domenica 23 ottobre 2016

L'impero del cotone




Massimiliano Panarari
Tra sangue, smog, denaro il mondo è una balla di cotone
Dagli schiavi neri agli operai di Manchester così un tessuto ha innescato la modernità
La Stampa, 20 ottobre 2016

La storia del globo dell’evo contemporaneo letta attraverso una balla grezza di cotone. È risaputa l’attitudine di vari studiosi anglosassoni a fare un’autentica storiografia globale, partendo da un elemento, un fatto o un personaggio, che diventa un prisma alla luce delle cui rifrazioni ricostruire un’intera epoca. E può avvenire anche, con notevole forza euristica e di suggestione, prendendo a oggetto di indagine una commodity, vista la centralità delle materie prime nell’edificazione delle società umane.

Un esempio eccellente è L’impero del cotone di Sven Beckert, celebrato studioso del capitalismo e professore di Storia americana a Harvard; un libro importante e affascinante, che ha fatto incetta di premi ed è piaciuto molto al presidente Barack Obama. Una ricerca monumentale che palesa la centralità del cotone – la cui lavorazione aveva rappresentato la principale industria manifatturiera dal 1000 al 1900 – e la sua funzione di rampa di lancio per il decollo della rivoluzione industriale e l’avvento della modernità in Occidente (a partire dall’Inghilterra, lembo geografico periferico di un continente che non lo generava per via naturale).

Questa fibra lanuginosa commerciata da tempo quasi immemorabile si convertì così, in virtù dell’esplosione della sua nuova lavorazione meccanizzata e industriale, nella commodity per eccellenza del XVIII e del XIX secolo e nella merce globale n. 1 (l’«oro bianco»), determinando intorno a sé un’epocale e durissima riorganizzazione dell’esistenza di vere masse della popolazione europea (perché vari territori, dall’Italia del Nord alla Germania del Sud, divennero satelliti di questa catena e rete planetaria del valore). Attraverso le traiettorie della produzione, trasformazione, commercializzazione e circolazione del cotone, lo studioso harvardiano effettua la storia del capitalismo industriale che si globalizza, ovvero la storia del mondo moderno e della genesi della nostra epoca (prima della conquista dell’egemonia da parte del capitalismo digitale e «immateriale»). E analizza, a tutto campo, le conseguenze tecnologiche, giuridiche, sociali e politiche che il trionfo della manifattura capitalistica ha innescato, tessendo altresì una fitta trama di narrazioni – comprese, come sa fare magistralmente soltanto lo storytelling «non fiction» degli anglosassoni, storie di singoli – che mescola il tragico vissuto biografico degli schiavi neri delle piantagioni del continente americano con quello sfavillante delle grandi famiglie agrarie sudiste degli Usa e delle dinastie 
industriali britanniche (come gli Ashworth e i Potter), che accumularono fortune inusitate. Perché un passaggio decisivo, e un motore formidabile per l’industrializzazione totale della manifattura cotoniera, derivò precisamente dall’esigenza di ridurre le importazioni made in England e di fronteggiare l’inarrestabile concorrenza dell’Inghilterra che, mediante la meccanizzazione, aveva inondato il mercato mondiale di filati a basso costo.


Il consolidamento come ineguagliabile potenza commerciale esportatrice di prodotti cotonieri dell’Impero britannico è un altro prisma esemplare da scomporre, come fa l’autore, per comprendere una molteplicità di snodi della modernizzazione ottocentesca (e i suoi pesantissimi lasciti). Se il capitalismo contemporaneo trova il proprio fondamento nello Stato di diritto e nelle sue relazioni con un sistema di istituzioni pubbliche nazionali e sovranazionali, quello originario decollato con la globalizzazione commerciale della commodity cotoniera è, nell’intepretazione di Beckert, il «capitalismo di guerra». E la sua culla britannica era ben lungi dal rappresentare uno Stato liberale e democratico, ma coincideva con una potenza imperialista estremamente aggressiva, autoritaria e protezionista, perennemente in guerra, contraddistinta da una burocrazia oppressiva e gravata da un enorme debito pubblico per le incessanti spese militari.

La storia dell’impero del cotone e delle sue capitali Manchester e Liverpool (scrigni di immense ricchezze in un paesaggio «dantesco» di fuliggine, smog, eserciti di poveri e dolenti maree umane) è una vicenda impastata di sopraffazione, sudore e sangue. Quello dei milioni di schiavi e operai, uomini, bambini e donne (destinatari di un dispositivo «foucaultiano» di disciplinamento eretto sull’applicazione continua di tremende punizioni corporali), a cui si indirizza la compassione umana di un simpatetico Beckert, che dell’epopea dei filari rischiara e illumina doviziosamente il dark side. Come pure i risvolti della lotta politica ai quattro angoli del pianeta di contadini e coltivatori, strozzati dalle contrattazioni al ribasso e dai vari crolli globali dei prezzi, contro l’asse tra gli industriali e le classi politiche metropolitane imperialistiche: il «populismo cotoniero» dagli Stati Uniti di fine Ottocento e inizio Novecento (dove la Farmers Alliance riuscì a influenzare l’elezione del presidente nel 1896) all’India nella quale animò il movimento nazionalista e anticolonialista, dall’Egitto al Messico (in cui i populisti furono tra i protagonisti della rivoluzione degli anni Dieci).

Fino a che, appunto, nella sua impressionante parabola anche quello cotoniero dovette sottostare alle «leggi» inesorabili e inaggirabili che presiedono alla caduta degli imperi. 

 http://www.delteatro.it/2015/01/31/lehman-trilogy-magistrale-storia-di-un-crollo/

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