sabato 29 aprile 2017

Via col vento, inizio e fine del romanzo



Margaret Mitchell, Via col vento (1936) 

Rossella O' Hara non era una bellezza; ma raramente gli uomini se ne accorgevano quando, come i gemelli Tarleton, subivano il suo fascino. Nel suo volto si fondevano in modo troppo evidente i lineamenti delicati della madre - un'aristocratica della Costa, oriunda francese - con quelli rudi del padre, un florido irlandese. Ma era un viso che, col suo mento aguzzo e le mascelle quadrate, non passava inosservato. Gli occhi verde chiaro, senza sfumature nocciola, ombreggiati da ciglia nere e folte, avevano gli angoli volti leggermente all'insù. Le sopracciglia nere e folte piegavano anch'esse verso l'alto, tracciando una strana linea obliqua sulla sua candida pelle di magnolia - quella pelle così apprezzata dalle donne del Mezzogiorno, che la riparano con infinita cura dai raggi ardenti del sole della Georgia mediante cuffie, veli e mezzi guanti.  
...
Con lo spirito del suo popolo che non riconosce la sconfitta anche quando se la trova di fronte, rialzò il mento. Avrebbe riconquistato Rhett. Sapeva di poterlo fare. Non era mai esistito un uomo che ella non potesse avere, se lo voleva. "Penserò a tutto questo domani, a Tara. Sarò più forte, allora. Domani penserò al modo di riconquistarlo. Dopo tutto, domani è un altro giorno."


°°°

Scarlett O’Hara was not beautiful, but men seldom realized it when caught by her charm as the Tarleton twins were. In her face were too sharply blended the delicate features of her mother, a Coast aristocrat of French descent, and the heavy ones of her florid Irish father. But it was an arresting face, pointed of chin, square of jaw. Her eyes were pale green without a touch of hazel, starred with bristly black lashes and slightly tilted at the ends. Above them, her thick black brows slanted upward, cutting a startling oblique line in her magnolia-white skin — that skin so prized by Southern women and so carefully guarded with bonnets, veils and mittens against hot Georgia suns.
... 
With the spirit of her people who would not know defeat, even when it stared them in the face, she raised her chin. She could get Rhett back. She knew she could. There had never been a man she couldn’t get, once she set her mind upon him.
“I’ll think of it all tomorrow, at Tara. I can stand it then. Tomorrow, I’ll think of some way to get him back. After all, tomorrow is another day.”

mercoledì 26 aprile 2017

Lombroso a Jasnaja Poljana




Emiliano Vincenzo Toppi, Lombroso e Tolstoj, la prova del nuoto

Un segno della diffusione del nuoto tra gli uomini di lettere e di scienza può essere considerato il curioso episodio che coinvolse lo psichiatra italiano Cesare Lombroso e il grande scrittore russo Lev Tolstoj. I due si incontrarono infatti nell’agosto del 1897 presso la tenuta di Jasnaja Poljana, residenza e rifugio dello scrittore, posta nel governatorato di Tula (a circa duecento chilometri da Mosca). In quei giorni Lombroso si trovava a Mosca per il dodicesimo congresso internazionale di Medicina e venne ospitato, su invito personale dello zar Nicola II, presso un lussuoso appartamento al Cremlino. Le teorie lombrosiane, in estrema sintesi, ruotano attorno ad un nucleo fondamentale di idee secondo le quali i criminali sono contrassegnati da aspetti naturali, biologici, che li rendono tali. Le idee del medico italiano oggi ci appaiono assurde, ma del resto l’epistemologia novecentesca ci insegna che la scienza prosegue per tentativi ed errori.
Trovandosi a così poca distanza dalla residenza di quello che egli riteneva essere (ed in questo non era solo) il più grande scrittore vivente, un vero e proprio genio, Lombroso decise di fare visita a Tolstoj. Poteva quindi cominciare una sorta di esplorazione scientifico-naturalistica grazie alla quale lo psichiatra veronese sperava di trovare conferma (o quella che egli avrebbe ritenuto un’ulteriore conferma) alla sua teoria del rapporto tra genio e follia. Secondo lui genio e follia erano due aspetti della stessa realtà psicobiologica: una realtà malata, alterata, distorta e disturbata. Vigeva quindi una sorta di legge di compensazione, che portava alcuni malati, folli (ai quali la natura non aveva concesso le caratteristiche che avevano invece gli altri) ad avere delle qualità geniali. Non era quindi qualcosa di totalmente positivo essere considerati geni dall’eccentrico e vivace positivista italiano e questo lo aveva capito benissimo lo stesso Tolstoj, che era abbonato a riviste provenienti da mezzo mondo, leggeva di tutto ed era quindi certamente a conoscenza (sia pure in modo generico) delle teorie di Lombroso. Lo scrittore russo accolse cortesemente la richiesta dello scienziato italiano ed accettò quindi di incontrarlo e di ospitarlo presso la sua tenuta di Jasnaja Poljana.
Proprio durante la sua prima giornata di permanenza in quel luogo incantevole, Lombroso venne invitato dallo scrittore a tuffarsi nel laghetto della Voronka. I due nuotarono insieme per un quarto d’ora, poi l’italiano cominciò ad annaspare. Tolstoj proseguiva invece fresco come una rosa, contento di poter dimostrare che il proprio non era certamente un organismo degenerato, come invece le teorie lombrosiane avrebbero portato a pensare. Ad un certo punto, Lombroso rischiò di affogare e Tolstoj lo salvò afferrandolo per i capelli, per poi letteralmente gettarlo nella piscina che si trovava lì vicino. Alla fine della nuotata, lo psichiatra espresse al suo ospite tutto il suo stupore nel vederlo così prestante e questi allora lo sollevò e lo prese in braccio, come se si trattasse di un cagnolino.
Nei giorni successivi Lombroso continuò a spiegare le proprie teorie allo scrittore russo, ma i due non si trovarono d’accordo praticamente su nulla. Complessivamente, lo psichiatra italiano ebbe la sensazione che Tolstoj fosse una persona molto buona.
Nel romanzo Resurrezione, dove il protagonista Nechljudov si interroga in modo assai profondo sul tema della pena, il grande scrittore russo espresse attraverso i personaggi tutta la sua avversione verso le teorie criminologiche lombrosiane.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Oltre ai saggi di Lombroso ed ai romanzi di Tolstoj, che non riporto per ragioni di spazio, ho avuto modo di consultare i seguenti testi. In essi, il lettore potrà trovare altri riferimenti.

