mercoledì 9 settembre 2015

Napolitano e Malaparte a Capri




Autore dell'intervista, che risale al 29 ottobre 2012, è Maurizio Serra, autore di Malaparte vite e leggende, Marsilio 2012.


Signor Presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la conoscenza di Malaparte?
«Fu nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia famiglia era stata evacuata. Napoli aveva subito più di cento bombardamenti devastanti e la liberazione era stata seguita dalla carestia, nell'inverno 1943-44. Nondimeno, la città ricominciava a vivere e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista intitolata ‘‘Latitudine'', vicina ai comunisti ma indipendente, che affrontava temi audaci come l'ermetismo, il surrealismo e la letteratura americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux. Ebbi l'idea di andare a farne omaggio a Malaparte».

Quale fu la sua reazione?
«Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani, appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti. Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di ‘‘Prospettive'', che si apriva con il suo grande servizio dall'assedio di Leningrado, intitolato ‘‘Sangue operaio'', ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le corrispondenze de ‘‘Il Volga nasce in Europa'' rappresentino quel che ha scritto di meglio, con ‘‘Kaputt''. Per farla breve, non conoscevamo il suo passato d'uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo sentivamo vicino a noi».

E il suo atteggiamento lo confermò?
«Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare. Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili della federazione napoletana del Pci, il che ne provocò la fine e accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata trasformata in campo di riposo dell'aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi diede l'occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi quotidianamente, fino all'incirca all'autunno 1944, allorché le nostre strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano. Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale. Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l'ambasciatore Rulli».

Come si svolgevano i vostri incontri?
«Non appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all'albergo Quisisana, che era il suo punto d'incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell'isola, che da un golfo immette sull'altro. Bisognava risalire una scalinata intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a ‘‘Casa come Me'': l'ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva sul grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano d'avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di fronte all'immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più impressionanti del Mediterraneo... La sua conversazione era straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo ancora compiuto diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che affabulava quasi a ogni frase: era comunque uno spettacolo indimenticabile. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco; ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole. Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull'arte e l'avvenire del mondo. Era quasi una replica di ‘‘Kaputt'' che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata dall'editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: ‘‘A Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante l'Apocalisse'', con riferimento alle devastazioni di Napoli.
Purtroppo, ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha mai restituito».

Malaparte si era avvicinato al Pci in quel momento.
«Direi che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa! Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall'Unione Sovietica, il 27 marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de ‘‘l'Unità'': Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso dell'11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova politica del partito. L'incontro fu molto cordiale. Malaparte mi raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni Strozzi».

In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.
«Sì, e all'indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su ‘‘Rinascita'', accompagnata da un elogio vibrante del segretario generale al valore e alla... sincerità di quel documento. Era anche vicino, in quel periodo, ai servizi americani. Gli americani controllavano Capri, che avevano occupato una ventina di giorni prima della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a mettere in piedi un corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le adesioni si raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch'io. Naturalmente, non se n'è fatto nulla».

La collaborazione con il Pci s'interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell'agosto 1944.
«Già qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non fu più in condizione di difenderlo».

Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell'epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.
«È probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello, il che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale, in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione, descritto ne ‘‘La pelle''. Alicata era diventato condirettore di un quotidiano frontista, ‘‘La Voce'', e mi propose di fondare con altri due compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio. Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l'accoglienza calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi versi nell'anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e pubblicò a Napoli, in edizione privata, alcuni dei suoi poemi più belli. Ma con Malaparte erano tagliati tutti i ponti. Mi è capitato di incontrarlo più di una volta nei corridoi della Camera, all'inizio degli anni cinquanta. Io cominciavo la carriera politica e lui ci veniva come giornalista. I nostri sguardi si sono incrociati, ma abbiamo evitato di salutarci. Lei si deve ricollocare nella mentalità dell'epoca».

Fu il vostro ultimo contatto?
«No, ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel 1956-57, quando partì per l'Urss e la Cina e inviò delle corrispondenze sempre scintillanti a ‘‘Vie Nuove'', diretto da Maria Antonietta Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla ‘‘Sanatrix''».

Come l'accolse?
«Nel modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte. Sembrava che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: ‘‘Che impressione mi ha fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio...''».






