giovedì 19 gennaio 2017

Althusser, Lettere a Franca








Giampiero Martinotti, Le lettere d'Althusser all'amante italiana, la Repubblica 30 ottobre 1998

Parigi. Cinquecento lettere, di cui alcune appassionate come quelle di certi grandi epistolari romantici, vengono ad arricchire la complessa biografia di Louis Althusser, il filosofo marxista scomparso otto anni fa. A far risuonare alternativamente le corde della passione e della ricerca intellettuale è Franca Madonia, traduttrice e saggista, una delle figure centrali della sua vita. L'epistolario sta per andare in libreria (Lettres à Franca 1961-1973, Stock/Imec, pp. 832, 170 franchi) e già si può dire che la sua pubblicazione costituisca una tappa essenziale per ricostruire la biografia, personale e intellettuale, di uno dei più influenti pensatori francesi del dopoguerra. Althusser rappresenta ancora oggi un enigma: filosofo, militante comunista, direttore della Scuola Normale Superiore, difensore della psicoanalisi, ma anche uomo lacerato, malinconico, soggetto a fortissime crisi depressive, sfociate nel tragico assassinio della moglie, Hélène Rytman, strangolata il 16 novembre 1981 nel loro appartamento alla Normale. Secondo il suo biografo, Yann Moulier Boutang, la sua vita è un intreccio di ragione e di follia in cui è difficile districarsi: Althusser ha scritto la sua autobiografia, dopo l' uccisione della moglie, ma il suo racconto comporta spesso dimenticanze o vere e proprie bugie. Meglio ancora: rimozioni. Le lettere scritte a Franca Madonia aiutano a ricostruire la sua complessa e affascinante personalità. Althusser l' aveva conosciuta in Romagna nell' estate del 1961. Franca era traduttrice di Lévi-Strauss e di Merleau-Ponty, era sposata con Mino Madonia, militante del Pci e dirigente d' azienda. Vivevano vicino a Forlì. Althusser se ne innamorò subito e nel confronto con lei, al contempo passionale e intellettuale, cominciò a distaccarsi dalla tradizione stalinista, ad elaborare la sua lettura di Marx che a metà degli anni Sessanta lo rese celebre. Franca rappresenta una specie di idillio. La sua vita in Italia riassume quel che manca ad Althusser: una famiglia, un modo di pensare diverso, nuovo. La relazione con la donna italiana riproduce una situazione tipica della sua vita: da un lato Hélène, compagna di vita dal 1946 (la sposerà nel 1976) e militante comunista, dall' altro le altre, come la svizzera Claire Z. e, appunto, Franca Madonia. Secondo Elisabeth Roudinesco, in un articolo pubblicato ieri su Le Monde, Althusser oscilla tra due tipi di femminilità: quella colpevole e deprimente rappresentata da Hélène e quella "iniziatica e incandescente" rappresentata dalla straniera e dalla sua vitalità tutta italiana. Due modelli differenti, ma non contrapposti in lui, di "amour fou", uno tragico e uno luminoso. Nelle lettere a Franca Madonia Althusser alterna le riflessioni sul comunismo e sulla psicanalisi alla passione per una donna in qualche modo irraggiungibile: Franca, come anni prima Claire, rappresenta la fuga dalla quotidianità, l' illusione di sfuggire alla malinconia e alla depressione. Le parole di Althusser tracimano a volte nel lirismo romantico di un infelice: "Franca, nera, notte, fuoco, bella e brutta, passione e ragione estreme, smisurata e saggia. Amore mio, amarti mi spezza, stasera ho le gambe a pezzi da non poter camminare - eppure che altro ho fatto oggi se non pensare a te, inseguirti e amarti?". E ancora: "Dico questo anche per combattere il desiderio di te, della tua presenza, il desiderio di vederti, parlarti, toccarti. Se ti scrivo, è anche per questo, l' hai capito: la scrittura rende presente in un certo modo, è una lotta contro l' assenza". Quando si conoscono, il filosofo ha 42 anni, Franca Madonia 36. Althusser non riesce a separare Franca da Hélène, tenta anzi di integrare Mino, il marito, nel loro rapporto. Franca cercherà sempre di sottrarsi a questa sua volontà. Del resto, Althusser ha analizzato con lucidità questa situazione nel 1985, quando ha scritto la sua autobiografia, L' avenir dure longtemps. Racconta delle sue "storie di donne": accanto a Hélène "ho sempre avuto il bisogno di costituirmi una "riserva di donne" e di sollecitare da Hélène un' esplicita approvazione. Senza dubbio avevo "bisogno" di queste donne come altrettanti supplementi erotici per soddisfare quel che l' infelice Hélène non poteva dare di lei, un giovane corpo non sofferente e questo eterno desiderio che inseguivo in sogno, che "mancavano" al mio desiderio intaccato, la prova che potevo, accanto a un padre-madre, desiderare anche il corpo di una semplice donna desiderabile". La contraddizione è insanabile: Althusser non riesce a cominciare una storia amorosa senza l' approvazione di Hélène e trova una sintesi tutta sua: "Mi innamoravo di donne secondo il mio gusto, ma abbastanza lontane per evitare il peggio: vivevano in Svizzera (Claire) o in Italia (Franca), dunque a una distanza inconsciamente calcolata per vederle solo a tratti (al di là di tre giorni ne ero regolarmente, cioè inconsciamente, stanco e disgustato, eppure che donne eccezionali d' animo e di bellezza furono per me Claire e Franca)". Nell' autobiografia, tuttavia, Althusser tace alcune cose o sbaglia in maniera madornale le date, come quando dice di aver incontrato Franca nel 1974. Ciò non toglie interesse a come analizza la fine dei due rapporti, quando le donne lo mettono con le spalle al muro, gli chiedono una vita in comune e un figlio. Lui lo racconta così: "Con Franca, questa magnifica italiana di trentasei anni, che alla sua età aveva disperato di poter ancora amare, fu peggio. Un giorno sbarcò a Parigi con il pretesto di seguire un corso di Lévi- Strauss, mi avvertì per telefono del suo arrivo e mi disse che potevo fare di lei quel che volevo. Entrò perfino in casa mia passando dalla finestra. Era troppo chiaro. Mi ammalai subito, fortemente depresso. Anche lei aveva avuto delle "idee" su di me". Nell' epistolario, come già nell' autobiografia, Althusser dà libero corso alla sua follia amorosa e mette in luce il suo rapporto con la psicanalisi. Non solo quello teorico con il pensiero di Lacan, ma quello della sua terapia con René Diatkine, che prese in cura anche Hélène. Da questo punto di vista, le lettere a Franca Madonia offrono agli studiosi nuovo materiale per cercare di "razionalizzare" la figura di Althusser e del suo labirintico pensiero. La corrispondenza (l' editore francese ha incluso anche ventidue lettere di Franca) termina nel 1973. I due s' incontrarono ancora una volta a Bologna nel 1980. Pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, Althusser strangola la moglie durante una crisi depressiva, tragico epilogo di un rapporto durato trentaquattro anni. Franca Madonia morirà a Parigi nell' 81 per una cirrosi causata dall' epatite C. Ma non rivedrà Louis Althusser, rinchiuso nell' ospedale psichiatrico Sainte-Anne. Non fu mai processato per l' omicidio della moglie, perché ritenuto incapace di intendere e di volere.