S. Alfonsi, Nuoto, Giunti, Firenze 2008, pp. 95.
R. Catenacci, “Il genio e la follia. Quando Lombroso analizzò Tolstoj” (intervista a Paolo Mazzarello), la Provincia pavese, 10 febbraio 2015. Disponibile anche on line: http://laprovinciapavese.gelocal.it/tempo-libero/2015/02/10/news/il-genio-e-la-follia-quando-lombroso-analizzo-tolstoj-1.10841416
P. Mazzarello, Il genio e la follia. La strana visita di Lombroso a Tolstoj, Bollati Boringhieri, Torino 2005, pp. 123 (I edizione: Bibliopolis, Napoli 1998).

Mario Baudino, Quando Tolstoj salvò Lombroso da sicuro annegamento, La Stampa, 14 novembre 2019

Cesare Lombroso incontrò Lev Tolstoj, nella tenuta di Jasnaja Poljana, e per poco non finì annegato. Lo salvò l'ospite, con grande energia, tirandolo fuori da uno stagno infestato dalle ninfee dove gli aveva proposto una bella nuotata. Fu tutto sommato uno schiaffo al suo orgoglio, forse una inconsapevole vendetta dello scrittore: perché il fondatore dell'antropologia criminale non era stato affatto tenero con lui quando, nel suo bestseller, L'uomo di genio, ne aveva descritto l'abbondanza di «rughe del dolore», insieme al generale «aspetto cretinoso o degenerato»: che lo accomunava, bontà sua, ad altri geni alienati come Socrate, Ibsen e Dostoevskij.
Tolstoj probabilmente ne aveva notizia. Si sarebbe poi preso il piacere di rispondere in Resurrezione, dove un procuratore fa una lunga arringa in tribunale citando Lombroso e Charcot, e il presidente mormora a un giudice: «È un tremendo imbecille». Non erano fatti per capirsi. L'incontro avvenne nell'estate del 1897, quando il luminare torinese, all'apice della fama, sessantaduenne ma non particolarmente in forma, accettò l'invito a un convegno a Mosca – e fu, leggiamo nei ricordi delle figlia, una comica odissea, ivi compresa a Vienna una denuncia per furto del portafogli, salvo ricordarsi due giorni dopo di averlo lasciato al bureau dell'albergo - soprattutto per poter incontrare lo scrittore, per lui un oggetto interessantissimo di studio.
Superate non poche difficoltà, riuscì a raggiungerlo nella mitica tenuta agricola, dove fu accolto con distaccata cortesia e accadde il buffo episodio di un sessantenne tirato a riva per i capelli da un compagno che stava per tagliare il traguardo dei settanta: e che dopo l'impresa «eseguì qualche esercizio, sollevandosi robustamente sul trapezio; il Lombroso cercò d'imitarlo, ma per quanto si arrabattasse, rimase a terra», come raccontò Luciano Zuccoli, nel 1899 sull'Illustrazione Italiana. Tolstoj chiuse l'imbarazzante vicenda descrivendo nel diario l'ospite come «un vecchietto limitato, ingenuo».
È questa una storia, non delle più note, che circolò carsicamente fra gli studiosi fino a un libro di Paolo Mazzarello, Il genio e l'alienista (Bollati Boringhieri, 2005) da cui prende ora spunto Sergio Ariotti per una pièce teatrale, titolo L'incontro. Quando Tolstoj salvò Lombroso da sicuro annegamento, in prima nazionale fra oggi e sabato al Palazzo degli Istituti Anatomici di Torino, con Mauro Avogadro e Martino D'Amico; in occasione del decennale del Museo Lombroso, che fino al 6 gennaio espone alla Mole Antonelliana oltre 300 fotografie in dialogo con oggetti, strumenti, documenti e libri (sabato mattina è possibile una visita guidata con i curatori).