Signor Presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la conoscenza di Malaparte? Fu nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia famiglia era stata evacuata. Napoli aveva subito più di cento bombardamenti devastanti e la liberazione era stata seguita dalla carestia, nell’inverno 1943-44. Nondimeno, la città ricominciava a vivere
e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista intitolata «Latitudine», vicina ai comunisti ma indipendente, che affrontava temi audaci come l’ermetismo, il surrealismo e la letteratura americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux. Ebbi l’idea di andare a farne omaggio a Malaparte.
Quale fu la sua reazione?
Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani, appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti. Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di «Prospettive», che si apriva con il grande servizio dall’assedio di Leningrado, intitolato Sangue operaio, ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le corrispondenze de Il Volga nasce in Europa rappresentino quel che ha scritto di meglio, con Kaputt. Per farla breve, non conoscevamo il suo passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo sentivamo vicino a noi.
E il suo atteggiamento lo confermò?
Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare. Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili della federazione napoletana del pci, il che ne provocò la fine e accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata trasformata in campo di riposo dell’aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi diede l’occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi quotidianamente, fino all’incirca all’autunno 1944, allorché le nostre strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano. Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale. Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l’ambasciatore Rulli.
Come si svolgevano i vostri incontri?
Non appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all’albergo Quisisana, che era il suo punto d’incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell’isola, che da un golfo immette sull’altro. Bisognava risalire una scalinata intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a «Casa come Me»: l’ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva sul grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano d’avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di fronte all’immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più impressionanti del Mediterraneo… La sua
conversazione era straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo ancora compiuto diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che affabulava quasi a ogni frase: era comunque uno spettacolo indimenticabile. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco; ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole. Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull’arte e l’avvenire del mondo. Era quasi una replica di
Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: «A Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante l’Apocalisse», con riferimento alle devastazioni di Napoli. Purtroppo, ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha mai restituito.
Malaparte si era avvicinato al PCI in quel momento.
Direi che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa! Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall’Unione Sovietica, il 27 marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de «l’Unità»: Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso dell’11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova politica del partito. L’incontro fu molto cordiale. Malaparte mi raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni Strozzi.
In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.
Sì, e all’indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su «Rinascita», accompagnata da un elogio vibrante del segretario generale al valore e alla… sincerità di quel documento.
Era anche vicino, in quel periodo, ai servizi americani.
Gli americani controllavano Capri, che avevano occupato una ventina di giorni prima della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a mettere in piedi un corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le adesioni si raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch’io. Naturalmente, non se n’è fatto nulla.
La collaborazione con il PCI s’interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell’agosto 1944.
Già qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non
fu più in condizione di difenderlo.
Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell’epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.
È probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello, il che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale,
in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione, descritto ne La pelle. Alicata era diventato condirettore di un quotidiano frontista, «La Voce», e mi propose di fondare con altri due compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio. Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l’accoglienza calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi versi nell’anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e pubblicò a Napoli, in edizione privata,
alcuni dei suoi poemi più belli. Ma con Malaparte erano tagliati tutti i ponti. Mi è capitato di incontrarlo più di una volta nei corridoi della Camera, all’inizio degli anni cinquanta. Io cominciavo la carriera politica e lui ci veniva come giornalista. I nostri sguardi si sono incrociati, ma abbiamo evitato di salutarci. Lei si deve ricollocare nella mentalità dell’epoca.
Fu il vostro ultimo contatto?
No, ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel 1956-57, quando partì per l’urss e la Cina e inviò delle corrispondenze sempre scintillanti a «Vie Nuove», diretto da Maria Antonietta Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla «Sanatrix».
Come l’accolse?
Nel modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte. Sembrava che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: «Che impressione mi ha fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio…».
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Signor Presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la conoscenza di Malaparte? Fu nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia famiglia era stata evacuata. Napoli aveva subito più di cento bombardamenti devastanti e la liberazione era stata seguita dalla carestia, nell’inverno 1943-44. Nondimeno, la città ricominciava a vivere