Martine de Rabaudy, Le fou de Franca, L'Express 19 novembre 1998
 Le dimanche 16 novembre 1980, Louis Althusser étranglait sa femme, Hélène. L'une des plus importantes figures de la philosophie, le caïman (directeur d'études) à l'Ecole normale supérieure de Michel Foucault et de Régis Debray, le découvreur de Jacques Lacan devenait au cours d'une crise de démence un assassin. La communauté intellectuelle française et internationale ressentait la nouvelle comme une déflagration. Quelques jours après le meurtre, une Italienne, traductrice et philosophe elle aussi, accourait à Paris et se présentait à l'hôpital Saint-Anne afin de le voir. Sous le choc, et face à l'interdiction formelle de visites, elle était prise d'un violent malaise provoqué par une perforation de l'estomac. Opérée en urgence, victime d'une complication hépatique, elle succombait à Villejuif, deux mois et demi après la mort d'Hélène, sans qu'Althusser, englouti dans son brouillard dépressif, l'apprenne. Cette femme, très belle, se nommait Franca Madonia. Elle était l'amie d'Hélène et l'amour de Louis.
Chronique vivante des idées de l'époque
En 1961, lorsqu'ils se découvrent en Italie dans la bienheureuse atmosphère familiale des Madonia, une maison en Romagne qualifiée par Althusser de «paradis de Bertinoro», il a 42 ans et elle 35. Malgré une passion partagée, aucun des deux ne chamboulera la structure de son existence: Louis rentre à Paris accompagné d'Hélène et Franca demeure auprès de Mino, son mari. L'irréfutable preuve de l'intensité de leur histoire est apportée aujourd'hui par la publication des Lettres à Franca, grâce au précieux travail de François Matheron et Yann Moulier Boutang, biographe du philosophe, qui ont classé et annoté plus de 500 lettres écrites entre 1961 et 1973 par Althusser à celle qui deviendra également la traductrice de ses oeuvres, dont Pour Marx. On trouvera seulement 22 réponses de Franca - mais essentielles - de celle qu'il appelait alternativement «Carogna», «Mon soleil noir» ou «Amore» et qu'il remerciait d'avoir bouleversé sa façon d'aimer dans une magnifique dissertation sentimentale, datée du 23 septembre 1961, sur la notion de présence ou d'absence de l'être aimé. L'ouvrage compte plus de 800 pages et, hélas! n'aurait matériellement pu en intégrer davantage.
L'exceptionnel intérêt de cette correspondance, d'une teneur et d'un style incomparables, par exemple, avec celle d'un Sartre et d'une Beauvoir (Lettres au Castor), réside, par-delà leur magnifique échange amoureux, dans la chronique vivante des idées de l'époque, les rencontres avec Barthes, Lacan, Foucault, Derrida, les lectures commentées de Freud, de Marx... On y perçoit le sens aigu de la responsabilité d'un maître à l'égard de ses élèves, le dévouement du professeur pour son école (combien de permanences de week-end, de vacances différées, d'heures passées à la réorganisation de la Rue d'Ulm!), l'altruisme envers ses collègues, l'attention permanente à ses amis, la compassion pour les souffrances psychiques d'Hélène. Beaucoup plus profondément que dans son autobiographie, L'avenir dure longtemps, écrite en 1985, après le drame, on pénètre ici dans l'immensité douloureuse d'une personnalité dédoublée par la psychose. On découvre une impressionnante lucidité et une analyse affûtée de ses crises de dépression, une formidable gourmandise de vivre à chaque rémission, une infatigable écoute des autres (ainsi la lettre poignante qu'il envoie après le suicide de son plus cher ami, philosophe et traducteur de Hegel, atteint de schizophrénie). Cette relation épistolaire jette un éclairage inconnu jusqu'alors sur les ténèbres de cet homme qui, mieux que quiconque, médecin ou psychanalyste, savait monter la garde devant sa terrible angoisse ontologique. Averti de l'issue, le lecteur avance comme le marcheur oppressé qui regarde le ciel se charger avant l'orage. On en sort ébloui et foudroyé.