Il testo dello spettacolo è pubblicato – con lo stesso titolo - da Robin edizioni. Il lavoro teatrale è fedele alla storia, ma scava nella psicologa dei personaggi: due luminari, uno ferocemente positivista ma aperto a idee liberali, l'altro spiritualista e tormentato – per esempio dalla bulimia sessuale –, alfiere dell'amore cristiano e della solidarietà umana ma reazionario. Tutto sommato, al di là delle teorie lombrosiane e dei maldestri bagni, due tipi umani che ancora oggi si danno, per così dire, battaglia.








domenica 23 aprile 2017

Voltaire, Candido e il senatore




Voltaire, Candido, capitolo XXV

Candido incarica Cacambo di recuperare Cunegonda, ma è derubato dei suoi beni. Parte dunque per Venezia con Martino, un filosofo manicheo pessimista e dalla vita assai sfortunata, che rappresenta l’antitesi di Pangloss. I due risalgono in gondola il Brenta e giungono al palazzo del senatore Pococurante. Qui il gioco si fa complicato, Pococurante, da perfezionista incallito qual è, esprime a volte in modo spregiudicato opinioni condivise dallo stesso Voltaire. L'immagine di un uomo mai soddisfatto si converte alla fine in un apologo sulla felicità che fugge e non si lascia afferrare.

"Quante opere di teatro vedo là!" disse Candido, "in italiano, in spagnolo, e in francese."
"Sì", disse il senatore. "saranno tremila, ma non tre dozzine di buone. Quelle raccolte poi di sermoni, che tutti insieme non valgono una pagina di Seneca, e tutti quei gran volumi di teologia, credetelo, non li apro mai: non io né altri."
Martino vide degli scaffali carichi di libri inglesi.
"Credo", disse, "che un repubblicano dovrebbe per lo più di vertirsi con queste opere scritte così liberamente."
"Sì, rispose Pococurante, è bello scrivere ciò che si pensa, ed è questo un privilegio dell’uomo: in tutta la nostra Italia non si scrive solo quel che non si pensa. Coloro che abitano la patria di Cesare e degli Antonini non osano avere un’idea senza il permesso di un domenicano. Sarei contento della libertà che ispira gl’ingegni inglesi, se la passione e lo spirito di parte non corrompessero totalmente ciò che quella preziosa libertà ha di stimabile."
Candido scorgendo un Milton gli chiese se non considerasse quell’autore un grand’uomo.
"Chi?" disse Pococurante, "quel barbaro che fa un lungo commento del primo capitolo della Genesi in dieci libri di versi duri? Questo grossolano imitatore dei greci, che deturpa la creazione, e che mentre Mosè rappresenta l’Eterno che produce il mondo attraverso la parola, fa prendere al Messia un gran compasso, in un armadio del cielo, per tracciare la sua opera? Io, precisamente io,  dovrei forse stimare colui che ha guastato l’inferno e il diavolo del Tasso: che traveste Lucifero da rospo o da  pigmeo: che gli fa ribattere cento volte i medesimi discorsi; che lo fa disputare sulla teologia; che imitando seriamente l’invenzione comica dell’armi da fuoco dell’Ariosto, fa sparare il cannone nel cielo dai diavoli? Né io, né alcun altro in Italia ha potuto trarre piacere da tutte queste tristi stravaganze. Le Nozze del Peccato e della Morte, e le vipere partorite dal peccato, non fanno vomitare ogni uomo che ha il gusto un po' delicato, e la sua lunga descrizione di un ospedale va bene solo per un becchino. Questo poema oscuro, bizzarro e disgustoso fu schernito fin dalla nascita, ed io lo tratto oggi come fu trattato in sua patria dai contemporanei; del resto, dico ciò che penso, e mi preoccupo assai poco di vedere se gli altri la pensano come me."
Candido era afflitto da questi discorsi; lui che rispettava Omero, e un po' amava Milton.
"Ahimè", disse sottovoce a Martino, "temo proprio che quest'uomo nutra un sovrano disprezzo per i nostri poeti tedeschi."
"Non sarebbe un gran male", disse Martino.
"Oh che uomo superiore! diceva ancora Candido fra i denti. E che genio, questo Pococurante! Niente può piacergli."
Dopo aver passato così in rassegna tutti i libri, scesero in giardino; Candido ne lodava ogni bellezza. "Non conosco nulla che sia di un tale cattivo gusto", disse il padrone: "abbiamo qui solo quisquilie, ma subito domani ne faccio piantare uno di un disegno più fine.
Dopo che i due visitatori si furono congedati da sua eccellenza, Candido chiese a Martino:
"Ecco, ne converrete con me, il più felice di tutti gli uomini: è al di sopra di tutto ciò che possiede."
"E non vedete", rispose Martino, "che di tutto ciò che possiede è disgustato? Platone disse, molto tempo fa, che gli stomaci migliori non sono quelli che rigettano tutti gli alimenti."
"Ma", disse Candido, criticare tutto non è un piacere? Trovare dei difetti, dove gli altri uomini credono di vedere delle bellezze?"
"Sarebbe come dire" replicò Martino, "che può essere un gusto non provare gusto?"
"Oh bella!", disse Candido, "Allora soltanto sarò un uomo felice: quando potrò vedere la mia cara Cunegonda."
"E' sempre bene sperare", disse Martino. 