e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista intitolata «Latitudine», vicina ai comunisti ma indipendente, che affrontava temi audaci come l’ermetismo, il surrealismo e la letteratura americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux. Ebbi l’idea di andare a farne omaggio a Malaparte.
Quale fu la sua reazione?
Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani, appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti. Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di «Prospettive», che si apriva con il grande servizio dall’assedio di Leningrado, intitolato Sangue operaio, ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le corrispondenze de Il Volga nasce in Europa rappresentino quel che ha scritto di meglio, con Kaputt. Per farla breve, non conoscevamo il suo passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo sentivamo vicino a noi.
E il suo atteggiamento lo confermò?
Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare. Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili della federazione napoletana del pci, il che ne provocò la fine e accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata trasformata in campo di riposo dell’aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi diede l’occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi quotidianamente, fino all’incirca all’autunno 1944, allorché le nostre strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano. Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale. Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l’ambasciatore Rulli.
Come si svolgevano i vostri incontri?
Non appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all’albergo Quisisana, che era il suo punto d’incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell’isola, che da un golfo immette sull’altro. Bisognava risalire una scalinata intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a «Casa come Me»: l’ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva sul grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano d’avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di fronte all’immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più impressionanti del Mediterraneo… La sua
conversazione era straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo ancora compiuto diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che affabulava quasi a ogni frase: era comunque uno spettacolo indimenticabile. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco; ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole. Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull’arte e l’avvenire del mondo. Era quasi una replica di
Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: «A Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante l’Apocalisse», con riferimento alle devastazioni di Napoli. Purtroppo, ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha mai restituito.
Malaparte si era avvicinato al PCI in quel momento.
Direi che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa! Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall’Unione Sovietica, il 27 marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de «l’Unità»: Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso dell’11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova politica del partito. L’incontro fu molto cordiale. Malaparte mi raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni Strozzi.
In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.
Sì, e all’indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su «Rinascita», accompagnata da un elogio vibrante del segretario generale al valore e alla… sincerità di quel documento.
Era anche vicino, in quel periodo, ai servizi americani.
Gli americani controllavano Capri, che avevano occupato una ventina di giorni prima della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a mettere in piedi un corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le adesioni si raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch’io. Naturalmente, non se n’è fatto nulla.
La collaborazione con il PCI s’interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell’agosto 1944.
Già qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non
fu più in condizione di difenderlo.
Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell’epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.
È probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello, il che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale,
in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione, descritto ne La pelle. Alicata era diventato condirettore di un quotidiano frontista, «La Voce», e mi propose di fondare con altri due compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio. Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l’accoglienza calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi versi nell’anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e pubblicò a Napoli, in edizione privata,
alcuni dei suoi poemi più belli. Ma con Malaparte erano tagliati tutti i ponti. Mi è capitato di incontrarlo più di una volta nei corridoi della Camera, all’inizio degli anni cinquanta. Io cominciavo la carriera politica e lui ci veniva come giornalista. I nostri sguardi si sono incrociati, ma abbiamo evitato di salutarci. Lei si deve ricollocare nella mentalità dell’epoca.
Fu il vostro ultimo contatto?
No, ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel 1956-57, quando partì per l’urss e la Cina e inviò delle corrispondenze sempre scintillanti a «Vie Nuove», diretto da Maria Antonietta Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla «Sanatrix».
Come l’accolse?
Nel modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte. Sembrava che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: «Che impressione mi ha fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio…».
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e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista intitolata «Latitudine», vicina ai comunisti ma indipendente, che affrontava temi audaci come l’ermetismo, il surrealismo e la letteratura americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux. Ebbi l’idea di andare a farne omaggio a Malaparte.
Quale fu la sua reazione?
Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani, appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti. Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di «Prospettive», che si apriva con il grande servizio dall’assedio di Leningrado, intitolato Sangue operaio, ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le corrispondenze de Il Volga nasce in Europa rappresentino quel che ha scritto di meglio, con Kaputt. Per farla breve, non conoscevamo il suo passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo sentivamo vicino a noi.
E il suo atteggiamento lo confermò?
Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare. Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili della federazione napoletana del pci, il che ne provocò la fine e accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata trasformata in campo di riposo dell’aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi diede l’occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi quotidianamente, fino all’incirca all’autunno 1944, allorché le nostre strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano. Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale. Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l’ambasciatore Rulli.
Come si svolgevano i vostri incontri?
Non appena lasciavo il lavoro, lo raggiungevo all’albergo Quisisana, che era il suo punto d’incontro. Da lì ci dirigevamo a piedi alla casa di Capo Masullo, lungo uno degli itinerari più pittoreschi dell’isola, che da un golfo immette sull’altro. Bisognava risalire una scalinata intagliata nella roccia di più di cento gradini, ma lui non aveva mai bisogno di riprendere fiato. Dopo di che, si arrivava a «Casa come Me»: l’ingresso incredibile, che sembrava quello di una nave, si apriva sul grande salone arredato con mobili finlandesi, che allora erano d’avanguardia, fino alla sua scrivania, con la macchina da scrivere di fronte all’immensa vetrata sui Faraglioni, i tre scogli forse più impressionanti del Mediterraneo… La sua
conversazione era straordinaria, faceva girare la testa. Non avevo ancora compiuto diciannove anni, ma potevo rendermi conto lo stesso che affabulava quasi a ogni frase: era comunque uno spettacolo indimenticabile. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco; ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole. Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull’arte e l’avvenire del mondo. Era quasi una replica di
Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: «A Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante l’Apocalisse», con riferimento alle devastazioni di Napoli. Purtroppo, ho imprestato il libro a Maria Antonietta Macciocchi, che non me lo ha mai restituito.
Malaparte si era avvicinato al PCI in quel momento.
Direi che era un comunista quasi dichiarato. Si figuri che mi confidò di essere pronto ad aprire una scuola di leninismo nella sua casa! Togliatti, sbarcato a Napoli al ritorno dall’Unione Sovietica, il 27 marzo 1944, si precipitò a trovarlo dopo pochi giorni, accompagnato da due dirigenti del pci napoletano, Eugenio Reale, futuro ambasciatore a Varsavia, e Velio Spano, che fu il primo direttore de «l’Unità»: Togliatti non attese neppure di pronunciare il suo grande discorso dell’11 aprile sulla necessità di una svolta nazionale nella nuova politica del partito. L’incontro fu molto cordiale. Malaparte mi raccontò di essere stato molto impressionato da Togliatti, il quale lo avrebbe addirittura messo in difficoltà, parlandogli di Stendhal, che Malaparte si vantava di aver introdotto in Italia! Fu allora che venne autorizzato a diventare corrispondente del quotidiano comunista sul fronte di Firenze, a condizione di adottare uno pseudonimo, Gianni Strozzi.
In cambio, scrisse per Togliatti la celebre autobiografia.
Sì, e all’indomani della morte di Malaparte, sarà pubblicata su «Rinascita», accompagnata da un elogio vibrante del segretario generale al valore e alla… sincerità di quel documento.
Era anche vicino, in quel periodo, ai servizi americani.
Gli americani controllavano Capri, che avevano occupato una ventina di giorni prima della liberazione di Napoli. Malaparte provò anche a mettere in piedi un corpo di spedizione per combattere i tedeschi. Le adesioni si raccoglievano in un caffè. Mi sono iscritto anch’io. Naturalmente, non se n’è fatto nulla.
La collaborazione con il PCI s’interruppe poco dopo la liberazione di Firenze, nell’agosto 1944.
Già qualche mese prima, dopo la liberazione di Roma, alcuni dirigenti influenti del partito, come Mario Alicata, avevano denunciato i trascorsi fascisti di Malaparte. La cosa prese rapidamente delle proporzioni tali che Togliatti, pur rammaricandosene, non
fu più in condizione di difenderlo.
Ma Togliatti lo salvò dai rigori dell’epurazione, nonostante Malaparte fosse scivolato subito dopo nel campo anticomunista.
È probabile. Ma ufficialmente i rapporti furono rotti a ogni livello, il che riguardava anche me, visto che nel frattempo ero entrato nel partito. A Napoli continuavamo a svolgere una grande azione culturale,
in un clima di effervescenza ben diverso da quello di prostrazione, descritto ne La pelle. Alicata era diventato condirettore di un quotidiano frontista, «La Voce», e mi propose di fondare con altri due compagni una associazione culturale per ampliare il nostro uditorio. Potei così invitare delle personalità straniere. Ricordo l’accoglienza calorosa che riservammo a Eluard, che recitò meravigliosamente i suoi versi nell’anfiteatro del Conservatorio, e che è rimasto uno dei miei poeti prediletti. Più tardi, fu la volta di Pablo Neruda, che scrisse e pubblicò a Napoli, in edizione privata,
alcuni dei suoi poemi più belli. Ma con Malaparte erano tagliati tutti i ponti. Mi è capitato di incontrarlo più di una volta nei corridoi della Camera, all’inizio degli anni cinquanta. Io cominciavo la carriera politica e lui ci veniva come giornalista. I nostri sguardi si sono incrociati, ma abbiamo evitato di salutarci. Lei si deve ricollocare nella mentalità dell’epoca.
Fu il vostro ultimo contatto?
No, ho seguito con interesse il suo riavvicinamento al partito, nel 1956-57, quando partì per l’urss e la Cina e inviò delle corrispondenze sempre scintillanti a «Vie Nuove», diretto da Maria Antonietta Macciocchi. E beninteso sono andato a trovarlo, al suo ritorno, alla «Sanatrix».
Come l’accolse?
Nel modo più naturale del mondo, come se ci fossimo appena lasciati. Non perdeva mai il senso della battuta, nemmeno sul letto di morte. Sembrava che niente potesse sorprenderlo. Mi ricordo che Togliatti stava uscendo, mentre entravo, e Malaparte commentò: «Che impressione mi ha fatto Togliatti! Sembra un vecchio saggio…».
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