status sociale, e gli sforzi tesi a difenderlo e a stabilizzarlo. Nel delineare il profilo di una società esente da infelicità, i progetti utopistici che abbondavano all’inizio dell’era moderna riflettevano soprattutto i sogni e i desideri della classe media; ritraevano una società purificata dalle incertezze, e soprattutto dalle ambiguità e dalle insicurezze legate alla posizione sociale, nonché dai diritti e dai doveri che quella posizione portava con sé.

Per quanto quei progetti potessero essere diversi l’uno dall’altro, erano concordi all’unanimità nello scegliere la durata, la solidità, l’assenza di cambiamento come premesse essenziali di una società “buona” e della felicità umana. I progetti utopistici immaginavano soprattutto la fine dell’incertezza e dell’insicurezza: in altre parole promettevano un assetto sociale assolutamente prevedibile. La società “buona” e persino la società “perfettamente buona” delle utopie era una società che aveva risolto una volta per sempre tutte le paure più tipiche del ceto medio. Si potrebbe dire che i ceti medi erano l’avanguardia che, prima del resto della società, esplorava e faceva esperienza delle principali contraddizioni dell’esistenza destinate, ce lo si volesse o no, a diventare caratteristiche universali della vita moderna: la tensione perenne fra due valori, la sicurezza e la libertà, valori ugualmente desiderati e indispensabili per una vita appagante, ma difficili da conciliare, da possedere e godere simultaneamente.
I più giovani fra noi sono entrati in una società in cui la grande maggioranza delle persone si trova a vivere nella condizione riservata un tempo alle sole “classi medie”: a differenza delle classi alte (che oggi si chiamano “élite globali”) e di quelle basse (ora definibili “meno abbienti”), si trovano a dover scegliere non fra un’insufficiente varietà bensì fra una sovrabbondanza di modelli. Con il terribile rischio di sempre: scegliere un modello e dover rinunciare a molti altri altrettanto interessanti. È il rischio di inciampare, scivolare, cadere. Oggi l’ansia, e di conseguenza l’impazienza e la fretta dei giovani, derivano da un lato dall’apparente abbondanza di scelte possibili, dall’altro dal timore di fare una cattiva scelta, o di “non fare la scelta migliore possibile”. In altre parole sono figlie del terrore che una splendida opportunità sfugga quando c’è ancora tempo (fuggente) per coglierla. A differenza di ciò che accadeva ai loro genitori e ai loro nonni, educati durante la fase “solida” della modernità, oggi non ci sono codici di comportamento durevoli o autorevoli abbinabili alle scelte raccomandate, e tali da guidare il giovane lungo un percorso sicuro dopo che ha fatto la sua scelta (o accettato con obbedienza la scelta consigliata da altri). Il pensiero che un passo intrapreso possa (solo possa) essere stato uno sbaglio, e possa (solo possa) essere troppo tardi per contenere le perdite che ha causato, e soprattutto troppo tardi per tornare indietro da quella scelta infelice, continuerà a tormentarli per sempre: da qui dunque quel loro risentimento per tutto ciò che è “a lungo termine”, che sia il progetto della propria vita, o l’impegno nei confronti di altri esseri umani.

Ciò che conta di più per i giovani, quindi, non è “definire un’identità”, ma mantenere la propria capacità di ridefinirla quando è (o si pensa che sia arrivato) il momento di darle una nuova definizione. Se i nostri antenati si preoccupavano della loro identificazione, oggi prevale l’ansia di reidentificazione. L’identità deve essere a perdere perché un’identità che non piace, non piace abbastanza, o semplicemente rivela la sua età rispetto a identità “nuove e migliori” disponibili sul mercato, deve essere facile da abbandonare. Forse la qualità ideale dell’identità più desiderata sarebbe la biodegradabilità.
Poiché le opzioni disponibili non sono fondate su valori durevoli, incontestati e riconosciuti autorevolmente, la valutazione delle scelte non può che seguire le regole dei beni di consumo: l’identità scelta deve essere “messa sul mercato” per “trovare il suo valore”. L’identità progettata ed esibita che non trova e non crea una sua clientela è punita con l’esclusione (il voto contrario, il pregiudizio, la persona è ignorata, snobbata...), che è l’equivalente sociale del bidone dei rifiuti. I più “talentuosi” sono quelli con più contatti, sia sui social network, nonché sui loro blog personali che sono già più di settanta milioni e diventano sempre più numerosi).
Laurie Ouellette, docente di scienza delle comunicazioni e dei reality tv all’università del Minnesota, afferma che «molti adolescenti sentono la forte esigenza di crearsi un’identità allargata come le celebrities che vedono rappresentate nei media nazionali », riconfermando un’opinione ampiamente condivisa dagli esperti e dall’opinione pubblica in generale. “Identità allargata” significa soprattutto una più ampia esposizione: più gente da guardare e da cui essere guardati (utenti di internet/banda larga), un maggior numero di appassionati di internet stimolati/eccitati/ divertiti da ciò che vedono, e sollecitati al punto da voler condividere l’evento con i loro contatti. Tutti sanno bene che la probabilità di diventare famosi attraverso un blog personale è di poco superiore alla probabilità che una palla di neve resista al caldo dell’inferno, ma tutti sanno anche che la probabilità di vincere alla lotteria senza comperare un biglietto è zero.
Possiamo forse criticare i giovani perché vivono di corsa, inseguendo un’illusione? Non credo. Sono, proprio come noi, degli esseri razionali e così, non diversamente dai loro predecessori fanno del proprio meglio per reagire alle sfide sociali nel modo più ragionevole, efficace e responsabile, e per trarre una strategia di vita ragionevole dalla cornice sociale in cui vivono. Non hanno scelto loro (e tanto meno creato) questa “modernità liquida” in cui nessuna rappresentazione di se stessi, anche se di successo nell’immediato, è garantita a lungo termine; in cui ciò che oggi è irrinunciabile, è destinato già domani o dopodomani ad essere logoro. In altre parole, una condizione in cui mantenere aggiornata l’immagine di se stessi è un compito da ventiquattr’ore al giorno per sette giorni alla settimana. 


Questo testo è un estratto della lectio che Zygmunt Bauman (foto) terrà domani alle 18 al Festival èStoria di Gorizia, in corso da oggi a domenica