venerdì 21 aprile 2017

Mein Kampf in italiano



Angelo Bolaffi, Il "Mein Kampf" in italiano, un'edizione anti-fake news, la Repubblica, 19 aprile 2017

ADOLF Hitler continua a tormentare la coscienza europea. Anzi col passare dei decenni aumentano anziché diminuire gli interrogativi attorno a quello che appare sempre più un enigma storico, nonostante studi e ricerche sulla sua figura e sul movimento da lui guidato riempiano intere biblioteche. Proprio come aveva profeticamente intuito Salvator Dalí intitolando un suo quadro del 1939 "El enigma de Hitler". Il capo politico - vera e propria incarnazione del "male assoluto" - che nel giro di pochissimi anni fu capace di trascinare nella barbarie la Germania provocando la più traumatica frattura di civiltà dell'epoca moderna, sulla cui luciferina pericolosità i suoi contemporanei presero un abbaglio catastrofico commettendo un tragico errore di sottovalutazione, ci costringe sempre di nuovo a decifrare cause e dinamiche di un fenomeno politico evidentemente impossibile da storicizzare. Di più. Le inquietanti dinamiche dell'odierna crisi epocale che sta sconvolgendo i paradigmi culturali e geopolitici dell'Occidente impongono un supplemento d'indagine non solo sulle modalità storico-politiche che consentirono la presa del potere ma soprattutto un'analisi critica dei lemmi del messaggio grazie al quale Hitler riuscì a "convertire" una nazione al suo programma di odio e di violenza.

Occorre esaminare, dunque, le parole di quella Lingua Tertii Imperii - questo il titolo della magistrale indagine condotta da Victor Klemperer (Giuntina, 2008) - grazie alla quale Hitler e il regime nazista riuscirono, con l'obiettivo politico di manipolare le masse, ad asservire il pensiero stesso e la cultura di un intero popolo. A cominciare da Martin Heidegger. "Spero molto che tu faccia i conti in modo approfondito con il libro di Hitler", questa la calda esortazione rivolta dal filosofo al fratello Fritz in una lettera del 1931: "Che questo individuo abbia e abbia avuto uno straordinario e sicuro istinto politico quando tutti noi avevamo ancora la testa annebbiata, questo non lo può negare nessun individuo ragionevole (...) Non si tratta più di politica partitica ma della salvezza o del tramonto dell'Europa e della cultura occidentale".

Per questo va salutato come un importante avvenimento politico-culturale la pubblicazione in italiano di una edizione finalmente critica del Mein Kampf (Adolf Hitler: La mia battaglia , Free Ebrei edizioni, da domani acquistabile online sulle principali piattaforme in formato digitale e cartaceo) curata da Vincenzo Pinto, studioso del sionismo e dell'antisemitismo. Free Ebrei è un'associazione nata nella primavera del 2012 come sito d'informazione, per promuovere lo studio e la comprensione dell'identità ebraica: La mia battaglia inaugura la loro collana editoriale "Documenti". A questo volume, introdotto da un saggio dello storico britannico Richard Overy, farà seguito un secondo nel quale autori italiani e stranieri approfondiranno i principali problemi del Mein Kampf e lo stesso curatore ripercorrerà criticamente la vicenda delle precedenti traduzioni italiane (alcune ancora presenti nelle librerie online, mentre lo scorso anno il testo è stato distribuito in edicola, tra le polemiche, dal quotidiano Il Giornale ).

