domenica 26 novembre 2017

Il tempo dilatato della morte




Paolo Salza, Nessun dio ci fermerà, romanzo in via di pubblicazione

Mise in moto, determinata, fredda. Fece manovra grattando crudelmente il cambio e imboccò con furia la stretta strada che porta in salita alle sorgenti del Po.
“Tanto non va lontano …”, disse Elio ai carabinieri che l’avevano raggiunto, e riferì delle sue minacce di andarsene a lavorare al Rifugio.
I carabinieri pensarono di inseguirla ma, vista la pioggia, la direzione intrapresa e conoscendo i luoghi, si dissero d’accordo: accendendosi una sigaretta, tornarono al coperto.


* * *


Ma in Francesca stava prepotentemente prendendo luce la risposta a quel dannato “che fare?”: ora voleva solo farla finita ormai.
Elio ne sarebbe stato contento, stava per fargli un regalo inatteso, lo sapeva. Ma non se la sentiva più di vivere ancora, al diavolo lui e tutto quello che era successo dal matrimonio in poi: tutto per colpa del marito e anche sua, ammise vergognosa, della sua viltà.
Tirava le marce fino a strozzarle, ansimava forte nel vestito fradicio, premeva forte l’acceleratore e teneva le gambe irrigidite per tentare di fermarne il tremolio. Sentiva gli occhi dilatati, attenta solo alle curve che intravvedeva appena tra il buio e le lacrime: una volta le temeva, quelle curve, ora le affrontava con disperata spregiudicatezza.
S’impose di non pensare più, mai più. Basta.
Conosceva benissimo il punto prescelto, il punto che l’attendeva e che la stava chiamando imperiosamente a sé: quello dove la strada si affaccia senza parapetto su una ripidissima discesa rocciosa e poi su una voragine di dirupi.
Quando vi arrivò trattenne il respiro, di colpo girò tutto a sinistra il volante e poi lo mollò, premette sull’acceleratore, e si coprì gli occhi. Avrebbe lasciato fare alle cose, era deciso, nulla le interessava più: una martire cristiana davanti ai leoni del Colosseo.
“Ma le martiri erano sante, senza peccato!”, il pensiero l’attraversò fulmineo, seguito immediatamente dell’altro: “Anche questo che fai è peccato!”. Si disse che l’avrebbero perdonata, e comunque succedesse quel che doveva succedere, lei non ne poteva più.
Si dispose ad attendere la morte senza muovere un dito. Ma non fu così facile, non è mai così facile. Non appena l’auto iniziò la folle corsa verso il basso, i suoi buoni propositi di passività si scontrarono con la dura e dolorosa concretezza della tragedia cercata: al primo violento scossone urlò e cercò di tenersi al volante, che però girava impazzito per conto suo.
Il meccanismo del pensiero, prima represso, esplose. Avrebbe potuto bloccare lo sterzo, si disse. Ma che importanza aveva ormai, si chiese sforzandosi di ridere di sé.
Un’esplosione rocciosa sulla fiancata sinistra, un colpo terribile alla spalla, un dolore fisico mai provato prima, finestrino e cristallo anteriore deflagrarono ferendola al volto. Il sangue le oscurò la vista ma la pioggia tentò pietosamente di lavarglielo, quando un altro pietrone incrinò l’avantreno: si spensero il motore e tutte le luci. Finalmente si bloccò il volante, ma lei lo intravedeva a malapena e riusciva a stringerlo ormai solo col braccio destro, il sinistro faceva troppo male.
Sembrava una pesantissima appendice urlante a ogni nuovo sobbalzo, e cercava di tenerlo fermo. Che idiozia non muovere un braccio per evitare il dolore adesso, si disse. E provava ad alzarlo gemendo, come per dimostrare a sé stessa di essere più forte di quel ferroso cavallo selvaggio, ma senza riuscirci.
Fu scaraventata sulla destra dell’abitacolo, batté la testa contro qualcosa: subito le vennero in mente le emicranie di Isxaaq: “Ma stava male così?”.
Si ritrovò nel palmo il freno a mano. Forse senza volerlo lo tirò violentemente, ottenendo solo un breve prolungamento della tortura che si era inflitta: l’inerzia del mezzo sull’erba fradicia lo spingeva comunque in basso, anche se più lentamente, verso il costone che dava sull’abisso.
Si chiese se quel gesto automatico corrispondesse a un suo estremo tentativo di fermare la catastrofe, di salvare sé stessa insieme al bimbo che certo stava già risentendo del suo terrore: ma ne concluse che non lo sapeva proprio, per capirlo ci sarebbe voluto del tempo e lei non ne aveva più.
Ma ecco improvviso il silenzio: superato il costone, l’auto girava lentamente su sé stessa nel vuoto, verso il fondo. La sensazione di essere senza peso le dette la nausea, una fugace immagine mentale di astronauti in una navicella persa nel buio spazio infinito e infinitamente lontano da Elio.
“Ci fosse qua Isxaaq mi abbraccerebbe… potremmo abbracciarci tutti e tre assieme”, ma subito le riprese l’angoscia: la sua creatura come avrebbe potuto sentirsi, dentro di lei?
E lui, Isxaaq, dov’era adesso il suo corpo giovane e bello, il suo sorriso aperto e disarmante, dov’erano le sue carezze da bimbo? Il bimbo …
Già nei giorni precedenti, quando temeva o sperava d’essere incinta, pregustava carezze simili dalla minuscola vita che le stava in grembo, e per qualche momento, in quella giornata, s’era permessa di immaginare un futuro con un bimbo da amare. Ma: “Non te lo sei meritato!”, sbraitò una nazista dentro di lei, e si ritrasse sgomenta.
“Ma a Isxaaq cosa stanno facendo, quei balordi?”.
Riuscì ancora in un millesimo di secondo a visualizzare il tragitto dell’ultima parte della sua vita: da sposa vergine e mamma dei somali a puttana, e poi in quel burrone.
“Ma quanto durerà ancora?”.
Non dovette attendere molto.

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