martedì 17 gennaio 2017

Al termine della notte, incipit



A ottant'anni dalla sua pubblicazione e a cinquanta dalla morte del suo autore, Viaggio al termine della notte si impone come il romanzo che ha saputo meglio capire e rappresentare il Novecento, illuminandone con provocatoria originalità espressiva gli aspetti fondamentali. «Céline è stato creato da Dio per dare scandalo», scrisse Bernanos quando nel 1932 il romanzo diventò un successo mondiale, suscitando entusiasmi e contrasti feroci. Lo «scandalo Céline», che dura tuttora, è la profetica lucidità del suo delirio, uno sguardo che nulla perdona a sé e agli altri, che ha il coraggio di affrontare la notte dell'uomo così com'è. L'anarchico Céline, che amava definirsi un cronista, aveva vissuto le esperienze più drammatiche: gli orrori della Grande Guerra e le trincee delle Fiandre, la vita godereccia delle retrovie e l'ascesa di una piccola borghesia cinica e faccendiera, le durezze dell'Africa coloniale, la New York della «folla solitaria», le catene di montaggio della Ford a Detroit, la Parigi delle periferie più desolate dove lui faceva il medico dei poveri, a contatto con una miseria morale prima ancora che materiale. Totalmente nuovo, nel panorama francese ed europeo, è stato poi il suo modo insieme realistico e visionario, sofisticato e plebeo con cui Céline ha saputo trasfigurare questa materia incandescente. Per lui, in principio, è l'emozione, il sentimento della vita: di qui l'invenzione di un linguaggio che ha tutta l'immediatezza del «parlato» quotidiano, capace di dar voce, tra sarcasmi e pietà, alla tragicommedia di un secolo. Questo libro sembra riassumere in sé la disperazione del Novecento: è in realtà un'opera potentemente comica, esilarante, in cui lo spettacolo dell'abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell'incubo. (presentazione editoriale)


Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (1932), incipit


È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. È Arthur Ganate che mi ha fatto parlare. Arthur, uno studente, anche lui di medicina, un compagno. Ci troviamo dunque a Place Clichy. Era dopo pranzo. Vuol parlarmi. Lo ascolto. "Non restiamo fuori! mi dice lui. Torniamo dentro!". Rientro con lui. Ecco. "'Sta terrazza, attacca lui, va bene per le uova alla coque! Vieni di qua". Allora, ci accorgiamo anche che non c'era nessuno per le strade, a causa del caldo; niente vetture, nulla. Quando fa molto freddo, lo stesso, non c'è nessuno per le strade; è lui, a quel che ricordo, che mi aveva detto in proposito: "Quelli di Parigi hanno sempre l'aria occupata, ma di fatto, vanno a passeggio da mattino a sera; prova ne è che quando non va bene per passeggiare, troppo freddo o troppo caldo, non li si vede più; son tutti dentro a prendersi il caffè con la crema e boccali di birra. È così! Il secolo della velocità! dicono loro. Dove mai? Grandi cambiamenti! ti raccontano loro. Che roba è? È cambiato niente, in verità. Continuano a stupirsi e basta. E nemmeno questo è nuovo per niente. Parole, e nemmeno tante, anche le parole che son cambiate! Due o tre di qui, di là, di quelle piccole..." Tutti fieri allora d'aver fatto risuonare queste utili verità, siamo rimasti là seduti, incantati, a guardare le dame del caffè.



Ça a débuté comme ça. Moi, j'avais jamais rien dit. Rien. C'est Arthur Ganate qui m'a fait parler. Arthur, un étudiant, un carabin lui aussi, un camarade. On se rencontre donc place Clichy. C'était après le déjeuner. Il veut me parler. Je l'écoute. « Restons pas dehors ! qu'il me dit. Rentrons ! » Je rentre avec lui. Voilà. « Cette terrasse, qu'il commence, c'est pour les œufs à la coque ! Viens par ici ! » Alors, on remarque encore qu'il n'y avait personne dans les rues, à cause de la chaleur ; pas de voitures, rien. Quand il fait très froid, non plus, il n'y a personne dans les rues ; c'est lui, même que je m'en souviens, qui m'avait dit à ce propos : « Les gens de Paris ont l'air toujours d'être occupés, mais en fait, ils se promènent du matin au soir ; la preuve, c'est que lorsqu'il ne fait pas bon à se promener, trop froid ou trop chaud, on ne les voit p lus ; ils sont tous dedans à prendre des cafés crème et des bocks. C'est ainsi ! Siècle de vitesse ! qu'ils disent. Où ça ? Grands changements ! qu'ils racontent. Comment ça ? Rien n'est changé en vérité. Ils continuent à s'admirer et c'est tout. Et ça n'est pas nouveau non plus. Des mots, et encore pas beaucoup, même parmi les mots, qui sont changés ! Deux ou trois par-ci, par-là, des petits... » Bien fiers alors d'avoir fait sonner ces vérités utiles, on est demeurés là assis, ravis, à regarder les dames du café.
 