Come si ricorderà lo scorso anno, a cura dell'Istituto di storia contemporanea di Monaco di Baviera, era apparsa una edizione storico-critica del Mein Kampf (diventata poi bestseller): una scelta editoriale, quella degli storici tedeschi che ha sollevato nell'opinione pubblica, e non solo in Germania, un dibattito molto acceso, nel quale le valutazioni positive hanno ampiamente prevalso. Anche se non sono mancate autorevoli voci di dissenso come quella del britannico Jeremy Adler, studioso della letteratura della Shoah. Questa edizione italiana, che tiene ovviamente conto di quella tedesca, è la prima che appare in un paese dell'Europa occidentale (in Francia è prevista una edizione per l'anno prossimo presso l'editore Fayard, mentre in Inghilterra verrà pubblicata una traduzione integrale dell'edizione tedesca), ed è accompagnata da un imponente apparato storico-critico pensato non solo per una cerchia ristretta di specialisti, ma anche a scopi didattici. Infatti il lettore avrà a disposizione non solo una minuziosa cronologia della vita di Hitler fino al 1926, anno in cui apparve il secondo volume de La mia battaglia , ma anche un notevole glossario e un completo indice dei nomi. Inoltre ognuno dei 27 capitoli in cui è suddiviso il Mein Kampf viene introdotto da una sinossi contenente genesi, riassunto, analisi, parole chiave, bibliografia e un approfondimento in due sezioni: analisi retorica e analisi storico-culturale.

A parere del curatore Vincenzo Pinto, la cultura italiana "non ha ritenuto l'opera degna di rilevanza, finendo per mitizzare un testo molto disprezzato e sottovalutato", commettendo lo stesso errore compiuto dalla Germania di Weimar che lo fece oggetto di feroci stroncature: un libro "noioso, confuso, scritto male e fumoso" lo definì un recensore, mentre un altro parlò di "un guazzabuglio di frasi costruite male oppure sbagliate dal punto di vista grammaticale, che non ha alcun valore intellettuale". Contro tale superficiale e autolesionistico atteggiamento di colpevole incomprensione, La mia battaglia intende guardare in faccia l'incarnazione del "male" scoprendo che non è né metafisico né folle ma terribilmente "umano, troppo umano".

Niente esoterismo, niente magia, dunque. Hitler ha usato l'ebreo per creare il suo movimento populista facendo dell'ebreo il "nemico" della civiltà occidentale. Per riuscire a "scardinare in profondità il meccanismo retorico che alimenta il messaggio hitleriano", come spiega Pinto, esso va vivisezionato. Hitler e come lui anche altri politici populisti non possono essere "compresi attraverso una logica deduttiva o induttiva, semmai serve quella abduttiva", "nel senso indicato filosoficamente da Charles S. Peirce, elaborato storicamente da Carlo Ginzburg e semanticamente da Umberto Eco". Scopriremo così che l'antisemitismo di Hitler non è un semplice assioma del nazionalsocialismo, né il prodotto (più o meno distorto) di singoli episodi della vita reale. È invece "la deduzione "a ritroso" del medico detective che analizza i "presagi": i sintomi di decadenza fisica e morale lo portano a "scoprire" una "malattia" più profonda che va "giustificata" sul campo. Qui sta la grande forza del mito nazionalsocialista nelle democrazie di massa, ma anche la sua intrinseca debolezza: è l'espressione di un sentimento atavico (il bisogno di un capro espiatorio) che può essere risvegliato, ma che può anche essere messo a tacere dalle armi dei "semplici" fatti".

Nel saggio intitolato La tecnica dei nostri miti politici - l'ultimo scritto prima di morire nel 1945, nel suo esilio americano - Ernst Cassirer sostiene che nel periodo tra le due guerre mondiali sarebbe avvenuto non solo un mutamento radicale nelle forme della vita politica e sociale ma anche una completa trasformazione nelle forme del pensiero politico giacché "il tratto forse di maggior rilievo, ed è insieme il più allarmante, nell'evoluzione della nostra vita politica è il sorgere improvviso di un nuovo potere: il potere del
pensiero mitico". Una diagnosi stilata dal grande pensatore tedesco per decifrare l'enigma Hitler e più in genere il fenomeno del totalitarismo, e che suona terribilmente attuale in un mondo in cui l'agire politico è dominato da un nuovo potere: quello delle fake news.

