mercoledì 10 giugno 2015

L'identità come mito

Claudio Tugnoli
L'identità introvabile
http://mondodomani.org/dialegesthai/ct19.htm



Si parla spesso e volentieri di identità; il termine sembra possedere un significato univoco, implicitamente condiviso e di tutta evidenza. E, soprattutto, sembra rinviare a qualcosa di solido, indiscutibile, mentre invece, come dimostra Remotti (1), quella parola spesso abusata promette qualcosa che in realtà non c'è. L'identità rinvia a una sostanza, illude di poter afferrare qualcosa di reale, pretende di circoscrivere una certa essenza nella sua purezza, quando invece essa non è che una finzione. Al massimo si potrà dire che l'identità è un mito utile; un mito da prendere con circospezione, con la coscienza, appunto, che si tratta di un mito. Chi rivendica un'identità intesa come essenza immutabile avanza una richiesta di riconoscimento identitario che mostra una stretta parentela con il razzismo. I sostenitori di un identitarismo radicale finiscono col concepire una dicotomia secca tra noi e loro, tra me e l'altro, tra le persone perbene e i criminali (almeno potenziali) che minacciano di alterare l'identità di quanti si pongono come soggetti di riferimento.


... Nella costituzione dell'identità non si assiste all'assemblaggio consapevole, da parte di un soggetto individuale o collettivo, di elementi eterocliti tratti da altre culture: questa immagine edulcorata e astratta della formazione dell'identità lascia fuori ogni riferimento alla vita vera delle nazioni e delle culture, alla guerra, alle prove di forza, alla brutalità dell'oppressione e dell'esclusione. Rimane vero tuttavia che l'identità è in costante evoluzione e mutamento, senza che si possa rintracciare un'essenza originaria che persiste e si modifica nel tempo. La nostalgia delle origini non sembra giustificata: in origine infatti, in senso stretto, non c'era niente e quel che c'era non si colloca in una relazione necessaria con il presente, se è vero che in ogni epoca o fase della storia la direzione che il cammino prende ne esclude altre. E tutte le direzioni possibili sono compatibili con lo stadio raggiunto dall'identità in un certo momento. L'identità perde quindi ogni forma di necessità logica e storica.


... L'ossessione per l'identità è dunque una distorsione, che si presenta quando la riflessione sul passato comincia a prevalere in misura patologica, assorbendo tutta l'attenzione che, per necessità vitale, i viventi devono rivolgere al presente e al futuro. La volontà di affermare una presunta identità, riflessa e immaginaria, si fa strada quando l'evoluzione si è interrotta per una patologia del pensiero che ostacola i normali processi di alterazione necessari all'esistenza in quanto tale. Senza gli altri, nessun noi, senza alterità, nessuna identità. Pensare un'identità senza alterità significa assumere una chimera, proporre un nonsenso, evocare un circolo quadrato.


... L'analisi delle componenti dell'io mostra, ancora una volta, come sia facile assumere un punto di vista analitico astratto allo scopo di indebolire la consistenza dell'identità, senza tuttavia abolire completamente questo costrutto, di cui si avverte l'esigenza ineludibile. Remotti riprende i contributi di pensatori che hanno affrontato la questione dell'unità dell'io e del suo fondamento. Pascal ha smantellato lo stesso concetto di io. Non solo le cose e le persone sono composte di molteplici parti, ma lo stesso io risulta introvabile, giacché muta nel tempo. Locke non fa più dipendere l'identità da una sostanza che sarebbe a fondamento dell'io: l'identità è pensata invece come prodotto della coscienza. Solo la coscienza, secondo Locke, unisce i diversi io nel tempo, le diverse azioni e le diverse esperienze, per costituirne la trama unitaria. La coscienza unificante per Locke non è una sostanza, ma una mera funzione. L'identità si produce dal presente della coscienza, che effettua l'unificazione del molteplice. I limiti della coscienza diventano limiti dell'identità, resa imperfetta dal susseguirsi di stati dell'io che periodicamente sono immersi nel sonno o si dileguano nell'oblio. Anche Hume riconosce la molteplicità dell'io: il flusso delle percezioni di ogni genere è inarrestabile, ma esiste una propensione irresistibile a contenere tutte queste percezioni successive in un'identità invariabile. L'identità è costruita mediante un errore: l'eliminazione delle piccole differenze tra i diversi stati di coscienza. Le nozioni di anima, di sé, di sostanza, derivano dal fatto che fingiamo l'esistenza continuata delle nostre percezioni, quando in realtà esse sono separate e discontinue. Se però l'identità è una finzione costruita per errore, ogni controversia sull'identità non potrà che rivelarsi una vana disputa. Se per Hume la sola giustificazione epistemologica dell'esistenza di qualcosa è data dalla possibilità di ricondurre l'idea di quella cosa all'impressione corrispondente, allora l'idea d'identità risulterà priva di fondamento, per l'impossibilità di indicare l'impressione da cui proviene. Hume allora chiama in causa la memoria e l'immaginazione per spiegare l'identità. Egli ammette esplicitamente che l'io è una specie di stato i cui componenti sono uniti da legami reciproci e dalla subordinazione al governo. L'io sarebbe una specie di noi. L'identità dunque non è un dato, ma è attribuita; non preesiste come una sostanza, ma è costruita. Sta all'immaginazione procedere verso un'identità forte e totalizzante oppure mantenerla nei limiti di un'identità debole e leggera. 

Francesco Remotti, L'ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010.


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