http://machiave.blogspot.it/2014/07/bardamu-scopre-la-guerra.html

venerdì 13 gennaio 2017

In principio erano le mutande

Il primo romanzo di Rossana Campo



Peter Gahl

... In principio erano le mutande [1992] presenta caratteristiche riconducibili al genere picaresco: la narratrice e protagonista è una donna ventisettenne senza mestiere ben preciso che fa parte di una sorta di bohème genovese. La giovane tira avanti a forza di prestiti, lavoretti e inviti, e gran parte del testo racconta la sua movimentata vita sentimentale (e sessuale): la giovane si considera afflitta da «una lunga serie infinita di sfighe», e – pur essendosi dedicata «alla ricerca dei piaceri edonistici sfrenati di vera lussuria» (p. 28) – si innamora ripetutamente di tipi definiti ogni volta come «infami». Il romanzo è tuttavia a lieto fine, perché a un certo punto la giovane si ritrova incinta e riesce a convincere il padre del nascituro – «l’infame numero tre» (p. 55) – a mettere su casa con lei.
All’interno della trama sono inoltre inseriti dei capitoli basati su ricordi della prima adolescenza della narratrice. Si tratta tuttavia di episodi non legati alla vicenda principale: nel complesso la struttura del libro risulta dunque variegata e in certo qual modo discontinua, complicata anche dall’inserzione di digressioni relative a personaggi secondari o al racconto di antefatti, ricordi ecc. Tali digressioni sono di regola introdotte da formule colloquiali come: «Ora la storia di questa Christina ve la faccio» (p. 63). Pertanto l’andamento della narrazione piuttosto che seguire il lineare svolgimento diacronico dei fatti è costruito sulla falsariga del racconto casuale, in cui l’intreccio dei vari fili viene gestito in modo da apparire frutto di un’affabulazione spontanea e naturale.

https://cei.revues.org/917
file:///C:/Users/GIOVAN~1/AppData/Local/Temp/TesidilaureaMAVertalenCommento.pdf http://dspace.library.uu.nl/handle/1874/31275

sabato 7 gennaio 2017

La leggenda di Teodorico


Fiorella Simoni, Il re che scese agli Inferi, Storia e dossier, giugno 1987, pp. 49-50