lunedì 17 aprile 2017

L'opera dei Turchi a Prignano




Roba da Medioevo, si direbbe. E non è una tradizione riscoperta da qualche anno. No, no, lo spettacolo pubblico che si inscena a Prignano Cilento (Salerno) si ripete da sempre a memoria d'uomo ogni anno il lunedì dopo Pasqua. Il luogo esatto è la piazza davanti alla Chiesa di San Nicola, tra il giardino di palazzo Cardone e i campi. Il travestimento degli attori è approssimativo, rinvia a un mondo che si vuole lontano, i turchi a tavola mangiano spaghetti in modo selvaggio. Di fronte al miracolo, nel primo dei due episodi messi in scena, restano con gli spaghetti pendenti dalla bocca.
Perché lo spettacolo sopravvive? In parte per l'attaccamento alla tradizione, in parte per la rispondenza a un bisogno elementare di giustizia. Il malfattore è in qualche misura una sorta di alieno. Le repliche sono codificate, tornano uguali nelle parole e perfino nel tono. Gli attori improvvisati recitano a voce alta per farsi sentire dalla piccola folla raccolta sulla piazza. La lingua della recita è l'italiano, un italiano che non sempre arriva a nascondere il fondo dialettale sottostante ("Diodato! Vieni mangia"): la lingua della legge e del destino inesorabile.

Nel primo atto viene ricordato il miracoloso salvataggio di Diodato, un adolescente cristiano rapito dai Saraceni. La scena si apre con una tavola imbandita, dove un gruppo di Saraceni (chiamati genericamente “i Turchi”) si accinge a consumare un lauto pasto. A servirli è appunto lo sfortunato Diodato. In più occasioni il “Capoturco” lo provoca, invitandolo ad abiurare la sua religione e ad unirsi all’allegra compagnia. Diodato, però, rifiuta sdegnosamente l’invito, perché intende celebrare con il digiuno la festa di San Nicola di Bari, a cui è molto devoto. All’ennesimo rifiuto, il temibile Saraceno apostrofa duramente il giovane servo : “Ah, sciocco, sciocco! Se San Nicola fosse realmente un Santo miracoloso, verrebbe qui a liberarti dalla nostra schiavitù!”. A questo punto si compie il primo miracolo. Intenerito dalle esortazioni del fanciullo, il Santo invia un angelo a salvarlo, perché lo porti via, volando, lontano dalla schiavitù dei Saraceni, sbigottiti ed increduli per quanto avviene di fronte ai loro occhi. Questo è uno dei momenti centrali della rappresentazione. Un bambino vestito di bianco, appeso con un robusto gancio ad una carrucola che scorre su una fune, vola cantando dall'albero sotto il  campanile della Chiesa madre fino al palco dove si trova la tavolata dei Turchi. Diodato si aggrappa all’angelo e viene portato via. È questo il “volo dell’angelo”, che riempie di angoscia e stupore gli astanti, fin quando i due non approdano di nuovo all'albero, con le campane che suonano a festa.
La seconda scena racconta invece un episodio della vita del Santo, quando era ancora vescovo di Myra. Nicola desidera rifocillarsi dopo un lungo viaggio e si ferma in un’osteria. L’oste è un uomo malvagio e senza scrupoli, che non esita a dare in pasto ai suoi avventori tenera carne di bambino, spacciata per “tonnina”. Nicola, però, consapevole del turpe inganno, ordina all’oste di mostrargli il tino dove viene conservata la carne. Non appena la botte viene scoperchiata, quattro bambini escono fuori, vivi e vegeti, ringraziando il vescovo Nicola, che li aveva resuscitati con la forza della preghiera. Scoperto il terribile segreto, l’oste non può evitare la punizione capitale. Viene così condotto da una guardia nel fortilizio della città, per essere bruciato vivo. La scena dell’esecuzione viene riprodotta con una esplosione di petardi, alla quale segue un lungo applauso liberatorio degli spettatori. L’uccisione dell’oste, al tempo stesso barbara e simulata, ristabilisce l'equilibrio a danno di un personaggio disumano. Di fatto, i muri della prigione patibolo sono costituiti da canne che disfatte dall'esplosivo vanno subito in pezzi. L'oste che è persona nota al pubblico fugge dalla prigione patibolo tra gli scoppi dei petardi. L'applauso che segue festeggia tutto, la punizione e la libertà.

 http://www.lamandragola.org/?p=1952

















sabato 15 aprile 2017

Una favola morale


Concepita in origine da Montale, questa novella breve esce sul New Yorker trasposta e un po' rimpolpata da Irma Brandeis. (E. Montale, Lettere a Clizia, con un saggio introduttivo di Rosanna Bettarini, Mondadori, Milano, 2006, p. XXVII).



Clytia  or Clytie  was a water nymph, daughter of Oceanus and Tethys in Greek mythology. She loved Helios.