Due rilievi situati sul lato destro, in basso, della facciata di San Zeno in Verona rappresentano, rispettivamente, un cavaliere in corsa ed un cervo braccato dai cani che si avvicina alle dimore infere, dove un demonio è in attesa. In entrambi i riquadri è apposta un'iscrizione latina, che nel primo riquadro dice: "O re stolto! Chiede un tributo agli inferi. E subito è pronto il cavallo che il demonio iniquo ha inviato. Esce nudo dallaqcqua e va verso gl'inferi per non tornare"; e nel secondo: "Gli vengono donati uno sparviero, un cervo, un cane. E' l'Averno che li dona". Una lunghissima tradizione erudita vuole che questi rilievi (attribuiti generalmente al maestro Nicolò, attivo in Verona intorno al 1138) siano connessi con la leggenda del re goto Teodorico.
Del resto almeno due testi medievali, sia pure più recenti dei rilievi, sembrano fornirci la descrizione puntuale delle immagini scolpite. In uno di questi testi, la saga nordica di Teodorico, del XIII secolo, si legge pressappoco (con la sola eccezione del finale) quello che troviamo nella poesia di Giosuè Carducci: Teodorico, ormai vecchio, è a bagnarsi in una località che da lui prende il nome, quando gli viene annunciata l'apparizione di un cervo straordinario; il re balza dall'acqua e monta su un cavallo nero che gli si presenta davanti, un cavallo da cui non potrà scendere e che lo porterà via senza che si abbia più notizia di lui. Ancora più vicino ai rilievi di San Zeno è il racconto narrato nelle Storie imperiali di Giovanni Mansonario, agli inizi del XIV secolo. Secondo Giovanni il volgo favoleggiava che Teodorico avesse chiesto in dono al diavolo un cavallo e dei cani e che, ricevutili mentre era a bagnarsi, fosse saltato in groppa al cavallo, scomparendo. La dominazione di Teodorico in Italia aveva segnato per molti aspetti un'età felice, di pace e di riordinamento. Ma l'illusione di far convivere in armonia gli Ostrogoti ariani ed i Romani cattolici,era naufragata sul volgere della vita di Teodorico, con le esecuzioni di Boezio e di Simmaco e con la morte in carcere del pontefice Giovanni. Queste fini tragiche gettarono una luce sinistra sulla fine dello stesso re goto, avvenuta nel 526. La sua morte fu subito connessa con quella delle sue vittime e con il suo irrigidimento nell'eresia ariana; per gli storiografi del VI secolo Teodorico sarebbe morto per una colica, come Ario, o addirittura, in una sorta di allucinazione, sarebbe morto di terrore per aver visto, nella testa di un gran pesce imbanditogli a mensa, la testa di Simmaco decapitato. Queste voci persistettero, arricchendosi di particolari drammatici. Nei Dialoghi di papa Gregorio Magno, tra il 593 e il 594, la leggenda ha già raggiunto la forma con la quale avrebbe varcato i secoli. Attraverso tre generazioni era giunto al pontefice il racconto di un eremita di Lipari, coevo di Teodorico, che affermava di aver visto il re discinto e scalzo, con le mani legate, trascinato dal papa Giovanni e dal patrizio Simmaco, e quindi gettato nella bocca di un vulcano.
Se nel mondo latino la figura di Teodorico era divenuta quella di un feroce tiranno preda del diavolo, diversamente si parlava di lui nel mondo germanico. Scomparsi gli Ostrogoti dalla storia con la riconquista giustinianea, il loro più grande re, il conquistatore d'Italia, Teodorico, aveva continuato a vivere nella memoria di tutte le genti germaniche. Così nell'anno 801 l'imperatore franco Carlo Magno ordinava il trasporto ad Aquisgrana di una statua equestre del re goto; e nella Svezia precristiana del IX secolo, come risulta dall'iscrizione runica della pietra di Rök, un padre addirittura "consacrava" suo figlio a Teodorico, già animoso signore di guerrieri che, precisava il testo,"ora siede armato sul suo cavallo, con lo scudo in spalla". E la memoria positiva di Teodorico di Verona [Dietrich von Bern], che pare improntasse antichi canti popolari, ha poi lasciato traccia di sé, tra VIII e XIII secolo, nei carmi eroici e nell'epica germanica. 
Ma anche per le sue genti Teodorico, pur nella sua grandezza, aveva fallito il proprio obiettivo. Ed allora la leggenda romano-cattolica aveva potuto attecchire nel mondo germanico, sia pure con un sostanziale mutamento: Teodorico era sceso all'inferno, ma non come ombra perseguitata da ombre romane, bensì solo, assiso su un cavallo nero, e vivo. I rilievi di San Zeno costituirebbero in tal senso la prima attestazione dell'evoluzione eroico-fantastica della leggenda cattolica, una evoluzione su cui si intratteneva criticamente, pochi anni dopo l'esecuzione dei rilievi veronesi, il vescovo di Frisinga Ottone, zio di Federico Barbarossa. Non tutti però dimostravano lo stesso aristocratico scetticismo del prelato svevo. Alcuni parlavano invece di apparizioni del re goto. Annali provenienti dalla città di Colonia registrano nell'anno 1197 la comparsa, presso la Mosella, di un fantasma di straordinaria grandezza montato su un cavallo nero. Ad alcuni attoniti viandanti il fantasma avrebbe detto di essere Teodorico, già re di Verona, ed avrebbe annunciato l'avvento di prossime calamità.
Nel mondo germanico la demonizzazione di Teodorico era dunque tanto ambigua, e tanto carica di tensione eroica, da sconfinare in una esaltazione privilegiata del personaggio, condannato ad una sorta di demoniaca immortalità. Come Artù, come Carlo Magno, come Federico Barbarossa, anche Teodorico, in questa visione, non avrebbe mai cessato di far parte della storia del mondo. La leggenda che lo aveva fatto discendere vivo agli inferi lo voleva ancora presente in terra: come apparizione profetica, come guerriero fantasma, o ancora nel folklore del XIX e del XX secolo, come guida delle notturne schiere infernali, nella cosiddetta Caccia Selvaggia. E' possibile che i rilievi di San Zeno siano da porre in relazione con un'aura di attesa fiabesca che già circondava la figura di Teodorico. Ma, mentre si eternava nel marmo la leggenda di una sua fine straordinaria, si smentiva, con le parole incise, ogni corollario di umbratile sopravvivenza: Teodorico, disceso vivo agli inferi, non sarebbe tornato mai più. E' possibile però che l'immagine scolpita, testimone di una fine fuori da ogni norma, abbia ridato vita all'antica credenza pagana di un Teodorico re sacro, signore di battaglie, alimentando le voci di un suo ritorno.In realtà non abbiamo neppure l'assoluta sicurezza che i rilievi di San Zeno siano nati in riferimento a Teodorico. Resta comunque il fatto che in Verona, la città che aveva legato indissolubilmente il suo nome a quello di Teodorico, nella figura a cavallo diretta agli inferi la tradizione interpretativa ha ravvisato, pressocché unanime, il re goto. I riquadri di San Zeno restano così a testimoniare un diffuso senso di disagio e di incertezza di fronte alle contraddizioni ed all'ambivalenza di un personaggio che aveva voluto reggere in pace due culture diverse, ma aveva poi lasciato dietro di sé un progetto incompiuto ed un problema irrisolto. 

https://it.wikisource.org/wiki/Rime_nuove/Libro_VI/La_leggenda_di_Teodorico


Silvia Pedone, “C’era una volta un Re”. Appunti sul mito di Teoderico nella letteratura e nell’arte, in Rex Theodericvs. Il Medaglione d’oro di Morro d’Alba, a cura di C. Barsanti, A. Paribeni, S. Pedone, Roma 2008, pp. 273-281. 