Irma Brandeis, Nothing serious, The New Yorker, July 13, 1935

In a little city, in a city the size of Florence, one does not take a taxi. There are taxis, to be sure:large green, fragile, metal taxis, with fantastic meters in full view of the client, and woven mats on the floor. But in Florence, if one rides, at all, one rides in a carrozza - a beautiful Italian barouche - with the driver in front, a sad but agreable horse to draw it, and an umbrella to keep off the sun in summer. Or one takes the electric tram. Or one walks. Inside the city all distances are short and attractive, so that no one takes taxi, unless an accident has happened, or there is a wedding, or a train to catch in the rain.
I took a taxi that day because I had to meet my Dutch friends at Rifredi, and there were no trains, and I was late. I took it regretfully and the driver accepted me with contemptuous surprise. We started off in these moods. We rushed down the first street. When we had driven about four blocks, and were on the Lungarno Guicciardini - that is to say when I had just about enough time to settle my suitcase away from my knees, light a cigarette, and lean back, I saw the other taxi coming. It was driving fairly stright towards us, and the traffic was thick. Nothing as obvious as what this threatened could possibly happen. I thought, and I thought of the rarity of traffic accidents in Florence. Then I closed my eyes, and put my hands over them. There was a loud, neat, metallic bang.
The situation was exceedingly clear and perfectly simple. My taxi had turned over and stoods on its head, wheels up. When I became aware of anything, it was of myself, sitting on the roof inside, with the gleaming leather seat hanging slightly loose above me. The windows were smashed and there were large splinters of glass about. My suitcase was jammed against one door and a street hydrant appeared to be lining in at the other. Outside a large crowd had formed, talking a great deal and elaborately lifting out my driver who swored as loudly as possible and felt himself all over with concern. I couldn't see the other taxi; although I tried, for I had nothing else to do.  I couldn't get out. I couldn't lean out because of the broken glass. I was too near to the ground to be heard above the angry yelps of the driver and the commiserations of the crowd.
"My leg is probably broken" he screamed, and the crowd felt his leg and yelled. "My taxi is in fragments!" He cursed well. I could not decide from his wether he was a native of Pisa or of Lucca. It was difficult to tell, with so much going on. I couldn't see wether the police was on the scene or not. The roof of a taxi when upside down is flat on the ground. It was odd and embarrassing to be forgotten like this.
But I had been forgotten. The talk was going on rapidly and informally outside. Nobody or everybody had seen everything. It was neither or both taxis' fault. My driver was having the time of his life talking. Everybody was enjoying the occasion. There was no hurry. I could see any number of parked bicycles on the sidewalk. The Arno flowed quietly on one side and doorsteps stood in the shadow on the other.
Then somebody said out of a clear sky, "So didn't you have a passenger with you?" There was a fraction of a seconds' pause. I do not know whether my driver had a moment's temptation to repudiate me. But he replied at last in a low, disgusted voice, Già! There should have been a woman." Ah, ah, ah!" responded the crowd. At once a child's face appeared outside the broken window. Then two. "There she is! She's there!" the first child shrieked. "Happily I am here," I said, but no one heard me. They were all screaming louder than before. "She is dead! She is killed!" they shouted. "A woman has been killed!". Then someone put his hand in through the glass and opened the door. It was my driver looking whole and interested. He lifted my suitcase out, carefully. I crawled after him between icicles of glass. I tried to crawl with dignity and composure. I knew the crowd would expect me to be dead, or if not, at least to be scream, to demand a million dollars. I had the American face. They became perfectly silent, staring at me. There was not a trace of accident, excerpt in the odd position of the taxi.
I came out and bowed. I said, "Gentlemen, I am the corpse." The moment I took a step forward, a path through the crowd opened out for me of its own accord, and I emerged with a silent escort of eyes. At the next corner I took a carrozza. It had all been simple and perilous and lightly incredible, and now was ever [over]. The River Arno rippled under the Ponte Santa Trinità.

http://machiave.blogspot.it/2017/02/montale-sul-new-yorker-1935.html

http://machiave.blogspot.it/2015/02/clizia.html

https://palomarblog.wordpress.com/2017/04/12/montale-per-i-lettori-americani-1936/

giovedì 6 aprile 2017

Ero e Leandro, un mito



Emiliano Vincenzo Toppi, Idee per una storia culturale del nuoto, Aqa, n. 2, luglio-dicembre 2016