 

giovedì 5 gennaio 2017

Svevo alias Bloom





Enrico Terrinoni, Joyce e Svevo, affinità elettive e biografiche, il manifesto 5 gennaio 2017


Il 20 settembre del 1928 James Joyce scrive a una sua mecenate: «Il povero Italo Svevo è morto giovedì scorso in un incidente automobilistico. In qualche modo quando si tratta di ebrei sospetto sempre un suicidio… Ne sono rimasto molto addolorato ma penso che i suoi ultimi cinque o sei anni siano stati felici». Parole che rispondono idealmente ai dubbi sollevati da Svevo stesso qualche mese prima nel suo Profilo autobiografico: «Lo Svevo seguiva con simpatia l’inaudito successo del Joyce, ma chissà se l’artista tanto differente da lui avrebbe trovato nel proprio cuore un po’ di simpatia per il confratello meno fortunato?»
SAPPIAMO ORA assai bene quanto l’artista più famoso non solo avesse a cuore il suo amico meno blasonato, ma anche quale fondamentale ruolo giocò nel diffonderne l’opera in quegli anni difficili. Joyce non si limitò a insegnare l’inglese a Joyce o a presentarne i romanzi a critici influenti. Egli ne rese immortale persino la moglie, Livia Veneziani, regalando il suo nome a un personaggio immortale del Finnegans Wake: Anna Livia Plurabelle; e questo dopo aver, in passato, modellato il personaggio di Leopold Bloom proprio sui caratteri di Ettore Schmitz.
Del rapporto tra Svevo e Joyce ci parla in maniera informata e godibilissima il bel libro di Stanley Price, James Joyce and Italo Svevo (Somerville Press, pp. 248, euro 18), entrando nel vivo non solo di un’amicizia letteraria, ma nel percorso di due vite parallele; come se ognuno idealmente vivesse, o volesse vivere la vita dell’altro. Le somiglianze biografiche sono scioccanti. Entrambi figli di padri economicamente poco avveduti, entrambi in gioventù addetti alla corrispondenza in banche austriache (Joyce a Roma, Svevo a Trieste), entrambi a lungo affiancati da fratelli che conservavano il loro mito e ne trascrivevano le gesta, entrambi autori «pubblicati» prima dei vent’anni; e infine, entrambi avversi alla religione.
MA FERMARSI alle affinità è riduttivo, perché nel caso della grande arte, ogni cosa è anche il suo opposto. A tenerli distanti vi era l’autostima, altissima nel caso dell’irlandese, bassissima in quello del triestino; e poi l’atteggiamento nei confronti della psicanalisi. Svevo ne era affascinato, Joyce la considerava soltanto fumo negli occhi. E infine, la passione per il fumo che ebbe Svevo fu pari soltanto all’amore che Joyce provò per l’alcool. Ma quel che allontanandoli più li avvicina, ovvero, quel che nella vita dell’uno diviene la fiction dell’altro, è l’atteggiamento nei confronti della morte. Svevo temeva d’esser sepolto vivo, e nel testamento del 1927 scrive: «Mi raccomando: puntura al cuore». Parole che ricordano macabre riflessioni di Bloom nel sesto episodio dell’Ulisse quando al cimitero osserva dei becchini lanciare pesanti zolle su una bara «E se fosse stato vivo tutto il tempo? Ops! Perbacco, sarebbe orribile! No, no: è morto, ovviamente. Ovviamente è morto. È morto lunedì. Dovrebbero avere una qualche legge per fargli trafiggere il cuore ed esserne certi».
UNICO ERRORE, allora, ma curiosamente molto rivelatore in questo libro affascinante, è che l’ironica ma serissima raccomandazione del testamento Svevo di cui sopra, in traduzione diviene: «Please: pierce my heart», ovvero: «per favore: trafiggetemi il cuore». Joyce avrebbe sorriso al pensiero di quanto quest’immagine sappia adattarsi ai sogni reconditi e repressi di Leopold Bloom, il personaggio tramite cui Italo Svevo vivrà in eterno.