Un libro originale e dalla scrittura sapiente ci introduce alla storia del nuoto attraverso le arti, la letteratura, la filosofia, il cinema. “L’ombra del Massaggiatore Nero. Il nuotatore, questo eroe” di Charles Sprawson. Il testo comparve  a Londra nel 1992 e venne pubblicato in traduzione italiana nel 1995 e di nuovo nel 2000, nella prestigiosa collana che porta il nome della casa editrice stessa. Si tratta di un “libro meravigliosamente poetico”, come ha scritto Oliver Sacks, che tratta della pratica natatoria e del suo intrecciarsi con la storia culturale occidentale e non solo. Del significato che il nuoto ha quindi assunto nella classicità, passando per Byron e Goethe, fino ad arrivare ai nostri giorni. Il lettore viene trasportato dall’eleganza di una scrittura sapiente verso territori culturali ancora quasi inesplorati o comunque sconosciuti ai più, offrendo stimoli ed informazioni preziose anche a chi volesse compiere ulteriori ricerche. […]
… la cultura classica ci offre un mito stupendo, tornato più volte nella letteratura occidentale. Si tratta del mito di Ero e Leandro. che narra della tragica vicenda di questi due amanti. Leandro viveva ad  Abido, località che sorge sul fronte asiatico dello stretto dei Dardanelli, nell’attuale Turchia [anatolica]. Ogni sera attraversava a nuoto lo stretto, anticamente chiamato Ellesponto (nel tratto più breve tra le due sponde ci sono solo 1250 metri) per raggiungere la sua amata Ero, sacerdotessa di Afrodite a Sesto. Ero, per aiutarlo ad orientarsi, teneva accesa una lucerna. Una notte una tempesta spense la lucerna e Leandro, disorientato, affogò nel mare. La mattina dopo Ero vide il corpo di Leandro vicino agli scogli e, distrutta dal dolore, si gettò da una torre dove stava, per raggiungere il suo amato e condividerne la sorte.
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Al tragico mito fa già riferimento Ovidio nelle Eroidi, ma si deve soprattutto a Museo Grammatico (V o VI secolo d. C.) l’averlo reso celebre, grazie al suo poemetto in esametri. Il mito venne poi ripreso da Dante nel XXVIII canto del Purgatorio e da molti altri autori della cultura occidentale [in particolare da Marlowe], suscitando anche l’interesse di George Byron:
“Nel maggio del 1810 lord Byron, giunto a Smirne dopo un soggiorno ad Atene in un’atmosfera di torpore e di sensualità tutti orientali, proseguendo il viaggio verso Costantinopoli volle fermarsi […] E là lo colse il desiderio di ripetere l’impresa di Leandro che quel mare aveva attraversato per giungere tra le braccia dell’amata Ero. Da questa esperienza […] sortì quel “pezzo d’occasione” Written after swimming from Sestos to Abydos.
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Dante, Purgatorio, XXVIII, 70-75
Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani, 72
più odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch’allor non s’aperse. 75
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Marlowe, Ero and Leander, 1598, incipit
On Hellespont, guilty of true-love’s blood,
In view and opposite two cities stood,
Sea-borderers, disjoined by Neptune’s might;
The one Abydos, the other Sestos hight.
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https://englishhistory.net/byron/poems/written-after-swimming-from-sestos-to-abydos/

domenica 2 aprile 2017

I rappresentanti naturali della virtù



Sergio Fabbrini, Un anno senza la passione di Fabrizio Forquet, Il Sole 24ore, 2 aprile 2017


Ad uno che è esterno al giornalismo, quest’ultimo appare come un mestiere tremendamente difficile. Non solo per i suoi ritmi, i suoi orari o per l’ansia che produce. Ma soprattutto per il ruolo che il giornalista assolve. Senza esagerarne gli effetti, tuttavia è evidente che un titolo o un articolo o una pagina di un giornale possono avere effetti immediati su una strategia aziendale o su una decisione politica, sulla reputazione di una persona o di un’organizzazione, come poche altre attività sociali possono avere.
Quella di uno studioso, ad esempio, può influenzare il modo di pensare di una comunità nel medio periodo, ma raramente ha un impatto immediato su una scelta politica o manageriale. Fabrizio mi è sembrato essere consapevole della delicatezza del suo ruolo di giornalista. Contrariamente ad una opinione presente nel suo ambiente, Fabrizio non riteneva che il ruolo del giornalista fosse quello di fare da “cane da guardia” della democrazia. Deve essere critico, ma non antagonistico. Eppure, per alcuni giornalisti italiani, è proprio quello il ruolo che i media dovrebbero assolvere. Essere un contro-potere quasi per definizione. Per loro, spetterebbe ai giornalisti opporsi al potere (politico ed economico) “a prescindere”.
C’è, in questa interpretazione, un tratto illiberale, che Fabrizio non ha mai condiviso. Illiberale, perché quei giornalisti fanno fatica a riconoscere che essi stessi, a loro volta, costituiscono un potere sociale in senso proprio. E come ogni potere deve essere tenuto sotto controllo da altri poteri (compresi quello politico ed economico). Eppure, quei giornalisti, insieme a non pochi magistrati, pensano di essere i rappresentanti naturali della virtù. Spetta a loro controllare gli altri, ma non viceversa. Fabrizio aveva letto Walter Lippmann sull’opinione pubblica o Robert Dahl sulla democrazia, comunque sapeva che in una società libera nessun potere (compreso quello dei media) può sottrarsi al controllo da parte degli altri poteri. Ovviamente è necessario che ogni potere sia in grado di auto-controllarsi, ma ciò non basta. La virtù è il risultato del funzionamento di un sistema di reciproci controlli tra poteri, non già la proprietà intrinseca di uno o di un altro di essi.